Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale
Ultimo aggiornamento: 05/04/2024 15:57:18
Nonostante le pressioni della comunità internazionale, l’esercito israeliano, tecnologicamente avanzato e dotato di sofisticati missili ad alta precisione, continua a colpire indiscriminatamente la popolazione della Striscia di Gaza nelle sue operazioni militari. Mentre però l’altissimo numero delle vittime civili era ancora giustificato da qualcuno come la risposta tragica ma necessaria all’aggressione del 7 ottobre, l’attacco aereo israeliano che il 1° aprile ha ucciso sette cooperanti del World Central Kitchen (WCK), organizzazione non governativa che si occupa di fornire beni alimentari in contesti di emergenza, ha suscitato l’indignazione dell’intera stampa internazionale. Stando alla ricostruzione del Washington Post, i sette si trovavano a bordo di tre veicoli del WCK e avevano ricevuto dai funzionari israeliani l’autorizzazione a percorrere la tratta utilizzata dalle organizzazioni umanitarie per consegnare pacchi alimentari e pasti caldi. Ciononostante, i droni delle Forze di Difesa Israeliane hanno intercettato e colpito le vetture con missili ad alta precisione, provocando la morte dei cooperanti, di cui tre inglesi, un australiano, un polacco e un canadese, e dell’autista palestinese che li stava accompagnando. La gravità del fatto ha spinto le ONG presenti sul posto a interrompere temporaneamente le loro attività: senza il lavoro dei volontari, la crisi alimentare che sta colpendo la popolazione palestinese, soprattutto neonati e bambini, rischia di aggravarsi ulteriormente. Anche gli Emirati Arabi Uniti, tradizionalmente molto attivi sul fronte umanitario e tra i principali finanziatori del WCK, hanno deciso di sospendere la loro partecipazione al progetto del corridoio marittimo tra Cipro e Gaza, promosso appena qualche settimana fa dall’Unione Europea. Per il veterano della BBC Jeremy Bowen «alla fine, l’uccisione degli operatori umanitari stranieri potrebbe far esaurire la notevole pazienza degli alleati di Israele, guidati dagli Stati Uniti». In effetti il presidente Biden, «indignato e affranto» per quanto accaduto, ha avuto nella sera di giovedì 4 aprile un (teso) colloquio telefonico con il premier Netanyahu, durante il quale ha minacciato di riconsiderare l’appoggio dell’America a Israele in caso di ulteriori attacchi a civili e volontari. Secondo il segretario di Stato Antony Blinken, i risultati del colloquio sono già visibili: il gabinetto israeliano ha riaperto il valico di Erez nel nord della Striscia e ha autorizzato le navi delle ONG ad attraccare nel porto di Ashod per la consegna di aiuti umanitari. Blinken ha tuttavia sottolineato che Israele dovrà dimostrare di proteggere la popolazione civile, perché «un numero così alto di persone uccise e ferite» non è accettabile.
«La dichiarazione – nota il New York Times – è una delle più taglienti che la Casa Bianca abbia mai rilasciato sulla condotta di Israele negli ultimi sei mesi di guerra, e sottolinea la crescente frustrazione e rabbia del presidente nei confronti di Netanyahu». Diversamente da Bowen e dal New York Times, Adam Taylor scrive sul Washington Post che, nonostante tutte le critiche e le reprimende di questi ultimi mesi, Israele non ha ancora attraversato la “linea rossa” tracciata da Washington per lo stop all’invio di armi, anzi: «l’amministrazione statunitense ha fatto l’opposto. A partire dal 7 ottobre Biden ha chiesto uno storico aumento del materiale bellico da inviare a Israele. Dopo mesi di continue preoccupazioni e critiche sull’andamento della guerra, le armi americane continuano ad affluire». Per Middle East Eye dietro alla tragedia del World Central Kitchen si cela l’ennesima pagina del razzismo occidentale: i quotidiani del Regno Unito hanno infatti dedicato numerosi approfondimenti alla morte dei sette cooperanti, ma non ha dedicato la stessa attenzione mediatica alle decine di dipendenti dell’UNRWA e alle migliaia di palestinesi uccisi dalle IDF. Il giornale israeliano Haaretz condanna l’azione dell’esercito: «non c’è nessuna differenza, davvero nessuna, tra l’attacco all’ospedale al-Shifa e quello ai cooperanti. In entrambi i casi l’esercito sapeva che avrebbe fatto del male a persone innocenti, in entrambi i casi la giustificazione è che erano presenti dei membri di Hamas nascosti, in entrambi i casi erano obiettivi umanitari che non potevano essere colpiti».
Anche se il presidente Isaac Herzog si è scusato per quanto avvenuto e il premier Netanyahu ha definito la morte dei cooperanti un «tragico incidente», gli attacchi delle IDF contro i civili sono diventati una costante del conflitto. Approfondendo il tema, la testata israeliana +972 Magazine ha rivelato l’esistenza di “Lavender”, un programma di intelligenza artificiale sviluppato dall’esercito israeliano. Stando alle dichiarazioni di sei ufficiali delle IDF, il software ha giocato un ruolo cruciale nell’individuare gli obiettivi da colpire e nel pianificare i bombardamenti su Gaza e la sua influenza sugli apparati militari era tale che «i risultati del programma erano trattati come se fossero state decisioni umane». Nelle prime settimane di guerra, proseguono le fonti, l’esercito aveva approvato, senza eseguire controlli e verifiche, la lista dei soggetti da eliminare. Il programma aveva infatti individuato circa 37.000 palestinesi come possibili militanti di Hamas. Oltretutto, le IDF non hanno usato contro questi obiettivi “bombe intelligenti”, bensì ordigni più economici ma molto meno precisi, che hanno contribuito ad aumentare il numero delle vittime civili. “Lavender” lavora insieme a un altro sistema di intelligenza artificiale, “The Gospel”, specializzato nell’individuare gli edifici dove si trovavano i palestinesi presenti sulla lista. Le Monde ne aggiunge altri due: “Alchemist” riproduce sui tablet degli ufficiali lo scenario tattico, mentre “Depth of Wisdom” esegue una precisa mappatura del terreno e soprattutto del sottosuolo di Gaza, attraversato da un reticolo di tunnel e cunicoli. Una dimostrazione di superiorità tecnologica che però – commenta la testata francese – dopo sei mesi di guerra sta dimostrando tutti i suoi limiti e non permette di neutralizzare Hamas.
La condanna da parte della comunità internazionale ha intanto qualche ripercussione sugli affari interni dello Stato ebraico. Benny Gantz, membro del Gabinetto di guerra, ha chiesto di anticipare le elezioni a settembre, in modo da valutare l’indice di gradimento dell’esecutivo, la conduzione della guerra contro Hamas e il negoziato per il rilascio degli ostaggi, temi particolarmente sensibili per la società civile. Proprio per questi due motivi, martedì 2 aprile una pacifica marcia di protesta contro il governo è degenerata in scontri e tafferugli contro la polizia, che ha dovuto ricorrere a cannoni d’acqua per disperdere la folla. Eppure, per Mairav Zonszein, analista israeliana presso l’International Crisis Group, il problema non è solo il premier, ma ha a che vedere con tutta la società: «concentrarsi su di lui distoglie facilmente l’attenzione dal fatto che Gaza non è la guerra di Netanyahu, ma di Israele». in base ad alcuni sondaggi pubblicati a inizio anno, gran parte degli israeliani giustificano il massacro di migliaia di palestinesi e ritengono che le IDF dovrebbero intensificare l’uso della forza militare nella Striscia. Infatti, gran parte di coloro che stanno manifestando nelle strade non protestano per la carneficina in atto, ma per «il rifiuto del primo ministro di rassegnare le dimissioni e per la sua riluttanza a stringere un accordo per il rilascio degli ostaggi». Come riporta il Financial Times, gruppi appartenenti all’estrema destra hanno organizzato dei veri e propri “appostamenti” verso quegli israeliani che avevano manifestato solidarietà nei confronti delle vittime palestinesi.
L’irrigidimento del governo israeliano di fronte a gruppi e organizzazioni filopalestinesi si ripercuote sui rapporti con i media che stanno seguendo il conflitto a Gaza. Lunedì 1° aprile la Knesset ha approvato la legge che permetterà al primo ministro e al ministro delle telecomunicazioni di sospendere le emittenti televisive che rappresentano una minaccia alla sicurezza nazionale. L’obiettivo, come ha subito precisato Netanyahu, è quello di interrompere le attività nella Striscia della troupe di Al Jazeera, network mediatico di proprietà qatariota, accusata di essere il «megafono di Hamas» e di aver «partecipato attivamente al massacro del 7 ottobre». L’emittente ha replicato ricordando la lunga serie di dissidi e incidenti avvenuti con lo Stato ebraico: nel 2017 Netanyahu minacciò di chiudere gli uffici dell’emittente qatariota a Gerusalemme, mentre nel maggio 2021 l’edificio al-Jalaa, sede di Al Jazeera a Gaza, fu distrutto da un missile dell’esercito israeliano. Vi sono poi i giornalisti uccisi, tra cui Hamza Dahdouh, colpito da un missile mentre stava realizzando un servizio sulla crisi umanitaria della Striscia, e Shireen Abu Akleh, uccisa da alcuni colpi di arma da fuoco delle IDF a Jenin nel 2022.
Israele e Iran verso il confronto aperto [a cura di Claudio Fontana]
«Riteniamo che questa aggressione abbia violato tutte le norme diplomatiche e i trattati internazionali», ha detto il ministro degli Esteri iraniano Hossein Amir-Abdollahian. In effetti non capita spesso di vedere interi edifici diplomatici rasi al suolo. Il riferimento è al raid israeliano sul consolato iraniano a Damasco (anche se alcune fonti mettono in dubbio la natura diplomatica dell’edificio), nel quale hanno perso la vita almeno undici persone. Tra queste Mohammad Reza Zahedi, alto ufficiale delle Forze al-Quds dei pasdaran, il suo vice Haji Rahimi, e Hossein Amirollah, comandante delle forze al-Quds in Siria e Libano. L’obiettivo israeliano è duplice: da un lato eliminare figure chiave della proiezione regionale iraniana, dall’altro ribadire che «nessuno, in nessun luogo, è immune in questa guerra» condotta dallo Stato ebraico. Nemmeno negli edifici diplomatici.
I Guardiani della Rivoluzione hanno promesso una vendetta della «stessa durezza e magnitudo», e nella giornata di giovedì l’allerta in Israele è stata innalzata al massimo grado. I fatti di questa settimana si inseriscono in un contesto di guerra ibrida e sotterranea tra Israele e Iran che dura da parecchi anni: lo Stato ebraico ha utilizzato soprattutto gli assassinii mirati di alti funzionari e di scienziati della Repubblica Islamica, mentre quest’ultima ha affidato gran parte della sua risposta alle milizie alleate sparse in Medio Oriente. A partire dallo scorso 7 ottobre gli attacchi contro le milizie filoiraniane sono sensibilmente aumentati, sia in termini numerici sia per ciò che riguarda il profilo delle persone colpite. Basti ricordare l’uccisione del generale Sayyed Razi Mousavi, avvenuta sempre a Damasco, e l’attacco nella roccaforte di Hezbollah a Beirut per uccidere Saleh al-Arouri. Come hanno sottolineato diversi media, l’ultimo attacco potrebbe però segnare un’escalation a livello regionale: si è trattato di un «colpo strategico» subito da Teheran e non è un caso che dopo l’uccisione di Zahedi le truppe americane di stanza in Siria abbiano dovuto abbattere un drone lanciato verso di loro, ciò che non avveniva da due mesi a questa parte. A “chiamare” una reazione da parte iraniana non è solo l’alto valore delle persone uccise, ma anche il fatto altamente insolito che a essere prese di mira siano state delle strutture diplomatiche. È anche per questo che l’assenza – finora – di una ritorsione iraniana sta già facendo discutere all’interno del Paese. Tuttavia, come si legge sull’Asia Times, Teheran si trova di fronte a scelte difficili: reagire, rischiando una guerra regionale che la vedrebbe con ogni probabilità sconfitta, oppure non fare nulla, ciò che potrebbe incoraggiare altri attori, a cominciare dagli Stati Uniti, a colpire nuovamente obiettivi sensibili della Repubblica Islamica? Israele invece non sembra aver dubbi sul da farsi, anche se questo dovesse implicare lo scoppio di una guerra più vasta: l’assunto di partenza per Tel Aviv è che «non cambierà nulla a meno che il regime iraniano non paghi un prezzo pesante per le azioni che conduce attraverso le milizie alleate», ha dichiarato Alexander Grinberg, esperto di Iran presso il Jerusalem Institute for Strategy and Security. E poco importa se, come affermano gli iraniani, anche in questo caso Israele ha dimostrato di non avere alcuna intenzione di rispettare il diritto internazionale. È per questo che a Teheran si aspettano una forte condanna delle azioni israeliane da parte della comunità internazionale, e in particolare dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti, ha scritto Amwaj Media.
Ma chi era Zahedi e perché la sua morte è così importante? Come ha ricordato al-Jazeera, il sessantaquattrenne alto ufficiale era entrato nelle forze dei pasdaran a soli 19 anni e la sua carriera ha preso il via durante la sanguinosa guerra tra Iran e Iraq. Zahedi ha poi assunto ruoli di primo piano nelle forze della Repubblica Islamica, tra cui il compito di facilitare il supporto iraniano diretto a Bashar Assad dopo lo scoppio della Rivoluzione siriana del 2011. Non solo: secondo fonti arabe anonime, Zahedi sarebbe stato anche l’unico non libanese a far parte del Consiglio della Shura di Hezbollah, oltre ad avere un «potere di veto» all’interno del Consiglio del Jihad del movimento libanese. La sua morte segna l’uccisione di più alto profilo dopo il raid americano contro Qassem Soleimani. Secondo Seth J. Frantzman (Jerusalem Post) l’uccisione di Zahedi ha anche un valore simbolico: dopo la sua morte ha iniziato a circolare sui social media una vecchia fotografia che lo ritrae con altri due membri dei Guardiani della Rivoluzione, Qassem Soleimani e Ahmed Kazemi, e due componenti chiave di Hezbollah, Imad Mughniyeh e Hassan Nasrallah. Quattro di questi cinque sono morti e, secondo Frantzman, si tratta della «fine di un’era» per l’Iran: un’intera generazione di operativi di alto livello, sia iraniani che non, è ormai stata eliminata. Ma al di là della foto simbolica, le morti di personalità chiave dell’Asse della Resistenza come al-Arouri (Hamas), Wissam Tawil e Ali Abed Akhsan Naim (Hezbollah) segnano la scomparsa di figure difficilmente sostituibili, visto che occupavano le loro posizioni da decenni e rivestivano un ruolo di collegamento decisivo nella rete iraniana. È per questo dunque che la morte di Zahedi non configura soltanto un colpo all’Iran, ma al «tessuto connettivo tra Hezbollah e i pasdaran», ha sentenziato Amwaj Media. Una versione confermata dall’intelligence israeliana, citata da Al-Monitor: Zahedi era «colui che decide, colui che coordina tutto con Hassan Nasrallah ed è responsabile del trasferimento di armi e munizioni, del dispiegamento delle forze, della pianificazione degli attacchi, della gestione di Hamas e di altre organizzazioni dal territorio libanese».
Con la morte di Zahedi la guerra tra Israele e l’Iran sta via via «uscendo dall’ombra» per proiettarsi «verso un confronto aperto», ha dichiarato al Financial Times Julien Barnes-Dacey (European Council on Foreign Relations). Un confronto che farebbe comodo a Benjamin Netanyahu per restare al potere.
L’AKP vince solo se corre Erdoğan [a cura di Claudio Fontana]
Le elezioni amministrative in Turchia hanno segnato una netta vittoria dell’opposizione: il partito del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan non è riuscito a conquistare le principali città, a cominciare da Ankara e Istanbul, dove sono stati riconfermati Mansour Yavaş e Ekrem İmamoğlu. Dato che, come ha scritto France24, il presidente turco ha impiegato tutte le sue forze per sostenere i candidati sindaci dell’AKP, il voto è stato trasformato «de facto in un referendum su di lui e sul suo partito». Le conseguenze e l’interpretazione della consultazione elettorale, perciò, sono nazionali. Anzi, secondo il sindaco di Istanbul İmamoğlu l’eco di queste elezioni è addirittura globale: mentre esse «segnano la fine dell’erosione democratica in Turchia e la rinascita della democrazia», la vittoria del CHP fa sì che «le persone oppresse dai regimi autoritari ora guardino a Istanbul» come a un luogo di speranza. Ishaan Tharoor (Washington Post) ha scritto che, nonostante le elezioni turche non siano particolarmente “free” e nemmeno troppo “fair”, quelle di domenica scorsa mostrano come le cose possano cambiare rapidamente anche in contesti illiberali.
La sconfitta a Istanbul e Ankara, ma anche l’arretramento dell’AKP in altre città, segna secondo Berk Esen, politologo della Sabanci University, «la più grande sconfitta elettorale nella carriera di Erdoğan», e contemporaneamente «il miglior risultato del [partito nazionalista] CHP dal 1977». Aggregando i dati a livello nazionale, il principale partito di opposizione ha ottenuto il 37,8% dei voti, contro il 35,5% guadagnato dal partito di governo, peggiore risultato alle elezioni amministrative dalla fondazione dell’AKP, ha ricordato il New York Times. Oggi il CHP controlla 35 città (ne controllava 21 prima del voto), tra cui sei delle dieci più importanti: Ankara, Istanbul, Smirne, Antalya, Bursa. Considerando che alle presidenziali del maggio scorso Erdoğan ha ottenuto più del 50% dei voti, ci troviamo di fronte alla conferma che il partito è in grande difficoltà quando non può candidare direttamente il suo leader. Le prossime elezioni sono distanti quattro anni, e molte cose possono cambiare, ma oggi è ancor più chiaro che Erdoğan ha un problema legato alla sua successione: ogni volta che candida qualcuno al suo posto, «fallisce miseramente», ha sottolineato Soner Cagaptay (Washington Institute for Near Est Policy).
Con ogni probabilità, a pesare maggiormente sul calo di consensi dell’AKP è la situazione economica della Turchia. Il costo della vita continua a salire, la moneta nazionale si svaluta e l’inflazione (che a febbraio era al 67%) erode il valore degli stipendi dei turchi. Prima delle elezioni presidenziali del 2023 il Erdoğan ha utilizzato le risorse dello Stato per dare sollievo alle finanze dei cittadini, ciò che gli è valso il sostegno elettorale di numerosi turchi. Quest’anno però non è stato possibile ripetere la stessa strategia. Così, il presidente ha pagato il fatto di non essere riuscito a invertire la rotta economica del Paese, come aveva promesso durante la precedente campagna elettorale. La nomina a ministro dell’Economia di Mehmet Ali Şimşek, molto rispettato nei circoli finanziari globali, potrebbe non essere altro che la chiusura della stalla quando i buoi sono già scappati, ha scritto Robert Ellis (The National Interest). Queste dinamiche hanno avuto un impatto anche sull’affluenza alle elezioni, che si è assestata al 78%, il 9% meno rispetto alle presidenziali. È probabile, ha detto Berk Esen, che molti sostenitori del governo che per anni hanno votato l’AKP siano rimasti delusi del mancato miglioramento delle loro condizioni di vita e, perciò, abbiano scelto l’astensione. Inoltre, sulla sconfitta di Erdoğan ha pesato anche la competizione “da destra”: non solo anche il CHP ha un’agenda nazionalista, ma alcuni elettori conservatori hanno votato per il partito islamista YRP, guidato da Fatih Erbakan (figlio Necmettin Erbakan, ex primo ministro turco, nonché mentore proprio di Erdoğan). Su base nazionale il partito YRP ha ottenuto circa il 6% dei voti. Il motivo della rottura all’interno del campo islamista va rintracciato non soltanto nella cattiva gestione dell’economia turca e nelle accuse di corruzione rivolte al governo, ma anche nella reazione di Ankara alla guerra a Gaza: Erbakan ha criticato duramente Erdoğan per essersi rifiutato di interrompere tutti i legami economici con Israele.
La domanda che tutti si pongono ora riguarda le ripercussioni a livello nazionale delle elezioni amministrative. A questo proposito gli occhi sono puntati su Ekrem İmamoğlu, sindaco di Istanbul con evidenti ambizioni presidenziali. Istanbul è una megalopoli da oltre 16 milioni di abitanti, «non è facile governarla, è più popolosa di 20 nazioni dell’Unione Europea. È un hub, un centro culturale, finanziario e commerciale. È una nazione», e chiunque dimostri di saperla gestire si apre una strada verso il palcoscenico nazionale, ha dichiarato Aylin Unver Noi (Halic University). Proprio come fece Erdoğan, sindaco di Istanbul prima di diventare presidente. Vedremo se anche in questo caso si confermerà la massima secondo cui «chiunque vince Istanbul, vince la Turchia». Per il resto, la distribuzione dei voti segue uno schema ben consolidato: il CHP ha ottenuto la gran parte delle vittorie nella parte occidentale del Paese, sulle coste meridionali e su quelle che si affacciano sul Mar Egeo. L’AKP, invece, ha conseguito i risultati migliori nell’Anatolia centrale e nella zona del Mar Nero. Infine, il partito curdo DEM ha raccolto i propri consensi nelle sue tradizionali aree di influenza nel sud est del Paese. Quest’ultimo aspetto non sembra essere tollerato dal governo, nonostante il partito sia il terzo più importante in Parlamento: nella città di Van, dove il candidato sindaco del partito filocurdo ha ottenuto la vittoria, è intervenuta la commissione elettorale assegnando d’ufficio la vittoria e quindi la carica di sindaco al secondo classificato, membro del partito AKP, che aveva perso le elezioni. Una situazione simile si è registrata a Sanliurfa.
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