Stufa di impantanarsi nelle pozzanghere di fronte alla clinica in cui lavora, una dottoressa saudita decide di correre alle elezioni municipali, sfidando quanti pensano che le donne dovrebbero occuparsi solo di giardini. È La candidata ideale, il nuovo film di Haifaa Mansour
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:03:32
Ha fatto passi avanti, Haifaa al-Mansour, “la prima regista donna” dell’Arabia Saudita. Durante le riprese del suo film d’esordio, La bicicletta verde (Wadjda, 2012) – racconta –, «ero costretta a stare in un furgone, non potevo nemmeno interagire con la troupe. Tornare a casa e lavorare all’aperto è stato bellissimo». Potrà sembrare poca cosa, il minimo sindacale per una regista, la soddisfazione di lavorare “fuori dal furgone” e di giorno, non più soltanto “alle prime luci dell’alba”, per non destare sospetti nelle autorità. Ma per le donne, l’ironia sui recenti cambiamenti intervenuti in Arabia Saudita è davvero sprecata. Guidare una macchina, viaggiare da sole fuori dal Paese, andare al cinema, persino seguire una partita di calcio allo stadio, deve essere una gioia inimmaginabile. Nel film La candidata ideale, questa gioia si sente. E si avverte, pesantissima nonostante il tono leggero, l’ansia di cambiamento che tutti invocano, che non arriva mai.
Al-Mansour è sposata con un diplomatico statunitense, per anni ha lavorato in America ed è tornata a girare in Arabia Saudita attratta dalle novità degli ultimi anni. Il permesso di guidare, ad esempio, è stato concesso alle donne nel 2018: e la macchina azzurra che guida la protagonista, la dottoressa Maryam, è nuova di zecca, con il cellophane ancora sui poggiatesta. Anche la riapertura dei cinema e la ripresa dei concerti sono dello stesso periodo e fanno parte delle riforme annunciate con la grancassa dal chiacchieratissimo principe Mohammad bin Salman. Ma l’entusiasmo per le novità rischia di essere un’arma a doppio taglio: a parte i sospetti sulle ragioni ambigue delle politiche di genere promosse dal principe, è facile che il mondo corra più in fretta del cinema. Così, la trama un po’ esile che racconta di un viaggio di lavoro mancato a Riyad, si incrina perché nel frattempo è cambiata la legge che prevede la necessità di un tutore per le donne che vogliono uscire dal Paese. Ma intanto – è cronaca di questi giorni – alla dissidente saudita Loujain al-Hathloul, liberata dopo 1001 giorni di galera per avere urlato nelle piazze il diritto delle donne a una vita libera (e a una libera circolazione), è vietato rilasciare interviste, pubblicare sui social, viaggiare per almeno 5 anni. Alla faccia delle riforme.
È solo un dettaglio per dire che la storia semplicissima del primo film – una bambina furba che sogna una bicicletta e un amico con cui pedalare in un Paese come l’Arabia Saudita, dove alle ragazze non è permessa né l’una né l’altra cosa – era forse più efficace della trama un po’ caotica de La candidata ideale, che affastella eventi e fatti, sempre a un passo dal cadere nella denuncia o nell’autocommiserazione. Ma i tempi sono cambiati e il film non è solo un ritratto della condizione femminile nei Paesi Arabi: è anche un omaggio alla musica del tempo che fu, al ritorno della bellezza. Il risultato è una specie di strano musical in salsa araba. Sì, perché sullo schermo tutti cantano: il padre di Maryam, la madre scomparsa, in una vecchia cassetta registrata, le sorelle. E le censure, i divieti di cui il film fa un dettagliato e puntiglioso elenco, non valgono solo per le donne. Il padre è un musicista serio, per anni costretto a suonare solo ai matrimoni: da quando sono stati ripristinati i concerti, ha ripreso a fare tournee. Ma deve stare attento: gli integralisti religiosi – si dice nel film – non amano la musica e preparano attentati. Intanto le tre figlie, lasciate sole, sono alle prese con una società maschilista dove non è facile muoversi senza protezioni.
Per la prima volta in un film arabo, abbiamo accesso alle stanze delle donne: vestiti dai colori accesi, capelli acconciati ad arte, scherzi e risate, un uso compulsivo dei social che finiscono per diventare scuola di vita. Si può imparare di tutto, su YouTube, persino a improvvisare una campagna per le elezioni municipali, le uniche che si tengono nel Paese e alle quali da qualche anno possono partecipare anche le donne. È quello che farà la dottoressa Maryam, stanca di impantanarsi, con la macchina nuova e le scarpe bianche, nell’acquitrino che, di fronte alla clinica dove lavora, sostituisce una strada che non c’è. E passi il vecchio che non vuole essere curato, ma nemmeno guardato, da una donna dottore, passi l’arroganza del direttore che la considera meno di un infermiere maschio, passi il fastidio del niqab. È un simbolo importante, quello della strada che non c’è, in un film dove i luoghi del quotidiano raccontano molto bene lo spazio dell’identità: le stanze separate in moschea, le file lontane al concerto, le preghiere degli uomini in strada e negli uffici, in camera quelle delle donne. Della strada che manca, legata all’impossibilità di curare, la dottoressa Maryam fa il suo slogan elettorale, alla faccia di chi pensa che le donne debbano occuparsi solo di giardini. Ha così inizio la campagna elettorale più improbabile della storia del cinema. Il modello, scelto su Internet, è il tutorial di un obeso candidato governatore del Tennessee. Nonostante lei parli solo dell’asfalto da stendere – in un esilarante video dove indossa una veste che le copre anche gli occhi – le immagini diventano virali. E il consenso delle donne arriva con una irresistibile sfilata di abaya, i caftani scuri prodotti e venduti in mille modelli e sfumature, interrotta dalla brutale irruzione della realtà. Bastano poche parole, a Maryam, per attirare l’attenzione delle donne: cosa accadrebbe se vostro figlio si sentisse male e doveste portarlo all’ospedale, su una strada che non c’è, dove le lettighe sprofondano nel fango?
Il film si gioca sulle contrapposizioni: bianco il camice che Maryam indossa in clinica, nero il niqab che è costretta a mettere; rosa la camicetta della sorella in casa, coperta in fretta dall’abaya che deve indossare per aprire la porta; coloratissimi gli abiti delle signore invitate al matrimonio, in una sala addobbata di fiori e palloncini, scuri i vestiti che le coprono quando compare lo sposo, l’unico maschio presente, e il clima di festa si raggela e diventa infinita la distanza tra la sposa, raggiante in bianco, e le invitate in nero. Al-Mansour usa tutti i trucchi che conosce per raccontare l’anima di una società divisa in due. Non esclusa la tenerezza con cui avvolge gli uomini a lei cari, soprattutto il padre sognatore e musicista. E a proposito di musica, due scene paradossali raccontano più di mille storie. La prima accade al matrimonio dove la sorella di Maryam fa la fotografa. La dottoressa è costretta ad aiutare la cantante che si esibisce sul palco, lontana dal musicista che sta in un’altra stanza. Un problema tecnico le impedisce di sentire la musica e le parole dell’uomo; il dj afferma che occorre sistemare i microfoni ma che lui non può entrare nella sala tra le donne. Nascosta da un lungo velo integrale, Maryam esce dalla sala, attraversa un garage deserto, sale le scale e arriva alla regia, parla con il tecnico e di nuovo torna in sala, seguendo il percorso di un cavo giallo da connettere. Una separazione fisica tra i sessi che racconta benissimo una profonda incapacità a comunicare con l’altro. La seconda scena descrive, con l’aiuto del montaggio alternato, il comizio della candidata, costretta a parlare in video agli uomini in sala e a subirne passivamente sarcasmo ed ingiurie, e il concerto finale del padre, che si svolge davanti ad un pubblico d’eccellenza. Sono imprenditori, uomini politici, personalità. Muovono il corpo al ritmo della musica, ascoltano ad occhi chiusi le canzoni dove cuore fa rima con amore e luna con fortuna.
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