Questo articolo è pubblicato in Oasis 6. Leggi il sommario

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:50:05

La migrazione è connaturata all'umano: l'uomo è sempre in movimento, alla ricerca di migliori condizioni di vita, del proprio habitat ideale. Il fenomeno migratorio, pertanto, non è nuovo. Per i credenti, inizia con il primo uomo: Adamo, espulso dal Paradiso terrestre (Gen 3,23). Caino, a sua volta, divenne errante e vagabondo (Gen 4,12) e andò ad abitare nel paese di Nod, a oriente dell'Eden. Abramo lasciò Ur, suo paese natale, per raggiungere la terra promessa da Dio; non sapeva dove questa si trovasse, ma partì alla ricerca con tutta la famiglia. Tutto il popolo d'Israele emigrò dall'Egitto attraversando il deserto per quaranta anni. La Bibbia non parla, per Abramo, di emigrazione, ma di «vocazione» di Abramo. Vocazione significa chiamata, alla quale non è possibile rispondere senza un movimento. Lo stesso Gesù, nella Sua missione su questa terra, è stato in movimento: ha anche subito lo status di rifugiato in Egitto, con la propria famiglia, per fuggire da Erode; durante la sua vita pubblica andava ramingo da un luogo all'altro, senza un luogo fisso dove posare il capo. In origine anche la mia tribù - chiamata Al 'Uzaizat, oriunda dalla grande tribù beduina cristiana dei ghassanidi, che combatté a fianco del profeta arabo Muhammad contro i bizantini - è stata nomade, sempre alla ricerca di pascoli. Nel mondo moderno e contemporaneo il fenomeno migratorio è diventato permanente e ha assunto dimensioni planetarie: dal nord al sud nel periodo coloniale, dal sud al nord ai giorni nostri. Oggi più che mai si deve riconoscere che lo slogan nazionalista «una terra, un popolo» è superato, ora siamo a «un territorio, più popoli». Le tendenze migratorie degli arabo cristiani dalla Palestina sono storicamente influenzate dal clima politico e dalle condizioni economiche dominanti nell'insieme della regione mediorientale. Tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo l'emigrazione poteva essere messa in relazione con l'aumento generale della popolazione e con l'incapacità dell'economia locale di sostenere la pressione demografica. Attualmente, il disagio che provoca il flusso migratorio degli arabo cristiani, nello specifico, è aggravato da altri fattori che si aggiungono a quelli che spingevano le generazioni passate a lasciare il loro paese d'origine: esse hanno a che fare, in breve, con il conflitto arabo-israeliano. La guerra arabo-israeliana del 1948 provocò l'esodo di 50-60 mila palestinesi cristiani su 726 mila palestinesi. Nel 1948, a Gerusalemme, la popolazione cristiana della città ammontava a 31.300 individui; oggi se ne contano 14.800. Da quando è iniziata la seconda Intifada (2000) il fenomeno è diventato ancora più evidente, anche se pochi, a dire il vero, ne parlano apertamente. Le condizioni economiche e sociali, e i livelli demografici in Israele riflettono ormai i rapporti di forza esistenti al livello politico e militare, in questo scontro ormai endemico. Nell'area il tasso d'incremento demografico è molto alto, fortemente condizionato da spinte politiche e ideologiche: l'immigrazione ebraica, incentivata dai governi israeliani (e prima del 1948 dal movimento sionista mondiale), ha come contraltare la forte natalità della popolazione araba, la quale è sì in rapporto con le precarie condizioni di vita, ma ha un'indubbia componente nazionalista e religiosa fra le sue cause. Da questo confronto sono esclusi gli arabo cristiani, il cui legame di appartenenza alla terra è meno esasperato. L'emorragia dei cristiani palestinesi non è così imponente come in Iraq, ma il senso di una minoranza sempre più esigua si avverte, eccome. Dal 10% della popolazione araba di mezzo secolo fa si è passati velocemente, ormai, sotto il 2%: 50 mila cristiani in Palestina e poco più di 120 mila in Israele. L'intera popolazione arabo cristiana, suddivisa in diversi riti, non arriva dunque alle 200 mila unità. Essa subisce gli svantaggi di uno status di doppia minoranza: arabi rispetto a Israele, cristiani rispetto a musulmani ed ebrei. Gli arabo cristiani, concentrati soprattutto in Cisgiordania, sono dunque doppiamente in difficoltà, subendo simultaneamente la pressione del fondamentalismo islamico e dell'isolamento imposto da Israele. Lo stile di vita e l'alto livello d'istruzione degli arabi cristiani, in un contesto d'instabilità politica e di recessione economica, sono diventati una causa supplementare d'emigrazione: essi sono infatti incompatibili con un conflitto continuo e con l'assenza di prospettive di miglioramento economico generale. Su questa porzione della popolazione araba agisce più efficacemente la combinazione del disagio economico-sociale e delle calamità specifiche dovute allo stato di tensione politica: sicurezza precaria, mancanza di prospettive di pace, discriminazioni nei percorsi formativi e difficoltà di trovare lavoro. L'emigrazione appare dunque come un'alternativa possibile per numerosi cristiani, soprattutto per coloro che ambiscono a progredire negli studi e nelle specializzazioni professionali. Una inchiesta condotta a Gerusalemme, oltre una decina d'anni fa, rivelò che la percentuale di coloro che avevano intenzione di emigrare era doppia presso i cristiani rispetto al resto della popolazione. Tra le cause indicate, al primo posto le cattive condizioni economiche; poi quelle politiche (esprimendo la loro intenzione di emigrare, gli intervistati affermavano nello stesso tempo di voler restare in caso di pace imminente); infine la presenza di membri della famiglia già residenti all'estero (quasi tutti i cristiani che volevano emigrare dichiararono, in quell'inchiesta, di avere già parte della famiglia all'estero). Altra motivazione ricorrente è dunque un fenomeno che accade di solito quando un flusso migratorio si stabilizza: il ricongiungimento familiare nel paese di arrivo. La maggior parte delle famiglie della classe media palestinese cristiana ha già parenti in diaspora; tra i cristiani della regione di Betlemme e di Gerusalemme i più inclini all'esodo sono gli armeni, i siriaci e i greco-ortodossi, perché il 40% dei membri di queste comunità hanno già parenti all'estero. È quasi assente l'immigrazione di ritorno: una volta partiti, se le cose vanno bene non solo non si ritorna più, ma si attira a sé, nella nuova patria, il proprio mondo di affetti. Disapora come perdita È indubbio che la diaspora abbia anche degli effetti positivi, non solo per le sorti dei soggetti coinvolti, ma per lo stesso paese d'origine. In primo luogo, dal punto di vista culturale, si moltiplicano per chi emigra le opportunità di conoscere nuovi sistemi di vita; ciò genera maggiore apertura mentale e un "respiro diverso" anche nell'affrontare gli storici problemi che angustiano questa terra. L'incontro con persone ed esperienze diverse, soprattutto in campo professionale, e le possibilità di scambio innescate costituiscono una risorsa che esercita ricadute positive per chi resta. Per non parlare, in secondo luogo, della risorsa economica costituta dalle rimesse che gli immigrati mandano ai familiari rimasti. Ma è senz'altro più determinante il peso degli effetti negativi di questa emorragia. Oltre alla perdita delle proprietà, e quindi della terra (risorsa che garantisce il radicamento delle famiglie nel territorio), ve ne è uno molto insidioso per le prospettive future di pace della regione, e su questo vorrei soprattutto soffermarmi. Insensibilmente, molti cristiani in diaspora, o arabi cristiani attratti dall'emigrazione, perdono il contatto con la cultura dei loro paesi d'origine e, soprattutto, la fiducia in una pacifica convivenza islamo-cristiana in Oriente. La reazione islamofoba, indotta dalla discriminazione religiosa, trova alimento e corrispondenza nel clima angosciato che prevale oggi nell'opinione pubblica dei paesi di arrivo in Occidente circa le relazioni con l'Islam. Il sedicesimo Congresso della Conferenza dei Patriarchi cattolici orientali (ottobre 2006) ha sottolineato le conseguenze di questa demoralizzazione delle comunità arabo-cristiane e l'importanza della loro tenuta identitaria: «La presenza senza il senso della missione invita ad abbandonare il paese. La presa di coscienza della missione che hanno i cristiani, nei confronti della loro società, è il fattore più importante che li incoraggerà a restare nei loro paesi, a far fronte a tutte le difficoltà e a partecipare agli sforzi comuni per salvare i loro paesi e fondarvi delle democrazie reali, radicati in tradizioni proprie alle società arabe cristiane e musulmane». L'assottigliarsi della presenza cristiana in Terra Santa ha dunque conseguenze pesanti soprattutto su due versanti: quello culturale e quello civile. Pur rappresentando meno del 2% della popolazione totale, gli arabo cristiani rappresentano ancora il 7% della popolazione araba di Israele, e il 58% degli studenti arabi dell'Università di Haifa sono cristiani. Ciò la dice lunga sulla capacità dei cristiani di contare sociologicamente più di quanto l'esiguità del loro numero lasci presumere: le élites cristiane conservano di fatto i mezzi per pesare nella società civile araba. È pertanto una sciagura la fuga di cervelli, e quindi la perdita per il paese dei suoi elementi migliori, che il flusso migratorio procura. D'altronde, l'indebolimento e la scomparsa di queste comunità cristiane locali riduce la speranza che si stabiliscano nella regione i valori di una società aperta, pluralista e civile. L'elemento cristiano è tra i pochi a favorire e garantire principi di moderazione nello scontro civile e religioso che dilania questa regione. Il suo ridimensionamento è quindi una perdita per il processo di pace. L'educazione spesso è stata come un acceleratore per l'emigrazione, che ha spinto i cristiani più qualificati fuori del paese, in cerca di opportunità più promettenti nei paesi avanzati. Le persone che partono sono spesso quelle più preparate e il rischio è che vengano meno le risorse umane qualificate per la società civile in Palestina. Non basta (anche se è utile), incrementare la possibilità di istruzione e di formazione nei Territori. La popolazione palestinese vanta già il più alto livello di scolarità e di istruzione tra i paesi arabi. La vera emergenza è frenare l'emorragia. A questo riguardo, è più utile favorire la possibilità di incrementare in loco il livello di formazione negli studi superiori per evitare che si ricerchi all'estero quell'eccellenza professionale che scuole e università locali non riescono a garantire. I cristiani della Terra Santa sentono un forte senso di alienazione, abbandono e isolamento rispetto alla cristianità occidentale. E questo non solo per effetto dell'embargo verso i Territori e per il contesto internazionale che riproduce gli schieramenti contrapposti dell'interno (Occidente pro Israele, Sud del mondo a favore dei palestinesi). I cristiani d'Occidente, che spesso non conoscono le reali implicazioni del conflitto arabo-israeliano, dovrebbero prendere coscienza della vitale importanza della presenza dei cristiani orientali nella Terra Santa, per il loro importante ruolo di moderazione e di mediazione fra due mondi, all'apparenza inconciliabili. Favorire la permanenza delle popolazioni arabo-cristiane nella loro terra d'origine rappresenta la naturale contromisura alla radicalizzazione dei conflitti. Per questo occorre che esse vengano aiutate a rimanere e a essere se stesse, fedeli alla loro identità e alla loro tradizione di fede, perché sostengano con la loro presenza quel ponte di dialogo e di riconciliazione così indispensabile per garantire la stabilizzazione della regione. Tutte le iniziative di sostegno alle popolazioni cristiane in Palestina sono ben accette e da favorire, perché hanno come ricaduta principale l'arresto dell'emorragia dei cristiani del posto. Più concretamente i campi d'intervento sono: l'educazione e la formazione: il sostegno alle scuole e alle università già presenti, in gran parte gestite dal Patriarcato latino di Gerusalemme, potrebbe essere affiancato da un più particolare aiuto alle famiglie, attraverso adozioni a distanza o borse di studio per singoli studenti; le opere sanitarie e sociali gestite in gran parte da ordini religiosi e istituzioni caritatevoli internazionali: esse garantiscono l'unica assistenza sanitaria qualificata in un contesto (quello dei Territori occupati) dissestato e sprovvisto di mezzi e strutture adeguate; favorire i pellegrinaggi rappresenta un aiuto concreto molto importante e alla portata di tutti: l'accoglienza e il supporto ai pellegrini, per molti cristiani palestinesi, è fonte di sussistenza economica, oltre che occasione di testimonianza cristiana. Un flusso continuo di pellegrinaggi contribuirebbe a esaltare il valore universale di questi luoghi (purtroppo visti, dall'opinione pubblica mondiale, solo come il terreno di conflitti nazionali) e a consolidare la comunione ecclesiale; ultimo, ma non meno importante, è l'aiuto che tutti i cristiani possono dare con la preghiera, per implorare il Signore perché illumini i responsabili politici e sostenga gli sforzi diplomatici per il raggiungimento di un clima di pace e di ragionevole convivenza, soprattutto in questo momento delicato in cui sembra che le vie del dialogo abbiano ceduto il posto all'esasperazione e alla vendetta.

Tags