Una guida ai fatti della settimana in Medio Oriente e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale e quella araba
Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 15:48:25
L’Iraq è tornato teatro di violenti scontri. A luglio i sostenitori del chierico sciita Moqtada al-Sadr, forti del successo elettorale ottenuto nell’ottobre 2021, avevano occupato il parlamento iracheno per evitare che i rivali sciiti pro-iraniani formassero un esecutivo. I sadristi avevano anche chiesto lo scioglimento del parlamento e indizione di nuove elezioni. La corte federale irachena aveva però giudicato incostituzionale la richiesta (qui al-Jazeera fa un riassunto dei fatti chiave dell’ultimo periodo, mentre qui David Schenker spiega perché ritiene che un ruolo l’abbia giocato anche il disimpegno americano, che ha dato a Teheran nuovi margini d’azione).
Lunedì i sostenitori di al-Sadr hanno assaltato il palazzo presidenziale nella Green Zone dopo che il chierico aveva annunciato via Twitter la sua intenzione di ritirarsi dalla politica. Negli occhi di tutti è rimasta l’immagine dei manifestanti che fanno il bagno nella piscina del complesso presidenziale, simbolo flagrante dell’enorme divario che separa le élite di governo e la popolazione provata dalla mancanza d’acqua. Gli scontri con le milizie sciite pro-iraniane che hanno seguito l’invasione della Green Zone da parte dei sadristi hanno portato alla morte di almeno 12 persone, ha scritto il New York Times. Due di queste, si legge sempre sul quotidiano statunitense, sono state uccise nei pressi della dimora di Nouri al-Maliki, ciò che secondo Jane Arraf «illustra i pericoli di una crescente fazionalizzazione dei partiti sciiti iracheni». Le violenze non si sono però limitate a Baghdad: in altre zone dell’Iraq i sadristi hanno eretto blocchi stradali e forzato la chiusura di uffici governativi, incluso a Bassora, nel sud del Paese. Il primo ministro iracheno, Mustafa al-Khadimi, ha evitato di chiamare in causa le forze armate per sgomberare la Green Zone, ma come ha scritto il Wall Street Journal, se le violenze fossero proseguite, altri gruppi si sarebbero probabilmente uniti agli scontri. Al momento, però, si è trattato di una fiammata: al-Sadr ha richiamato i suoi sostenitori, che si sono allontanati dalla Green Zone.
Quando accaduto solleva numerosi interrogativi sui rapporti di forza interni all’Iraq, sul tempismo delle azioni di al-Sadr e sul futuro del Paese.
La prima domanda che tutti si fanno è: come ne esce al-Sadr? Vincitore o sconfitto? Le risposte non sono univoche. Secondo Abbas Kadhim, direttore dell’Iraq Initiative dell’Atlantic Council, quella di al-Sadr è una mossa disperata e nasce dalla sua sconfitta politica: dopo le dimissioni, i suoi parlamentari sono stati rimpiazzati da quelli di schieramenti opposti, ciò che ha tolto dalle mani di al-Sadr ogni potenziale leva in parlamento. Ora, quindi, al-Sadr starebbe dicendo ai suoi sostenitori: «sono stato sconfitto, tocca a voi trasformarmi in un giocatore vittorioso facendo tutto ciò che è necessario». L’Economist, che pure sottolinea come sia stato soltanto un colpo di mano giudiziario ad impedire originariamente ad al-Sadr di esprimere un primo ministro di suo gradimento, propone una lettura opposta: il chierico sciita è tutt’altro che sconfitto e i fatti degli ultimi giorni dimostrano quanto sia centrale nel sistema politico iracheno. Sajad Jiyad, ricercatore della Century Foundation intervistato dalla CNN, è della stessa idea: non solo al-Sadr ha dimostrato la sua importanza, ma ha anche fatto capire che ha la stessa capacità di mobilitare la sua base e, soprattutto, di «usare la violenza» delle altre milizie sciite. Ad ogni modo, le azioni di Moqtada al-Sadr non sono prive di conseguenze, anche negative, per il suo schieramento: Ali Al-Mawlawi su Amwaj Media ha infatti sottolineato come le azioni sconsiderate di al-Sadr, ad esempio il tentativo di intimidire il potere giudiziario iracheno, abbiano finito per alienargli il sostegno degli ex-alleati curdi e sunniti.
Mustafa Salim e Kareem Fahim (Washington Post) hanno fatto notare che la scelta di al-Sadr di alzare il livello dello scontro è giunta proprio in concomitanza con un duro messaggio proveniente dall’Iran: il Grand Ayatollah Kadhim Husayni al-Haeri, fino a quel momento sostenitore dall’Iran delle posizioni sadriste, ha infatti diffuso un messaggio in cui, pur senza nominarlo direttamente, attaccava il chierico iracheno e lo indicava come responsabile dell’instabilità del Paese. Ma non è tutto: al-Haeri ha anche annunciato il suo ritiro dalla vita pubblica, invitando di fatto i suoi seguaci iracheni a fare riferimento all’Ayatollah Ali Khamenei, guida suprema iraniana, anziché alle autorità religiose sciite irachene. Un nuovo capitolo dello scontro tra Qom e Najaf.
Come scritto in apertura, le violenze sono state una fiammata. È bastata infatti una parola da parte di Moqtada al-Sadr, e gli scontri a Baghdad sono terminati (per ora) con il ritiro dei suoi seguaci dalla Green Zone. La capacità di al-Sadr di dirigere così precisamente la folla è un messaggio inequivocabile della sua forza che, come ha scritto Samya Kullab, può essere utilizzata in maniera totalmente discrezionale sia per porre fine alle violenze che per destabilizzare l’intero Iraq. Cosa ha spinto al-Sadr a ritirare i suoi seguaci? Secondo lo “scoop” di Amwaj Media è stata una telefonata da Beirut, proveniente direttamente dal leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, che ha chiamato Moqtada al-Sadr per trovare una mediazione ed evitare la definitiva esplosione di una guerra intra-sciita. Obiettivo raggiunto, per ora.
Pakistan sommerso
Più di 1100 persone sono morte a causa delle devastanti inondazioni che si sono verificate in Pakistan. Tra questi ci sono 380 bambini, mentre sono complessivamente 33 milioni le persone che soffrono le conseguenze del disastro. L’ONU ha lanciato una richiesta di aiuti per quella che ha definito «una catastrofe climatica senza precedenti». Tutte le province pakistane sono state colpite, ma in particolare quelle meridionali del Balochistan e del Sindh. Un dato aiuta a comprendere il livello della catastrofe: la quantità di pioggia caduta in Pakistan ad agosto è superiore del 466% rispetto alla media degli ultimi 30 anni. I fiumi sono esondati e hanno distrutto i campi in un Paese dove il 65% della popolazione vive di agricoltura. Secondo la ministra per il cambiamento climatico Sherry Rehman un terzo del Paese è sommerso dall’acqua, che non si ritirerà velocemente. Se più di 1000 persone sono morte direttamente per le inondazioni, ora è partita una corsa contro il tempo per evitare che le morti indirette, causate dalla fame (l’acqua ha devastato i campi agricoli e distrutto gli allevamenti di bestiame) e dalla diffusione di malattie infettive, peggiorino il bilancio.
La stima dei danni è altrettanto impressionante: 10 miliardi di dollari secondo il ministro delle Finanze Miftah Ismail. Un conto salatissimo per un Paese in profonda crisi economica, segnato da livelli altissimi di inflazione e a rischio esaurimento delle riserve straniere (al momento in grado di coprire un solo mese di importazioni). Anche per questo il Fondo Monetario Internazionale ha dato il via libera all’invio di aiuti pari a 1,7 miliardi di dollari, porzione di un pacchetto di assistenza da 7 miliardi, a fronte del quale Islamabad dovrebbe implementare controverse politiche di austerità che prevedono, tra le altre cose, l’innalzamento dei costi dei carburanti. Sostegno arriva anche dall’estero: Qatar ed Emirati Arabi hanno inviato aerei carichi di aiuti, mentre dalla Turchia è partito un treno con i beni necessari in questa fase.
La situazione è ulteriormente complicata dall’incertezza politica: in questo scenario l’ex primo ministro Imran Khan, sostituito ad aprile da Shehbaz Sharif, ha buon gioco a criticare il governo facendo leva sul malcontento della popolazione.
Libia: la fine delle aspirazioni di Bashagha?
Poco prima della pausa estiva ci eravamo soffermati sul “successo” della compagnia petrolifera libica (NOC) che, come promesso dal suo nuovo capo, era riuscita a riportare la produzione di petrolio al di sopra del milione di barili al giorno (e nel frattempo l’Eni ha comunicato alla NOC la sua intenzione di investire nel Paese per aumentare la capacità libica di esportare gas naturale). Un fatto che non bastava ad annunciare la risoluzione della crisi libica, ma indicava almeno il suo non peggioramento. E invece, eccoci di nuovo a parlare dei violenti scontri scoppiati a Tripoli nella notte di venerdì scorso. Le violenze hanno coinvolto anche zone residenziali e il bilancio parla di oltre 30 morti e 160 feriti. Negli scontri ha perso la vita anche Mustafa Baraka, un comico conosciuto per i video pubblicati sui social network in cui ironizzava sulle milizie e sulla corruzione che piagano il Paese. Domenica una calma apparente dominava Tripoli, ma anche la testimonianza di Abu Salim, un insegnante tripolino, raccolta dall’AP lascia pensare che nuovi scontri possano verificarsi in ogni momento.
Come ha spiegato Samy Magdy per l’Associated Press, i combattimenti hanno coinvolto in primo luogo la milizia guidata da Haitham Tajouri e quella di Abdel-Ghani al-Kikli (detto Gheniwa). Ciò che è avvenuto, tuttavia, è tutt’altro che un mero scontro locale. Al contrario, si è trattato di un nuovo episodio della rivalità tra i primi ministri concorrenti Fathi Bashagha e Abdelhamid Dbeibah. Stando alla ricostruzione del Wall Street Journal, la discesa in campo a sostegno di Dbeibah da parte di milizie precedentemente in disparte ha permesso al leader del GNU di ottenere una posizione di forza nella capitale. Secondo le informazioni raccolte dal Financial Times ciò si deve anche al fatto che la milizia guidata da Osama al-Juwaili stava per raggiungere il luogo degli scontri per sostenere le forze di Bashagha, ma l’intervento da parte delle forze aeree turche le ha costrette a ritirarsi. Haftar, invece, nonostante formalmente sostenga Bashagha, ha reso nota la sua neutralità negli scontri di questo fine settimana.
Difficile ora immaginare un nuovo tentativo di Bashagha di prendere Tripoli, ma come ha osservato l’analista Wolfram Lacher ciò non significa che Dbeibah possa estendere il suo controllo a molte zone al di fuori della capitale, ciò che impedirà anche l’eventuale organizzazione di nuove elezioni. Secondo Samer Al-Atrush (FT), Dbeibah potrebbe aver soltanto guadagnato tempo prima del prossimo scoppio delle ostilità.
Vecchi mali, nuove violenze: l’Iraq non si riprende più
Rassegna dalla stampa araba a cura di Mauro Primavera
Appaiono sconfortanti i commenti della stampa araba a proposito dei recenti disordini in Iraq. Muhammad Ibrahim al-Dassuqi, giornalista del quotidiano egiziano al-Ahrām, individua tre responsabili dell’«incubo iracheno»: il primo è una classe politica «di stretti orizzonti», interessata soltanto a coltivare i propri interessi e quelli della comunità di appartenenza; pratica, questa, che ha approfondito le fratture tra le varie etnie e confessioni. Il secondo imputato è Washington che, a seguito dell’invasione del Paese nel 2003, ha distrutto lo Stato iracheno, creando vuoti di potere che col tempo sono stati riempiti dalle organizzazioni salafite-jihadiste e da potenze straniere, come l’Iran. Quest’ultimo, terzo responsabile, rappresenta una grave minaccia, poiché – nota l’autore con disappunto – è stato in grado di costruirsi un seguito politico nel Paese, facendo leva soprattutto sulla paura delle comunità sciite, conseguenza delle violenze settarie e dell’ISIS. Secondo al-Dassuqi, l’alto tasso di violenza e il preoccupante degrado sociopolitico potrebbero dar luogo al peggior scenario immaginabile, quello della guerra civile.
Anche vista dal Golfo, la crisi pare insanabile. Khurshid Dallī scrive per l’emiratino al-‘Ayn al-Ikhbāriyya che non ha senso incolpare una parte politica: di fronte a una crisi sistemica, lo scontro tra fazioni e partiti perde di significato. Nemmeno la ricerca del dialogo e del compromesso sarebbe utile in un contesto del genere, anzi, per il giornalista sono proprio queste pratiche ad aver portato allo stallo e all’indebolimento dell’establishment. Sempre sullo stesso giornale, ‘Alī al-Sarrāf ricorda la contraddizione insita nel sistema iracheno, dove la spinta centrifuga degli attori non statuali e quella centripeta dello Stato si scontrano senza che nessuna riesca a prevalere sull’altra, generando un perenne clima di tensione e instabilità. Il sito kuwaitiano al-Raī, invece, ritiene che l’Iraq sia entrato addirittura in guerra con l’Iran per la seconda volta nella sua storia, dopo il conflitto iniziato da Saddam Hussein nel 1980 e durato fino al 1988.
Il giornale libanese filo-Hezbollah al-Akhbār, in un editoriale a firma di Nizām Māridīnī, definisce la democrazia irachena come tawāfuqiyya, ossia un modo di fare politica fondato sulla creazione di temporanei compromessi tra gruppi confessionali ritenuti inconciliabili tra loro; la presenza dell’elemento religioso porterebbe, inoltre, i partiti a interessarsi anche delle questioni teologiche. Tale descrizione ben si applica alla strategia di Moqtada al-Sadr, considerato dal giornale come il principale responsabile della «più lunga impasse istituzionale dal 2005».
Al-Quds al-‘Arabī si concentra invece sulla figura del leader sciita che, annunciando provocatoriamente il ritiro dalla vita politica, ha innescato la spirale di violenza. «La soluzione è imitare al-Sadr!», questo il titolo (ironico, come si vedrà tra poco) dell’articolo, in cui si sottolinea come la forza di questo personaggio risieda nella capacità di ragionare in maniera trasversale, al di fuori degli schemi settari: non solo sciismo, ma anche un forte senso di appartenenza nazionale da contrapporre alle continue ingerenze straniere. Un modus operandi presente sia nell’ambito politico sia in quello religioso, come dimostra l’affermazione, da parte del leader, della superiorità della scuola teologica irachena di Najaf su quella iraniana di Qom. Tuttavia, la continua mescolanza di riferimenti religiosi con programmi politico-economici ha portato all’odierno stallo istituzionale e allo scontro inter (e adesso anche intra) settario. Il «sistema marcio», originato dagli americani vent’anni fa, si regge ora sulla famigerata muhassesa, ossia la spartizione di cariche e poteri in base all’appartenenza etnico-religiosa, e su un «capitalismo selvaggio». Per tornare al titolo di apertura, quale sarebbe la soluzione indicata? «Non di certo al-Sadr, che anzi è parte del problema. Tuttavia, se i politici seguissero veramente le sue orme, renderebbero il miglior servizio alla nazione». Questa la sarcastica conclusione.
In breve
All’inizio di agosto l’Unione Europea ha inviato all’Iran il «testo finale» per trovare un accordo sul nucleare. La risposta iraniana è arrivata giovedì e in prima battuta il Dipartimento di Stato l’ha definita «non costruttiva» (CNN).
Secondo l’organizzazione Dawn, basata negli Stati Uniti, Nourah bint Saeed al-Qahtani, una donna saudita, è stata condannata a 45 anni di carcere per aver utilizzato Twitter per diffondere materiale contrario «all’ordine pubblico e ai valori religiosi» (Financial Times).
Il cessate-il-fuoco in vigore nel Tigrè, regione settentrionale dell’Etiopia, è fallito e la guerra è ripresa. L’esercito etiope ha lanciato un’offensiva su larga scala, ha scritto l’Associated Press.