In un panorama di diversità etniche, culturali e linguistiche, le vicende storiche si legano all’attualità in modo impressionante. Anche ai tempi della monarchia nazionale il re era solo “il sindaco di Kabul”, come Karzai oggi. Ma il suo regno era in pace.
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:37:00
Il presidente Hamid Karzai? Il governo? Ne sentiamo parlare, ma non abbiamo nulla a che fare con loro, non li conosciamo, non li vediamo, lì non c’è nessuno della nostra tribù». L’Afghanistan, quello vero, incomincia qualche decina di chilometri a sud di Kabul. Dove l’asfalto diventa una gruviera martoriata, dove la polvere ti soffoca. Dove i camion trasformati in variopinti mastodonti traballanti ti sfiorano in un ruggito di gas e sabbia. Dove i palazzi della città lasciano posto all’ocra rinsecchito di poveri antri d’argilla. Dove le donne sepolte sotto i burka colorati trascinano l’acqua. Dove l’immota, scomposta eternità afghana riconquista l’ordine del tempo e delle tradizioni. Loro sono lì, ti squadrano immobili, il capo ritto sotto i turbanti, le mani appese al pathu (la coperta d’ordinanza in cui vivono e dormono), i piedi calcinati e nudi infilati nei sandali di pelle raggrinzita. «Non c’è governo qui, ci siamo noi Stanekzai: la nostra tribù, i nostri anziani, la nostra loya jirga» – recita Abdul. Non è il capo, è uno dei tanti. Ripete le stesse cose che puoi ascoltare da qui a Kandahar, dalla Paktika al Kunar. Qui Hamid Karzai, ma anche quelli prima e dopo di lui, non governano. Qui l’Afghanistan resta convenzione geografica. Qui è il regno delle tribù e degli anziani della loya jirga, l’assemblea tribale, e del pashtunwali, il codice pashtun imperniato su vendetta e ospitalità, eguaglianza e rispetto. Arrivano da lontano. C’erano prima dell’Islam e la legge del Profeta si è solo fatta spazio nel loro piccolo mondo antico. Li chiamano Pashtun. Erano il nocciolo duro del dominio talebano, ma negli anni ’80 furono anche il fulcro della guerra ai sovietici, come ai tempi delle battaglie con gli inglesi. Racconti e leggende, come pure carovane e fucili, ignorano montagne e vallate. Cancellano i 2640 chilometri di frontiera con il Pakistan, quella Linea Durand chiamata ancor oggi con il nome del ministro degli esteri di Sua Maestà che nel 1894 ne disegnò il tracciato. Forse il grande disordine è tutto in quell’ambizioso tratto di penna alimentato dall’imperiale convinzione di poter dividere le genti pashtun spartendole tra il Pakistan e l’Afghanistan. Forse tutto inizia da lì, dalla convinzione di poter ignorare una storia afghana disegnata attorno alla tomba di Kandahar dove, ancor oggi, si venera la memoria di Ahmad Shah Abdali, padre della patria e dell’orgoglio pashtun. Inizia tutto nel 1747 con una loya jirga, un’assemblea tribale identica a quelle convocata nel 2002 per affidare il potere a Hamid Karzai. Quella di 155 anni prima si conclude con l’acclamazione, dopo nove giorni di discussioni, del condottiero Ahmad Shah Abdali. All’indomani il designato cambia identità, si fa chiamare Durrani e inizia ad abbozzare il moderno Afghanistan. Sotto la sua guida i pashtun Durrani marciano su Kabul e la conquistano, dilagano a nord e al centro, inglobano i tagiki del Badakhshan, gli hazara sciiti di Bamyan, gli uzbeki di Mazar-i-Sharif. Non è una nazione, è uno stato mosaico dove la fedeltà è personale, dove le uniche istituzioni sono esercito e burocrazia. A imporle, usando gli stessi metodi dei talebani di un secolo dopo, ci pensa re Abdul Rahman nell’ultimo ventennio del XIX secolo. Hazara, uzbeki, tagiki abdicano alla loro autonomia e si piegano alle leggi del grande regno pashtun, ma senza rinunciare alla propria identità. Vincitori e vinti si mescolano in un equilibrio instabile ma virtuoso. Ma quell’equilibrio è ben lontano dall’essere uno Stato nazionale: nella regione, assieme alle 150 tribù pashtun divise al loro interno, convivono hazara, turcomanni e tagiki, i tre grandi gruppi etnici quintessenza della divisione afghana. Diventati famosi alla fine del 2001 per la carica a cavallo con cui il signore della guerra e alleato della Cia Abdul Rashid Dustun li condusse all’attacco delle difese talebane intorno a Mazar-i-Sharif, gli uzbeki sono il più conosciuto di quei gruppi turcomanni. I loro ampi faccioni, gli occhi allungati e la pelle molto più chiara di quella dei pashtun ricordano immancabilmente quei mongoli di Gengis Khan che nel 1221 conquistarono il nord dell’Afghanistan. Molti di loro parlano ancora un antico dialetto turco, altri si sono invece insediati a Mazar-i-Sharif e dintorni soltanto negli anni ’20 per fuggire alla persecuzione anti-islamica lanciata da Stalin nelle repubbliche di Uzbekistan, Turkmenistan e Kirghizistan. Ma a ricordare l’antica tradizione mongola ci pensano i turkomanni nomadi, ancora affezionati a quel caravan dell’antichità conosciuto come yurta, una vera e propria abitazione mobile. I destini dei turcomanni d’Afghanistan da secoli si scontrano e s’incrociano con quelli degli hazara, le tribù sciite che occupano la zona centrale dell’Afghanistan intorno a Bamyan, conosciuta proprio come Hazarajat (“regione degli hazara”). Secondo alcuni sono loro i discendenti dei koshani, gli antichi abitanti dell'Afghanistan che costruirono i Buddha di Bamyan distrutti dai talebani nel 2001. Secondo altre teorie discendono pure loro da quell’orda di Gengis Khan mandata a mettere a ferro e fuoco la città dei Buddha, dopo che alle sue porte aveva trovato la morte Mutughen, nipote prediletto del grande condottiero mongolo. Oggi la loro principale particolarità è quella di essere il più importante gruppo di religione islamica sciita. Costituiscono in tal modo una quinta colonna iraniana potenzialmente non irrilevante, capace, stando alle statistiche, di raccogliere il 16% della popolazione. Arroccati per secoli nelle enclavi montagnose intorno a Bamyan, chiusi tra passi e altipiani di oltre 2500 metri, gli hazara sono vissuti di agricoltura e allevamento e sono ancora oggi uno dei gruppi più poveri. Il loro riscatto inizia con l’invasione sovietica quando, sfruttando l’inaccessibilità dei territori e i consistenti aiuti iraniani, i mujaheddin sciiti, guidati dal carismatico Abdul Ali Mazar, capo del Hizb-i-Wahdat (“partito d’unità”), riescono, dopo lunghi e duri scontri, a bloccare sovietici e truppe governative garantendosi una sorta di sovranità su tutti i territori attorno a Bamyan. L’orgoglio per quell’autonomia, conquistata a prezzo di dure battaglie, li porta a scontrarsi duramente con i talebani che li accusano di rappresentare l’eresia sciita e pretendono di convertirli. Dopo la conquista di Mazar-i-Sharif nell’agosto 1998, la popolazione hazara viene sistematicamente rastrellata e uccisa. In pochi giorni il numero delle vittime raggiunge le 6 mila e il massacro è ricordato come uno dei capitoli più atroci della dominazione talebana. Tradizionali Avversari I tagiki, il secondo gruppo etnico più importante dell’Afghanistan, si dividono tra le province che vanno da Herat al confine iraniano, affidate oggi alla missione NATO italiana, e quel nord-est da cui nel dicembre 2001 scesero le armate dell’Alleanza del Nord dirette alla conquista di Kabul. Quel lembo d’Afghanistan chiuso tra le vette del nord-est era stato durante l’invasione sovietica il feudo incontrastato di Massoud, il leggendario comandante tagiko ucciso alla vigilia dell’11 settembre dai sicari di al-Qaida. Nel 2001 quando arrivano a Kabul e cacciano i talebani, i tagiki devono però fare i conti con le proprie origini. Sono più di 3 milioni e mezzo, rappresentano la minoranza più rilevante del paese, parlano una forma arcaica di persiano e sono, secondo alcuni studiosi, il gruppo etnico più antico d’Afghanistan, preesistente alle invasioni ariane e all’arrivo delle tribù pashtun. Inoltre s’identificano da sempre con l’intellighenzia afghana, rappresentano la parte più ricca della nazione e sono considerati un’élite molto influente all’interno di ministeri, servizi pubblici e commerci. Consistenza numerica, capacità economiche e rilevanza politica ne fanno automaticamente i tradizionali avversari dei pashtun. Mentre questi ultimi restano sensibili all’influenza pakistana, i tagiki stanno oggi riallacciando i rapporti con i russi e gli indiani e mantengono stretti rapporti con la Repubblica islamica d’Iran, soprattutto nella zona di Herat. Quella del 2001 non è la prima conquista di Kabul da parte dei tagiki: l’avevano già presa nel 1928. In quell’anno una rivolta pashtun contro l’allora re Amanullah Khan, accusato di tendenze anti-islamiche a seguito di una tentata modernizzazione del paese, innesca la corsa dei tagiki verso la capitale. Sotto la guida di Habibullah Kalakani, un disertore dell’esercito afghano, i tagiki beffano i pashtun e s’insediano alla guida del paese. Nel gennaio 1929 l’emiro Habibullah assume il potere e si proclama Khadim-i Din-i Rasul Allah, “Servo della Religione del Messaggero di Dio”. Le tribù pashtun per tutta risposta lo liquidano come Bacha-i Saqaw, “figlio dell’acquaiolo” e lanciano una nuova rivolta. A metter fine al destino del sovrano tagiko ci pensa l’Impero britannico. Preoccupato per l’instabilità di un regno che nelle sue intenzioni dovrebbe fungere da cuscinetto alle frontiere settentrionali dell’India, l’Impero di Sua Maestà appoggia una rivolta contro Habibullah secondo lo stesso schema seguito oggi dai talebani. Grazie al coordinamento del governatore della frontiera nord-occidentale i pashtun riuniscono nel Waziristan le tribù sparse ai due lati della linea Durand e iniziano l’infiltrazione che si concluderà con la deposizione e uccisione dell’intruso tagiko e l’ascesa di Zahir Shah. Con la salita al potere di Zahir Shah si apre quel periodo di pace e tranquillità che i vecchi afghani ancora ricordano come l’era d’oro, durata fino agli anni ’70. In quei quarant’anni non esiste un vero stato: il re è, come Karzai, solo il sindaco di Kabul, ma l’Afghanistan delle tribù è un paese pacifico e stabile. «Parte della ricetta di quella stabilità – spiega oggi l’analista della Rand Corporation Seth Jones – fu un governo centrale competente e legittimato, capace di stabilire ordine nelle aree urbane e nello stesso tempo delegarlo con taciti accordi a tribù e clan nelle aree rurali». Oggi quel magico caos ordinato, capace, senza governare, di tenere assieme i bellicosi clan pashtun, ma anche le minoranze tagike, hazara, uzbeke e turcomanne è materia di studio. I primi a cercare di comprenderne segreti e formule sono i consiglieri di David Petraeus, il generale a quattro stelle alla guida di quel Comando Centrale di Tampa responsabile di tutte le strategie Usa dal Medio Oriente all’Afghanistan. Il generale, che tra il 2007 e il 2008 ribaltò le sorti del conflitto iracheno, li ha spediti alla ricerca di un comune denominatore con il mondo tribale dei sunniti iracheni. L’alchemica ricerca non è questione da poco. La chiave di volta della rimonta irachena passò infatti attraverso la conquista dei cuori e delle menti delle tribù del triangolo sunnita e della provincia di Anbar. Lì gli emissari di Petraeus avvicinarono i capi tribali in competizione con al-Qaida offrendo loro soldi e armi in cambio di una definitiva rottura con i capi fondamentalisti e di un’alleanza con il nemico americano. Strategia Puntata sui Clan Molti ai vertici dell’amministrazione americana pensano che una parte di quell’esperienza possa essere riproposta in Afghanistan. Il segretario di stato Robert Gates, durante un discorso allo US Insitute for Peace di Washington, ha accennato alla necessità di far ricorso all’aiuto delle tribù. «Alla fine la sola soluzione per l’Afghanistan è lavorare con le tribù e i leader provinciali per creare una reazione ai talebani». «Per riuscirci – sostiene l’analista Jones della Rand – i responsabili militari della Nato devono cercare prima di tutto la collaborazione con i rappresentanti locali, anche a discapito del ruolo del governo centrale, visto che in Afghanistan le cose sono andate sempre così anche in tempo di pace». E Brian Williams, professore della University of Massachusetts Dartmouth reclutato tra le fila dei consulenti del Pentagono, ricorda che «dopo il ritiro sovietico del 1989, il regime comunista di Kabul, riuscì a sopravvivere per un paio d’anni proprio grazie alla capacità di mantenere i legami con le tribù». Secondo il consulente del Pentagono «i talebani sono una forza antitribale che mira a distruggere la struttura dei clan; puntare su questa differenza può aiutare a creare una frattura tra popolazione e insorti». Far i conti con la miriade di tribù disseminate in tutto l’arco meridionale dell’Afghanistan e al tempo stesso mantenere la stabilità nelle zone a prevalenza tagika, uzbeka e hazara rischia però di rivelarsi un’impresa assai ardua se lo schieramento della NATO non troverà la capacità e la flessibilità per adeguarsi alle situazioni locali. E soprattutto se non intavolerà relazioni con quegli attori esterni come Iran, Russia e India da sempre abituati a scommettere sul tavolo del “grande gioco” afghano. Russia e India, già alleate di Ahmad Shah Massoud, da tempo puntano sulla carta tagika e sugli imponenti arsenali che rendono l’Alleanza del Nord una sorta di stato nello stato. Il discorso non è molto diverso per gli hazara, da sempre vicini a Teheran per motivi religiosi e culturali. La questione tribale divide, intanto, lo stesso schieramento NATO. «È evidente che l’Afghanistan è un sistema tribale molto più grande e complesso di quello incontrato in Iraq qualche anno fa; non vorrei mai che i comandanti Nato incominciassero a scegliere quali tribù appoggiare senza permettere al governo di decidere – ammette il generale David McKiernan, comandante della missione ISAF in Afghanistan. Per garantire la sicurezza di un paese così vasto bisognerà riuscire a creare legami con le tribù, ma anche garantirne il coordinamento con il governo a livello provinciale o distrettuale». Alcuni, come Antonio Giustozzi, ricercatore della London School of Economics e considerato uno dei massimi esperti di Afghanistan, sostengono che il ricorso ai gruppi tribali è essenziale per garantire la sicurezza sino a quando la NATO non avrà portato a termine l’addestramento di almeno 100 mila soldati del nuovo esercito e 80 mila poliziotti. Ma anche i migliori comandanti afghani ammettono che, senza l’appoggio di tribù e anziani, esercito e polizia saranno assolutamente inutili. Il colonnello della polizia afghana Jamil Shamal, sviluppando al meglio i rapporti con le tribù locali, è riuscito a garantire un difficile equilibrio in quei territori intorno a Sorobi, a sud di Kabul, dove ad agosto i francesi persero dieci uomini in un’imboscata dei talebani e dove i convogli di rifornimento della NATO in arrivo da Jalalabad venivano regolarmente assaltati. La prima mossa del colonnello, appena arrivato in quel territorio, è stata la convocazione degli anziani delle tribù. «Ho tentato di convincerli che la polizia era lì al loro servizio, ho detto loro: “accetterò tutte le vostre decisioni, ma sarete voi i responsabili della legge e dell’ordine; io li farò solo rispettare”». Da quel momento secondo il colonnello non si è registrato più un solo attacco. «I rappresentanti dei villaggi me l’avevano promesso: “Fino a quando tu sarai qui, a nessuno sarà permesso attaccare la superstrada. Se arriveranno i talebani gli diremo di andarsene e se non riusciremo a farli partire te lo faremo sapere per tempo”». Il segreto di quel successo secondo il colonnello è proprio l’aver messo in campo le tribù ricreando una connessione tra la popolazione e un governo considerato distante e distaccato. «Quando la gente smette di rivolgersi al governo e il governo non cerca di cambiare i rapporti con la propria popolazione, il paese – spiega senza giri di parole il colonnello – si muove nell’oscurità e nell’incomprensione. A Sorobi era scesa la notte fonda, io ho solo riaperto la finestra e mi sono sporto per ascoltare la voce della gente. A volte per vincere non servono i grandi eserciti, basta il buon senso».