Intervento di Simona Beretta alla conferenza internazionale “Cambiare rotta. I migranti e l’Europa”

Ultimo aggiornamento: 07/02/2024 11:11:22

Abbiamo avuto una giornata intensissima e sono molto lieta di poter dire qualcosa a partire dal mio punto di vista di economista. Le migrazioni, le immigrazioni e i movimenti incrociati sono un fenomeno estremamente complesso e multiforme che richiede un’umile comprensione e una narrazione adeguata. Nell’intervento di Riccardo Redaelli si parlava di importanti dimensioni non materiali, quali le percezioni: penso sia importante capire il suo discorso, perché altrimenti si rischia di affidarsi alle narrazioni comuni, spesso del tutto slegate dalla realtà e quindi molto lontane dalla verità.

Comincio col fare riferimento al World Development Report della Banca Mondiale di quest’anno, dedicato proprio alle migrazioni. I numeri sono impressionanti; è vero che i numeri non dicono tutto, ma qualcosa dicono: ci sono 184 milioni di migranti, che corrispondono al 2,3% della popolazione mondiale. Di questi, 37 milioni sono rifugiati; inoltre, ben il 43% del totale si trova a vivere in Paesi a basso e medio reddito. Ciò significa che queste persone si sono spostate da un Paese a basso e medio reddito verso un altro Paese a basso e medio reddito. Questo è un aspetto che spesso trascuriamo, ma che è emblematico per capire qual è il motore del fenomeno migratorio, che è di fatto guidato dalla libertà delle persone. A questo proposito, il World Development Report presenta una mappa concettuale, semplificata ma utile, che classifica in una sorta di matrice i flussi migratori. La matrice ha due dimensioni: una riguarda il match, cioè la misura in cui il profilo del migrante e il profilo della situazione in cui si troverà alla fine del processo di mobilità sono più o meno allineati; l’altra dimensione riguarda il motive, ossia in che misura la decisione di migrare rifletta una scelta maturata a partire da uno scopo di vita ben preciso oppure sia dovuta al fatto che non si può fare a meno di scappare.

 

Il titolo di questo panel, “Migrazioni, economia e crisi ecologica”, ci ricorda che l’economia, le emergenze climatiche, i conflitti sono motivazioni che spingono la migrazione indipendentemente da qualsiasi considerazione di match, e quindi chiedono uno sforzo multilaterale di comprensione e gestione del fenomeno. Ascoltando le relazioni di stamattina, abbiamo visto che questo sforzo può essere efficace a partire da alcune cose semplici che si possono fare. Il fabbisogno di persone che aiutino gli anziani nei paesi di antica industrializzazione, ad esempio, è un chiaro caso di un match praticamente perfetto per il quale non ci sono, al momento, politiche ed istituzioni adeguate. Ci tengo a sottolineare questo fatto, perché non sono solo i casi estremi a necessitare di una azione per comprendere e gestire il fenomeno: rimane molto da fare per accompagnare e sostenere istituzionalmente quei processi migratori che potrebbero trovare facilmente una loro evoluzione positiva e naturale. Ma qui, in un certo senso, uno sforzo istituzionale non particolarmente gravoso può dare frutti eccellenti.

 

Un ben più grosso impegno, specie per la cooperazione internazionale, riguarda invece quei flussi in cui bisogna farsi carico in partenza di un mismatch inevitabile e, nello stesso tempo, dell’esistenza di una mobilità che non può essere tamponata o frenata, se non con costi umani troppo alti per poter essere tollerati. Le relazioni di questo pomeriggio hanno mostrato che “tappare un buco” non solo è costoso per tutti – soprattutto per i più vulnerabili – ma è anche scarsamente efficace, mai risolutivo: chiuso un varco, se ne apre sempre uno nuovo, probabilmente peggiore del primo quanto a costi umani da sopportare. Le scorciatoie sono la strada sicura per il disastro; nascondere la testa sotto la sabbia pensando alle migrazioni come ad un’emergenza che può essere tamponata è la strategia peggiore che i Paesi di antica industrializzazione possano intraprendere. Spesso si sente dire che, visto che esiste il diritto a migrare e il diritto a non migrare, bisogna che i paesi di antica industrializzazione si adoperino a promuovere lo sviluppo locale come prevenzione delle migrazioni. Io spero che questa affermazione venga fatta in buona fede, anche se non ne sono del tutto sicura. «Non li vogliamo qui, aiutiamoli a svilupparsi là», si sente dire. Ma pochissimi, se sono onesti, hanno davvero un’idea di come si possa produrre sviluppo locale. La verità è che non abbiamo ricette sicure su come fare a produrre sviluppo locale (basta guardare agli esiti di tante, troppe iniziative di sviluppo effimere o fallimentari). Vorrei precisare: non sappiamo come produrre sviluppo locale se limitiamo la nostra analisi ai dati di carattere materiale e se affidiamo la realizzazione dei progetti a una logica di tipo tecnocratico.

 

Nella tradizione occidentale della progettazione di interventi per lo sviluppo siamo abituati a ragionare sulla base di un bilancio dei costi e dei benefici materiali, pensando che i comportamenti umani seguano questa logica, che chiamiamo “razionale” solo perché risponde ad incentivi di “convenienza” economica. Faccio un esempio: si dice che l’esistenza delle imbarcazioni di salvataggio dei migranti in mare costituisce un incentivo a migrare. Questa idea è di un’assurdità totale, come mi pare oggi sia emerso radicalmente; eppure, è un buon esempio di come l’appiattimento prevalente delle questioni umane sulla sola dimensione “contabile” non ci permetta di capire che cosa in realtà stia succedendo.

 

La cooperazione internazionale istituzionale è un intreccio di attori e di risorse finanziarie in cui si rischia di soccombere a una gravissima tentazione tecnocratica: si pensa che, dando un incentivo a comportarsi secondo una certa direzione desiderata, il comportamento razionale seguirà esattamente quella direzione. Ma non funziona così: esiste una dimensione non materiale dello sviluppo, che è il parallelo della dimensione non materiale delle motivazioni alla migrazione che ci è stata presentata nella bellissima lezione che ha preceduto la pausa. L’umano è l’umano a tutto tondo, non c’è solo il bilancio dei costi e dei benefici materiali. L’economista che si accontentasse di questo bilancio non sarà mai in grado di realizzare una cooperazione internazionale allo sviluppo efficace. Non è una illazione ingiustificata: il problema della inefficacia della cooperazione internazionale in termini di effettivo sviluppo è ben documentata dalla tonnellata di documenti che, avendone preso atto, hanno lo scopo di dare indicazioni su come ottenere la aid effectiveness, quell’oggetto misterioso che non si riesce mai a raggiungere. Eppure, l’evidenza che risulta dall’osservazione diretta della realtà dice che, dove esiste la presenza stabile di una persona o di una comunità che si spende gratuitamente per co-operare, ossia per agire insieme a dei compagni di strada, lo sviluppo miracolosamente si concretizza. Si possono raccontare tante storie – stamattina ci hanno raccontato la storia di padre Martin, per esempio – ma una semplice riflessione sulla nostra stessa esperienza elementare ci dice che c’è qualcosa nello sviluppo (personale, sociale, economico…) che ha poco a che fare con una analisi che bilancia costi e benefici materiali.

 

Comunque, per rimanere su questa bilancia (perché economista sono ed economista rimango), vorrei esporvi delle statistiche finanziare ben note, e non dall’altro ieri, sull’entità e la composizione dei flussi finanziari destinati ai Paesi a reddito medio e basso – quei Paesi dai quali c’è una forte provenienza di migranti. Vorrei commentare un grafico che tiene traccia dei principali canali attraverso cui questi Paesi ricevo flussi di finanziamento, con i dati riferiti al periodo successivo al 1990.

La cooperazione ufficiale allo sviluppo (Official Development Aid, ODA), quella per cui i Paesi di antica industrializzazione avevano promesso di dedicare lo 0,7% del PIL (ma negli anni migliori siamo arrivati allo 0,25% del PIL!), attualmente eroga annualmente fondi per circa 200 miliardi di dollari. Questa cifra, che pure è moderatamente cresciuta lungo i decenni, è stata sistematicamente pari a circa un terzo delle rimesse degli emigranti. Le stime più recenti per il 2023 indicano un livello delle rimesse degli emigranti pari a 666 miliardi di dollari. Ciò significa, in breve, che per ogni dollaro di aiuto internazionale allo sviluppo ci sono tre dollari di rimesse internazionali, frutto di una storia di mobilità internazionale e di lavoro in un paese straniero. Per dirlo con uno slogan, sono i migranti che principalmente finanziano lo sviluppo dei loro paesi. Non c’è davvero ragione di vantarci in quanto Paesi donatori!

 

Storicamente, il movimento di denaro legato alle rimesse era più basso. Negli anni della globalizzazione e nei primi anni 2000, erano stati gli investimenti esteri diretti (Foreign Direct Investment, FDI) la fonte di finanziamento principale, con l’attivazione di iniziative produttive in alcuni fra i Paesi a reddito medio-basso, promuovendo occupazione e crescita economica. A partire dal 2015 i movimenti internazionali di capitale legati agli investimenti esteri diretti si sono prima stabilizzati e hanno poi cominciato a scendere (con significativi fenomeni di reshoring), fino ad essere oggi significativamente più bassi dei flussi delle rimesse. Le stime degli investimenti esteri diretti per il 2023 parlano di 480 miliardi di dollari, contro i già menzionali 666 miliardi di dollari di rimesse.

 

Guardando semplicemente ai dati relativi alle risorse finanziarie, essi hanno una implicazione chiara: che è fondamentale rivalorizzare, rimettere al centro il ruolo delle persone. Le rimesse degli emigranti, infatti, sono frutto di decisioni (e di grandi fatiche) di persone concrete; non sono l’esito di politiche, che anzi tendono a trascurarle o addirittura le tassa. Eppure, queste risorse sono indubbiamente fondamentali e indubbiamente legate a decisioni personali.

 

Esiste quindi una soluzione, se vogliamo risolverlo, per il problema dello sviluppo locale? Certamente occorre umiltà, come è stato ricordato nell’intervento di Maria Laura Conte: un’umiltà che ha il coraggio di dire che si fa non per i poveri, ma con i poveri. Questo è molto importante, ma vorrei anche aggiungere che non è tanto la scala, grande o piccola, dell’intervento a far la differenza. Quello che fa la differenza è il coltivare e valorizzare la dimensione non materiale dell’azione anche economica, perché gli esseri umani non rispondono solo ad incentivi puramente materiali. Convinzioni, motivazioni, aspirazioni: esse giocano un ruolo fondamentale.

 

C’è in particolare una parola che abbiamo assolutamente bisogno di dire: è la parola speranza. È una parola potente, perché la speranza fa da ponte fra la mia decisione qui e ora – tutte le decisioni accadono qui e ora! – e l’orizzonte del futuro. La speranza fa la differenza fra nascondere la testa sotto la sabbia oppure guardare in faccia la realtà, sapendo che ciascuno può fare la differenza, anche se di poco.

 

Mi ha colpito molto che nell’udienza dello scorso 27 settembre il Papa abbia usato l’espressione “speranza” per raccontare la sua esperienza a Marsiglia, alla conclusione dei Rencontres Méditerranéennes, dove ha visto che questa speranza è capace di esprimersi. Ha inoltre ricordato che il problema della speranza è soprattutto rilevante per noi occidentali: se non abbiamo regioni per sperare, come possiamo pensare di rimanere un popolo capace di attrarre, includere, tutelare, difendere, promuovere e integrare? Questo deficit di speranza non riguarda principalmente i mezzi materiali: è anche un deficit che riguarda la speranza in qualcosa che renda degna la vita, che renda desiderabile viverla pienamente.

 

Come conclusione, da economista vi consegno questa convinzione profonda: che i problemi di migrazione e di sviluppo hanno una dimensione non materiale importantissima, e che la cifra della speranza fa la differenza. Per questo è importante che vi siano un’educazione e una narrazione adeguata, coltivate in un contesto che non rifugga la personalizzazione delle relazioni. Mi spiego: non si può capire cosa è necessario per lo sviluppo locale se non dentro una prossimità, una compagnia. Non possiamo capire cosa serve ai nostri studenti, in questa università, se non dentro una compagnia. Una citazione di Mazzolari, che ha riportato anche il Papa a Marsiglia, dice: «I poveri si abbracciano, non si contano». Ugualmente, i migranti si abbracciano, non si contano. Anche sviluppare una nuova cultura, adatta a comprendere e orientare il presente, ha bisogno di questo stesso abbraccio, di questa condivisione di una comune umanità. Altrimenti non c’è né un presente che possa entusiasmare, né un ragionevole futuro che si possa costruire. Grazie.

 

 

 

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