Con la sua rete di scuole, giornali e associazioni, il carismatico predicatore è stato una figura chiave della Turchia degli ultimi trent’anni. La rottura dell’alleanza con Erdoǧan ha però cambiato molte cose e la sua morte mette a forte rischio le possibilità di sopravvivenza della comunità che ha creato
Ultimo aggiornamento: 28/11/2024 15:15:32
Fethullah Gülen è morto lo scorso ottobre a Saylorsburg, in Pennsylvania, dove si era autoesiliato nel 1999. Fondatore e guida di un movimento che non ha equivalenti né in Turchia né nel mondo musulmano, Gülen è stato per tutta sua la vita una figura polarizzante. Venerato dagli uni come profeta, odiato dagli altri come il diavolo, ha ispirato e creato un vasto movimento religioso, economico, educativo, mediatico, per molto tempo ufficialmente apolitico. Ma questo impegno nel dare forma a una cultura profonda tradiva ambizioni politiche inconfessate. Fethullah Gülen è stato infatti molto più di una guida religiosa: è stato un animale politico centrale nella Turchia degli ultimi trent’anni, benché spesso nascosto nell’ombra.
Nato nel 1938 a Erzerum, piccolo villaggio di una provincia molto conservatrice della Turchia, Gülen si è affermato sulla scena pubblica nello stesso periodo in cui stava emergendo l’altro astro nascente dell’islam politico turco, Recep Tayyip Erdoğan, di sedici anni più giovane. Nonostante le divergenze, i due uomini strinsero un’alleanza nel 2002, quando l’AKP giunse al potere. All’epoca il movimento di Gülen era già una potenza economica e religiosa imprescindibile in Turchia, e si era già diffuso oltre i confini nazionali, dai Balcani all’Asia Centrale, passando per il Caucaso e oltre. Beneficiando dell’alleanza con la diplomazia turca e favorendola a sua volta, esso divenne in breve tempo una forza concorrente e minacciosa, destabilizzando il potere dell’AKP e accelerando la rottura tra i due leader e i loro rispettivi schieramenti. I germi della divisione avevano cominciato a manifestarsi sin dal 2012, mentre la guerra aperta scoppiò con il tentativo di colpo di Stato nel luglio del 2016. Attribuito alle forze güleniste infiltrate nei gangli del potere e negli apparati di coercizione dello Stato, il golpe non solo fallì nel tentativo di destituire Erdoğan, ma finì per rafforzarlo e provocò una purga senza precedenti, finalizzata all’eliminazione politica e persino fisica di migliaia di gülenisti. Il movimento ne uscì esangue. La morte della guida condanna dunque quel poco che resta del movimento? Quale eredità e quale influenza lascia Gülen nella politica e nella cultura turca e nei possibili scenari di evoluzione della società e del Paese?
Un movimento strutturalmente e strategicamente ambiguo
Definire e soprattutto circoscrivere il movimento di Gülen è un compito delicato, perché fin dall’inizio discrezione e dissimulazione hanno caratterizzato la sua strategia di espansione e i suoi tentativi sfuggire al controllo dello Stato kemalista. Comprenderlo significa decifrare la personalità del suo fondatore. Semplice imam funzionario della Diyanet, la struttura ufficiale di gestione dell’islam in Turchia, Gülen riuscì a poco a poco a mobilitare intorno a sé una cerchia di discepoli in tutto il Paese. Il contesto economico-politico favorevole facilitò la creazione di una prima rete multisettoriale. Il percorso ultraliberale intrapreso dalla Turchia negli anni ’80 permise alle diverse correnti dell’islam di svilupparsi nella sfera economica. Il movimento di Gülen privilegiò allora la sfera educativa. Così facendo conquistò la fiducia popolare e il riconoscimento degli ambienti conservatori dell’Anatolia, desiderosi di offrire ai loro figli una prospettiva migliore. Il movimento si strutturò attorno a migliaia di fondazioni educative di ogni sorta, tramite le quali formò migliaia di discepoli e accumulò grandi quantità di denaro, carburante indispensabile per il motore della nuova Turchia liberale. Passato inosservato al radar della vigilanza kemalista, in breve tempo questo semplice circolo educativo islamico si trasformò in una galassia di simpatizzanti e imprese dedite alla diffusione delle idee del maestro in tutta la Turchia. Oltrepassando la sfera educativa, il movimento si estese al settore economico e a quello dei media, quando giornali, canali televisivi e radio iniziarono a diffondere il pensiero di Gülen in tutto il Paese. All’epoca, essere un uomo d’affari gülenista significava investire, sia in Turchia che all’estero, e arricchirsi, ispirandosi e applicando le idee di Gülen. Ma quali sono queste idee? Che cosa distingueva il piccolo imam di Erzurum dagli altri leader religiosi conservatori per conquistare così profondamente le coscienze?
La singolarità di Fethullah Gülen risiede in un forte e idiosincratico senso di adattamento ai movimenti congiunturali del mondo, che gli consentì di coniugare islam, nazionalismo turco, modernismo e liberalismo. Gülen teorizzò un’ideologia islamica nostalgica di una grandezza ottomana idealizzata e al tempo stesso vaga sul piano politico. Ufficialmente apolitico e apartitico, si mostrava regolarmente accanto alle principali figure politiche del Paese[1]. Queste ultime avevano compreso l’importanza e il vantaggio di mantenere buoni rapporti con lui, consapevoli della sua influenza e del peso della sua rete mediatica, ma erano anche attratte dal suo pensiero, che ambiva a conciliare islam e democrazia, e promuoveva – per strategia o sincera convinzione? – pace, tolleranza e armonia nel Paese e nel mondo. Tra i politici turchi però soltanto Erdoğan concluse un’alleanza con il maestro, fino a farne un partner privilegiato nel governo del Paese a partire dal 2002. Su che cosa si fondava questa alleanza e qual era la sua ragion d’essere?
Unione e spaccatura della coppia Erdoğan-Gülen
Nel contesto dell’epoca, quest’alleanza apparve inizialmente naturale e vantaggiosa per entrambe le parti. Erdoğan, il giovane politico energico, e Gülen, l’influente guida spirituale, avevano tutto ciò che serviva per andare d’accordo e trarre beneficio l’uno dall’altro senza pestarsi i piedi. Fondato nel 2001, il giovane partito AKP fu sorpreso dalla propria vittoria elettorale nel 2002. Acclamato e invitato a governare il Paese, Erdoğan mancava di alleati, soprattutto nella sfera intellettuale e mediatica. Quanto a Gülen, da tempo egli diffidava delle istituzioni kemaliste laiche e militari, e nel 1999 aveva scelto di andare in esilio volontario negli Stati Uniti. Era ormai dalla Pennsylvania che regnava sovrano sul suo movimento tentacolare e transnazionale, diventato così potente che gli era difficile resistere al canto delle sirene politiche. Per Erdoğan e l’AKP il movimento di Gülen si rivelò un partner prezioso: influente in ambito intellettuale, si appoggiava su diverse reti mediatiche, giornali, scuole e canali televisivi, che elogiavano e promuovevano il nuovo governo conservatore. Zaman, il quotidiano vetrina del movimento, dipinse un ritratto positivo di Erdoğan e della sua azione alla guida del Paese in cambio della protezione del movimento e di un’agenda politica favorevole alle idee e alle reti di Gülen. Riconosciuto e protetto dal governo Erdoğan, il movimento di Gülen prosperò e riuscì a infiltrarsi nei gangli del potere. Fedelissimi di Gülen ottennero posti chiave nelle strutture dell’amministrazione, in particolare nei ministeri dell’istruzione nazionale, nella polizia, nell’apparato giudiziario e, a poco a poco, nell’esercito e nei servizi segreti. Il termine infiltrazione può sembrare improprio ma non lo è, perché molti gülenisti, funzionari e servitori dello Stato, si mostrarono più leali verso Gülen che verso lo Stato. In altre parole, si trattava di cooptare gli agenti dello Stato dall’interno. Naturalmente questo fenomeno non era nuovo in Turchia, ma i gülenisti vi ricorsero in maniera massiccia, in un contesto economico e politico a loro molto favorevole. Denunciata all’epoca da diversi osservatori[2], l’ampiezza di questa infiltrazione beneficiò di un potere reso cieco dall’alleanza siglata tra Erdoğan e Gülen, e solo successivamente fu rilevata come una minaccia.
Diventata una realtà nel Paese, questa alleanza si estese anche all’estero, in diversi Paesi dello spazio post-socialista aperti all’influenza turca (Balcani, Caucaso e Asia centrale), ma anche in Africa e persino in Occidente. Il movimento di Gülen vi aveva dispiegato una vasta rete di scuole, licei e università, sostenuti da associazioni di uomini d’affari e imprese, che favorirono lo sviluppo di un vero e proprio soft power turco, a vantaggio dell’AKP e della diplomazia. In Africa, in particolare nella fascia subsahariana, la politica d’influenza della Turchia fu prevalentemente opera dei gülenisti. Negli Stati Uniti e in Europa le loro reti contribuirono a costruire un’immagine positiva di un Erdoğan aperto al dialogo e alla democratizzazione del suo Paese.
Per quanto forte, l’alleanza suscitava la diffidenza dei circoli kemalisti più legati ai principi fondatori della repubblica laica, anche se aveva conquistato molti intellettuali. Nonostante tutto, in quel momento l’esercito al potere si trovava indebolito e screditato da decenni di ostacoli posti alla democratizzazione, dalle misure messe in campo dal governo per rafforzare la sfera civile a scapito di quella militare[3], e dall’aura di cui Erdoğan all’epoca godeva in Occidente, in particolare negli Stati Uniti, per il suo modello di “democrazia islamica”. Di fatto, all’inizio degli anni 2000 la Turchia manifestava una salute economica quasi insolente, appariva rassicurante con i suoi sforzi di democratizzazione e apertura, e sembrava capace di pacificare il mondo musulmano attraverso un soft power religioso moderato, prodotto da istituzioni laiche e liberali, e destinato a tutto il Medio Oriente e non solo.
L’intesa tuttavia fallì. L’analisi fatta a posteriori attraverso la lente della sociologia della religione e del potere evidenzia che la rottura era inevitabile: con l’emancipazione di ciascuna delle due parti, i dissensi dovevano infatti cristallizzati in rivalità. Rafforzatesi l’un l’altra, il loro dominio – politico dell’una e religioso dell’altra – ha finito per mettere in luce profonde divisioni in politica sia interna che estera.
Dal punto di vista dell’AKP e del campo di Erdoğan, il movimento di Gülen era diventato troppo influente e avido di potere. Forti delle loro molteplici reti nel Paese e all’estero, i gülenisti iniziarono a chiedere un numero sempre maggiore di “quote” di deputati nelle liste dell’AKP alle varie elezioni. In Turchia la contrattazione tra organizzazioni religiose, come le confraternite sufi, e partiti politici è un classico, ma con il movimento di Gülen raggiunse livelli inediti. La pressione divenne minaccia e l’AKP, rifiutandosi di aprire ulteriormente la porta, portò la rivalità su questioni politiche di fondo decisamente più concrete e cruciali per il Paese, come il problema curdo.
Nel tentativo di risolvere la spinosa questione curda, Erdoğan avviò in segreto un dialogo con il PKK. Sebbene fosse considerato ufficialmente un movimento terroristico, quest’ultimo era diventato un interlocutore fondamentale per l’influenza che esercitava sulla società curda e sulle sue diverse organizzazioni. Erdoğan decise di avviare dei colloqui segreti a Oslo tra l’intelligence e alcuni rappresentanti del PKK per trovare una soluzione politica e mettere fine alla lotta armata. Il movimento di Gülen, però, più nazionalista dell’AKP e chiuso su questo tema, si oppose a questa strategia e per metterla in scacco rese pubbliche le informazioni relative alle trattative segrete, in modo da smuovere l’opinione pubblica.
Nel febbraio 2012, mentre Erdoğan era ricoverato in ospedale per un’operazione, il movimento di Gülen, attraverso uno dei suoi infiltrati nell’apparato giudiziario, emise un mandato d’arresto contro il capo dei servizi segreti turchi, Hakan Fidan (l’attuale ministro degli Esteri), accusandolo di collusione con l’organizzazione terroristica PKK. Il tentativo di arrestare Hakan Fidan, denunciando il mandato segreto di negoziazione con il PKK, mirava chiaramente a provocare la destituzione di Erdoğan. Il governo passò al contrattacco e approvò una legge che proteggeva il capo dei servizi segreti, la cui incriminazione non ebbe seguito senza l’avallo del Primo ministro.
Parallelamente, dal 2010 il disaccordo tra le due parti è venuto alla luce anche in politica estera, in particolare sulla questione israelo-palestinese. All’epoca, Erdoğan era ancora mediatore tra palestinesi e israeliani e denunciò il doppio gioco di questi ultimi nei negoziati di pace. Adottò allora una linea politica più dura nei confronti di Israele, e nel maggio 2010 inviò indirettamente a Gaza un convoglio umanitario di una ONG turca vicina al potere[4], nel tentativo di forzare il blocco della Striscia e portare aiuti umanitari alla popolazione. La missione fallì quando la marina israeliana prese d’assalto il convoglio uccidendo dieci cooperanti a bordo. L’incidente innescò una grave crisi politica tra la Turchia, Israele e i suoi alleati americani, che criticarono l’iniziativa turca. Fethullah Gülen, che all’epoca viveva già negli Stati Uniti, dove godeva del sostegno delle élite e dei circoli americani e filo-israeliani, si dissociò dalla politica filo-palestinese di Erdoğan, giudicandola addirittura irresponsabile. Ankara interpretò la posizione di Gülen come un atto di tradimento e un fastidioso sconfinamento nella sua politica estera.
Una rivalità fratricida senza vincitori
Dal 2012 le divergenze si fecero così profonde e inconciliabili da far implodere l’alleanza e trasformarla in un conflitto fratricida. Sopravvalutando da un lato le loro forze e la loro influenza nel cuore del governo, e dall’altro la cattiva stampa di cui godeva Erdoğan sulla scena internazionale a causa del suo interventismo in Siria, i gülenisti moltiplicarono gli attacchi al presidente turco. E sebbene questi non avesse aspettato il 2012 per contrastare la minaccia gülenista nel Paese e all’estero[5], non aveva messo in conto l’effetto contagio delle Primavere arabe in Turchia. Nel giugno 2013, un vasto movimento di protesta sociale e politica scosse la scena politica turca, minando la popolarità di Erdoğan e dando ai gülenisti il via libera per sferrare la stoccata. Due iniziative in particolare meritano la nostra attenzione.
Il primo attacco ebbe luogo nel dicembre 2013, quando agenti di polizia vicini a Gülen perquisirono le abitazioni di Erdoğan e del figlio, trovandovi milioni di dollari in contanti nascosti in scatole delle scarpe, ciò che rivelò la corruzione dilagante in Turchia. Il secondo attacco fu diretto contro dei camion di armi noleggiati dai servizi speciali turchi, quindi su mandato di Erdoğan, diretti in Siria. I destinatari finali non sono mai stati identificati, perché le armi non sono mai state consegnate, ma questo non ha impedito ai media gülenisti e ad altri detrattori di Erdoğan di accusarlo di collusione con gli islamisti radicali in Siria. In ogni caso, Erdoğan non perdonò queste pugnalate alle spalle.
La rivelazione pubblica di questi affari, con i suoi echi internazionali, puntava far cadere il regime di Erdoğan a vantaggio del movimento di Gülen. Ma contro ogni aspettativa, l’animale ferito non solo sopravvisse ai graffi, ma passò furiosamente al contrattacco. Erdoğan epurò lo Stato dalle talpe güleniste. A partire dalla fine del 2013, tutte le personalità note per la loro vicinanza a Gülen e che erano entrate nella polizia, nell’esercito o nel sistema giudiziario furono trasferite o licenziate. Queste rappresaglie su vasta scala, massicce e sproporzionate, spesso ai margini della legalità, volte a riprendere il controllo dello Stato, raggiunsero un livello tale da testimoniare la febbrilità paranoica delle élite dell’AKP e la vulnerabilità del potere in quegli anni turbolenti. In un contesto internazionale di crescente isolamento della Turchia a causa del suo interventismo in Siria e dell’interruzione del processo di pace con il movimento nazionale curdo, il controllo politico pubblico diventò repressivo, i media e le opposizioni furono silenziati e si fece strada un diffuso senso di insicurezza, che indebolì il potere. Gli attacchi del PKK ricominciarono, costringendo la Turchia a lanciare incursioni militari nella Siria da cui venivano organizzati. In questo clima di violenza e repressione Erdoğan si fece dei nuovi nemici nelle diverse strutture dello Stato, in particolare nei ranghi dell’esercito. Pensare che questo fosse ormai rinchiuso nelle caserme significava cancellare una lunga tradizione storica di colpi di Stato. Ancora una volta, infatti, i militari intervennero contro il potere. Il golpe del 15 luglio 2016 si spiega alla luce di questa concatenazione di eventi. I dettagli di questa operazione fallita restano poco chiari sotto molti aspetti, ma le analisi convergono nell’attribuirne la responsabilità ad alcune correnti dell’esercito e a funzionari militari affiliati al movimento di Gülen. Il tentativo di golpe è stato così miserabile e il fallimento così evidente che alcuni sono arrivati a sospettare una messa in scena orchestrata dallo stesso Erdoğan per riprendere il controllo delle istituzioni. Uscito rafforzato da questa prova e più che mai determinato a sradicare qualsiasi forma di gülenismo nel Paese, il Presidente ordinò un’epurazione che arrivò fino alle aule delle scuole. Così, decine se non centinaia di migliaia di persone furono licenziate, imprigionate e molte altre costrette all’esilio. La repressione tuttavia non venne limitata alle sole forze güleniste, ma fu estesa con molto opportunismo ad altre opposizioni che non avevano alcun legame con Gülen, in particolare l’opposizione liberale e alcuni difensori della causa curda[6]. La purga andò al di là dei confini del Paese, dove era iniziata già prima 2016.
In effetti, fin dalle prime ostilità güleniste contro il governo nel 2013, la diplomazia turca era stata incaricata di minare l’influenza e la potenza del movimento, per far sì che le scuole e le altre fondazioni di Gülen venissero chiuse. Il golpe del 2016 non ha fatto altro che accelerare e aumentare la pressione sulle cancellerie e i governi dei Paesi che le ospitavano. Pressati e intimiditi, molti Paesi hanno ceduto alle richieste di Ankara. In molti Stati del Caucaso e dell’Asia centrale, e nella maggior parte dei Paesi africani, Erdoğan è riuscito a ottenere la chiusura delle attività di Gülen. Rimangono aperte soltanto alcune strutture in Paesi come la Nigeria e il Sudafrica, che si sono opposti alle richieste del presidente turco in nome della loro sovranità e del rifiuto dell’ingerenza turca. Nei Paesi occidentali, come gli Stati Uniti, la Germania e il Belgio, dove le autorità non avevano nulla da rimproverare al movimento, le strutture güleniste sono rimaste aperte come forma di aiuto alle vittime della deriva autoritaria di Erdoğan.
Otto anni dopo il colpo di Stato e con la morte di Fethullah Gülen è lecito interrogarsi sull’eredità e sulle prospettive future del movimento da lui creato.
Eredità e prospettive future
Tra la sua ascesa all’inizio degli anni ’90 e il suo sradicamento nel 2016, il movimento di Gülen è stato un attore di primo piano nella sfera religiosa, culturale, mediatica, economica e persino politica della Turchia. I suoi simpatizzanti continuano a difendere i servizi resi al Paese: la diffusione di un islam moderato in Turchia e nel mondo, la sua ibridazione con la democrazia e il suo contributo al prestigio del Paese. È innegabile che le sue fondazioni abbiano organizzato migliaia di conferenze e seminari per promuovere un islam tollerante e il dialogo tra culture e religioni. Tuttavia, il loro contributo alla democratizzazione della Turchia merita qualche precisazione e qualche critica. È vero che i media del movimento di Gülen hanno contribuito allo sviluppo di una società civile che, in collaborazione con il governo dell’AKP, ha migliorato le condizioni delle minoranze etniche e religiose. D’altra parte, però, nello stesso periodo, i seguaci di Gülen non hanno esitato a fabbricare accuse di ogni sorta per epurare l’esercito dai loro rivali kemalisti e sostituirli con funzionari legati al movimento. Inoltre, è lecito dubitare della sincerità delle motivazioni quando un movimento fondamentalmente segreto, che proclama il proprio attaccamento alla democrazia e alla libertà, ricorre all’infiltrazione, alla cooptazione e alle intercettazioni illegali, come ha fatto tra il 2012 e il 2016, per assumere il controllo delle strutture dello Stato dal loro interno.
D’altro canto, l’influenza gülenista nel soft power della Turchia è indiscutibile. In Asia centrale, nel Caucaso, in Africa e altrove, sono state le loro reti a diffondere la lingua, la religione e la cultura turca in Paesi in cui la Turchia aveva tradizionalmente poca influenza. Quasi dieci anni dopo la rottura con l’AKP, questa eredità è ancora viva, soprattutto tra alcune élite africane ormai turcofone e sensibili alla cooperazione e agli scambi con la Turchia.
Infine, per quanto riguarda il futuro del movimento, la successione a Gülen rischia di essere complicata, anche se è difficile fare previsioni. Erdoğan, ancora al potere, continua a fare pressione per eliminarlo. Screditato ovunque dalla diplomazia turca, e anche dai detrattori di Erdoğan, e compromesso da motivazioni segrete di sovversione politica, il movimento di Gülen è inviso a tutti in Turchia e fatica a riconquistare la fiducia delle cancellerie e dei governi dei Paesi ospitanti. I fomentatori del colpo di Stato hanno messo in cattiva luce la virtù di un movimento che si diceva aperto, generoso e tollerante. Nella stessa Turchia, la violenza del golpe sulla coscienza collettiva[7] ha danneggiato l’immagine e la reputazione del movimento per molto tempo. All’estero i suoi effettivi sono ridotti all’osso e non possono sperare di esercitare un’influenza sulla scena interna turca. Per il momento il movimento si lecca le ferite e si concentra sull’assistenza ai sopravvissuti alle purghe.
Ne emerge che Gülen e la sua cricca hanno peccato per senso di superiorità e per cecità: fin dall’inizio, la forza e l’influenza del movimento nel Paese e all’estero si basavano in gran parte sull’alleanza con Erdoğan. Romperla, per giunta con il tradimento, significava firmare la propria condanna a morte. Significava anche ignorare e sottovalutare il potere del presidente Erdoğan, mettendo invece in luce la sua deriva autocratica e quasi onnipotente.
Più prosaicamente, il futuro della galassia in quanto tale e del suo funzionamento suggeriscono alcune osservazioni conclusive. La sociologia della religione ci insegna che i movimenti controllati e governati da una figura carismatica di tipo guru, come è stato Gülen per la sua comunità, non sopravvivono a lungo al loro fondatore. Gülen non ha designato successori, né ha formato o cresciuto alcun discepolo degno di questo ruolo tra le persone a lui più vicine. La gestione di quel che resta della rete di scuole, università e imprese sparse in tutto il mondo sarebbe stata affidata a un gruppo collegiale, un consiglio formato da quattro o cinque tra i più stretti e anziani collaboratori del maestro defunto. Il tempo ci dirà se dal quartetto emergerà un degno erede o se invece esso imploderà per i troppi dissensi.
Per saperne di più:
Bayram Balci, Missionnaires de l’Islam en Asie centrale : Les écoles turques de Fethullah Gülen, Maisonneuve et Larose, Paris 2003.
Joshua Hendrick, Gülen: The Ambiguous Politics of Market Islam in Turkey and the World, NYU Press, New York 2013.
Hakan Yavuz, John L. Esposito (a cura di), Turkish Islam and the Secular State: The Gülen Movement, Syracuse University Press, Syracuse 2003.
Hakan Yavuz, Bayram Balci (a cura di), Turkey’s July 15th Coup: What Happened and Why?, The University of Utah Press, Salt Lak