Da tempo la Repubblica islamica ha un problema di ricambio generazionale. I membri più giovani del clero non sono completamente allineati con i principi della Rivoluzione e questo preoccupava l’establishment già prima dello scoppio dell’ultima ondata di rivolte
Ultimo aggiornamento: 15/03/2024 11:50:25
Prima ancora di essere scosso dalle manifestazioni innescate dalla morte di Mahsa Amini, il sistema politico iraniano stava attraversando una fase critica. L’età avanzata e lo stato di salute dell’Ayatollah Khamenei sollevavano interrogativi sulla successione della “Guida della rivoluzione”. Il clero sciita, uno dei pilastri della Repubblica islamica ma anche uno dei principali bersagli di chi oggi scende in piazza per contestare il regime, da tempo mostrava segni di debolezza. In particolare, l’amministrazione statale osservava con apprensione il problema del ricambio generazionale all’interno dell’establishment, specialmente ai livelli più alti e nelle figure dei mojtahed (“coloro che praticano l’ijtihād”, l’interpretazione originale della shari‘a).
Questi ultimi stanno in gran parte avviandosi verso i novant’anni di età. Il più anziano, Hossein Vahid Khorasani, nato nel 1921, ha 101 anni. Negli ultimi anni sono morti alcuni ayatollah illustri, quali Muhammad Taqi Misbah Yazdi, uno dei più importanti teorici della velāyat-e faqih (la dottrina su cui si fonda la Repubblica islamica[1]), deceduto nel 2021 all’età di 86 anni, e Ali Naseri, spentosi nell’agosto del 2022. Lo stesso Khamenei, il cui vacillante stato di salute è discusso nei media da diversi anni, ha ormai 83 anni.
Si tratta di un problema non secondario se si considera la struttura dello Stato iraniano. Nella Repubblica Islamica, democratica sulla carta ma non nella sostanza, chi ricopre il ruolo di Guida Suprema della Rivoluzione (Rahbar-e Mo‘azzam-e Enqelāb) ha costituzionalmente l’ultima parola nel processo decisionale. Subito sotto di lui vi è il Consiglio dei Guardiani della Rivoluzione, formato da dodici chierici – sei faqih (esperti in legge islamica) e sei giuristi – nominati in parte dalla Guida Suprema e in parte dalla magistratura, per poi scendere alle istituzioni del Parlamento (Majles) e della Presidenza della Repubblica, nelle quali si trovano anche dei religiosi. Anche la carica di “rappresentante del Vali-e Faqih”, occhi e orecchie della Guida Suprema in ciascuna delle trentun province (ostān) in cui è diviso il Paese, è prerogativa esclusiva dei mojtahed.
Ad aggravare ulteriormente questa situazione delicata è il fatto che molti marja‘ (“fonte di emulazione”, il più alto grado di autorità nel mondo sciita) non sono completamente allineati con Khamenei e con i principi della rivoluzione: alcuni preferiscono concentrarsi solo su questioni strettamente religiose, altri invece sono in contrasto sempre più aperto con le politiche dello Stato e con le decisioni della Guida Suprema, anche sul tema scottante delle proteste delle ultime settimane. È il caso per esempio di Alavi Boroujerdi, o della lettera aperta ai chierici iraniani del teologo in esilio Abdol-Karim Soroush. Ma già nel marzo scorso, dunque prima dello scoppio dell’ultima ondata di proteste, l’Ayatollah Seyyed Ja’fari Sadr Qaemi aveva apostrofato il regime con parole al vetriolo: «Basta ingannare il popolo, soffocatevi con il sangue, vergognatevi svergognati, scomunicati, irreligiosi. [...] Venite, venite a prendermi domani mattina. Sono pronto». Solo un marja‘ ha il potere di proclamare nuovi mojtahed, e ciò pone Khamenei in ancora maggiore difficoltà, non solo in campo religioso ma anche politico.
Per capire le strategie con le quali il sistema stava cercando di affrontare queste sfide occorre concentrarsi su Qom, capitale intellettuale dell’Iran, definita da Khamenei «il centro e la madre della Rivoluzione [Islamica]» in un discorso del 9 gennaio 2019. La città santa sciita, nella quale
Anziano e sulla difensiva, l’attuale Guida della Rivoluzione vede pericoli ovunque, anche all’interno del clero: in un discorso alla howze di Qom, ha chiesto ai rappresentanti ufficiali presenti di
Il “secolarismo” che avanza, infatti, spaventava i mullah già da qualche anno, prima ancora di prendere la forma di un rifiuto sistematico e violento dello status quo. Per esempio, secondo l’hojatoleslam (“autorità dell’Islam”) Ahmad Vaezi, capo dell’Ufficio di Propaganda Islamica del Seminario di Qom, «l’essenza del secolarismo, nel senso di razionalità secolare, non è una minaccia per i seminari. Ma le sue conseguenze, la separazione della religione dalla politica e l’indifferenza [del clero] verso tematiche politiche e sociali, [...] costituiscono un pericolo». Parole che hanno un riscontro nei fatti, se si scorrono
La formazione che viene impartita a Qom punta tra le altre cose a evitare fenomeni simili. Da questo punto di vista
La sezione internazionale del Seminario, l’Università Internazionale Al-Mustafa – di cui Arafi è stato direttore fino all’anno scorso – gode di enormi finanziamenti da parte del governo centrale. Questi punta a concorrere con l’Arabia Saudita per la formazione in loco di chierici internazionali (anche sunniti), in modo da incrementare il soft power di Teheran. A conferma della valenza politica (e geopolitica) delle istituzioni religiose iraniane, tra i beneficiari di questo programma figura la Cina, che in tempi pre-Covid aveva più di 700 studenti a Qom.
Se a Qom si cerca di preservare il ruolo e il primato dei chierici, altri attori politici potrebbero succedere a Khamenei, sempre che le proteste non finiscano per scardinare del tutto il sistema della Repubblica islamica.
Tra le ipotesi in campo, vi era già prima delle proteste l’assunzione delle redini dello Stato da parte di una giunta militare guidata dal Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica (IRGC), conosciuti in Iran come Sepah. Questa organizzazione, fedelissima a Khamenei, è un vero e proprio “esercito parallelo”, che riceve molti più fondi dell’esercito regolare. Qualche anno fa non sarebbe stato impensabile immaginare il generale dei Sepah Qassem Soleimani, ucciso nel gennaio del 2020 da un drone americano, come futuro leader del Paese, in una forma diversa da quella religiosa del Rahbar. I Sepah costituiscono già oggi uno dei vertici del triangolo del potere in Iran, oltre a quelli rappresentati dalla Guida Suprema e dal Governo. Hanno inoltre un grande peso economico, dal momento che controllano industrie chiave del sistema produttivo iraniano.
Intanto l’attuale presidente, Ebrahim Raisi, che in passato è stato capo del sistema giudiziario iraniano e negli anni ’80 era definito “il macellaio” per la sua ferocia nella tortura e nell’uccisione dei prigionieri politici, ha recentemente raggiunto il grado di ayatollah. Lo stesso ha fatto il figlio del Rahbar Mojtaba Khamenei, suscitando lo sdegno dei più autorevoli marja‘, i quali considerano la sua preparazione giuridica e teologica (come del resto quella del padre) del tutto inadeguata.
In ogni caso, nessuna di queste ipotesi risolve il problema di fondo del ricambio generazionale del clero. Tra i chierici più giovani, consapevoli che il modello di società incoraggiato dall’establishment è diventato irrealizzabile, si sta infatti diffondendo un rifiuto nei confronti dell’ideologia della rivoluzione. I manifestanti, che dopo aver incendiato la casa natale di Khomeini hanno preso di mira anche un luogo simbolico come la howze di Qom, hanno espresso chiaramente il loro desiderio di cambiamento.
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