Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 28/10/2024 10:41:55

A causa di un problema tecnico venerdì scorso non è stata recapitata la nostra rassegna dalla stampa araba. La rimandiamo ora. Cogliamo l’​​​occasione per avvisarvi che questa settimana riceverete Focus e rassegna giovedì.

 

Dopo l’uccisione del leader di Hamas Yahya Sinwar per il mondo arabo è tempo di bilanci. La modalità con cui Sinwar è stato ucciso ha alimentato diverse riflessioni su come cambiano le guerre nell’epoca dell’intelligenza artificiale. “La fine di Yahya, un essere umano ‘invisibile’ sconfitto dalla scienza”, titola il sito d’informazione Asas Media. Negli ultimi istanti di vita di Sinwar, un drone israeliano inviato all’interno dell’edificio in cui si trovava il leader di Hamas riprende «un uomo seduto, sfinito, su un divano. È pieno di polvere. Il volto coperto da una kefiah che lascia visibili solo gli occhi stanchi. La mano destra amputata. Nella mano sinistra un bastone. Non riesce a reggersi in piedi», scrive il direttore editoriale del sito Muhamad Barakat. Questa immagine racconta la storia di «un uomo appartenente a un gruppo umano che per anni ha accumulato missili e razzi, e ora si trova di fronte uno strumento guidato dall’intelligenza artificiale di proprietà di un gruppo umano “criminale”, che nel 2019 era considerato il quinto Paese al mondo per superiorità tecnologica», prosegue l’editoriale. «Una guerra tra il bastone, quello che Yahya ha scagliato contro il drone che lo riprendeva, e l’intelligenza artificiale», uno scontro tra «una parte che si lancia nella sfida della scienza e un’altra che impiega tutto il denaro ricevuto per scavare tunnel, accumulare missili e produrre armi pesanti». In un’immagine c’è tutto il divario tecnologico che divide i due nemici. Il successo israeliano, continua il giornalista, è merito del «Vangelo di Gaza», ovvero il programma di intelligenza artificiale a cui Israele lavora da anni e che ha permesso di aumentare la frequenza delle operazioni militari nella Striscia da 50 l’anno a 100 al giorno. Barakat paragona infine l’Iran e i suoi alleati a un uomo che «ha migliorato e potenziato le spade senza sapere che la battaglia successiva sarebbe stata decisa dai cannoni e dalla polvere da sparo».  

 

La stessa immagine di Sinwar accasciato sul divano, ferito e impotente è commentata in maniera diametralmente opposta dallo scrittore yemenita filo-islamista Muhammad Jumeh. Su al-Quds al-‘Arabi (letteralmente “La Gerusalemme araba”), Jumeh celebra «il guerriero», «l’eroe», paragonandolo al protagonista del romanzo “La spina e il garofano” il cui autore è lo stesso Sinwar. È come se nel suo romanzo Sinwar avesse scritto il suo destino vent’anni prima che questo si compisse, commenta il giornalista riportando poi un estratto del testo, un dialogo tra il protagonista e la madre: «È giunto il momento, o madre, mi sono visto assaltare le loro postazioni, ucciderli come pecore e poi morire da martire. […] Mi sono visto nei giardini della beatitudine al cospetto dell’Inviato di Dio, la preghiera e la pace siano su di Lui, e lui esclamava: “Lode a te, lode a te!”». Il giornalista commenta poi l’effetto sortito dalla foto che ritrae Sinwar morto diffusa dagli israeliani: questi ultimi vi vedono «la resa e l’umiliazione», mentre la resistenza vi vede «l’eroismo e l’immortalità dell’eroe». Una questione di prospettiva che contrappone due diverse culture: «La cultura delle armi, della tecnologia e della forza materiale da un lato, e la cultura della volontà, della fede e della forza spirituale dall’altro», conclude Jumeh.

 

Per altri giornalisti la morte di Sinwar è stata l'occasione per fare autocritica. La tragica situazione in cui si trova oggi il Medio Oriente, che «può essere descritta solo come una sconfitta», è frutto di un’errata percezione della realtà da parte della Resistenza ma anche delle élite arabe, scrive Jamal Abu al-Hasan sulla testata egiziana al-Masri al-Youm. La sua idea è che gli arabi (e gli iraniani) abbiano sottovalutato la forza della società israeliana, la capacità di mobilitazione dello Stato ebraico e la sua disponibilità a sacrificare vite umane per difendere il proprio progetto. «L’attentato del 7 ottobre si fondava sull’idea che Israele avesse molti punti deboli, fosse più esposto e vulnerabile di quanto non sembrasse agli osservatori esterni e che colpire questi punti deboli avrebbe costretto lo Stato ebraico a fare delle concessioni», spiega al-Hasan. Il rapimento degli israeliani il 7 ottobre si fondava infatti «sul presupposto che la società israeliana non fosse in grado di tollerare perdite umane» come aveva dimostrato in passato, quando ha negoziato la vita di un soldato (Gilad Shalit) in cambio del rilascio di mille prigionieri palestinesi. Sulla base di questa concezione, poi rivelatasi errata, tra gli arabi si è fatta strada l’idea che Israele non volesse entrare in una guerra totale perché incapace di sopportare la perdita di un numero elevato di uomini, e che avrebbe reagito replicando gli schemi del passato, lanciando rappresaglie puntuali e negoziando il rilascio delle persone rapite in cambio della liberazione di centinaia di militanti. In questo «c’è chiaramente un errore di lettura della società israeliana e non solo di valutazione della forza israeliana. La lettura della società è più importante – spiega il giornalista – perché coinvolge l’aspetto della volontà, non soltanto la capacità. Le élite arabe hanno difficoltà a vedere i punti di forza della società israeliana». È normale, prosegue l’editoriale, che per un popolo occupato sia difficile vedere dei punti di forza nella potenza occupante. Ma non riuscire a farlo condanna alla sconfitta. «La forza di una società, la sua capacità di sopportare, sacrificarsi e rischiare non ha nulla a che vedere con il fatto che Israele sia uno Stato occupante, o che si trovi dalla parte sbagliata della storia. Ha piuttosto a che fare con la volontà del popolo israeliano di fare sacrifici per permettere la continuazione del progetto statale per come lo vedono loro». La prova della miopia araba è che pochi si aspettavano che la guerra sarebbe durata un anno o più, e che Israele attaccasse Hezbollah e l’Iran.

 

Decine, inoltre, le riflessioni in merito agli effetti della morte di Sinwar sul corso della guerra a Gaza. In generale prevale un senso di forte disillusione e pessimismo, e la convinzione che nulla potrà fermare i piani di Netanyahu.

 

L’uccisione di Sinwar e di altri leader della Resistenza ha «inorgoglito Netanyahu» e «lo ha rafforzato nell’idea che è possibile vincere su tutti i fronti», scrive il giornalista palestinese Bakr ‘Aweida su al-Sharq al-Awsat. In questo momento, inoltre, Netanyahu si sente forte e invulnerabile perché «l’amministrazione Biden ha i giorni contati e difficilmente Netanyahu darà peso a ciò che essa dice in questo periodo». L’idea è che finché non verrà eletto il nuovo presidente degli Stati Uniti Tel Aviv potrà fare impunemente ciò che vuole.

 

La fine di Sinwar non significa l’inizio di una nuova epoca, commenta invece Fadel Manasfa su al-‘Arab  smorzando l’ottimismo dei commentatori occidentali, che sperano in un cessate il fuoco a Gaza. «Non è possibile immaginare che la morte di Sinwar significhi la fine dell’ideologia di Hamas o l’inizio di una nuova era con una leadership più moderata e meno propensa alla guerra». Ciò che potrebbe verificarsi è un cambio nell’organizzazione interna del movimento; per i membri potrebbe diventare più difficile muoversi e potrebbero decidere di agire singolarmente anziché in gruppo, ma questo renderebbe più efficaci gli attacchi di Israele, spiega Manasfa. Inoltre, dal punto di vista di Netanyahu «l’eliminazione di Sinwar non fa venir meno la sua determinazione a proseguire la guerra e raggiungere i suoi obiettivi: liberare gli ostaggi ed eliminare Hamas».

 

Su al-‘Arabi al-Jadid, il giornalista siriano Ghazi Dahman immagina due scenari. Netanyahu potrebbe decidere di fermare il conflitto a Gaza per liberare risorse militari da destinare al fronte settentrionale, oppure potrebbe volerla proseguire nella convinzione di aver finalmente la possibilità di «schiacciare la resistenza palestinese una volta per tutte», convinto del fatto che mantenere aperto il fronte meridionale non incida negativamente sulla sua capacità di fuoco contro Hezbollah. Il giornalista ritiene probabile che Netanyahu riduca l’intensità degli attacchi contro Gaza ma senza impegnarsi in un cessate il fuoco definitivo.

 

Al-Sisi e la “cancel culture” all’egiziana [a cura di Chiara Pellegrino] 

 

In Egitto la demolizione della storica cupola della tomba della “Mustawlida Mohammad Ali Pasha”, più semplicemente nota come tomba di “Ali Pasha”, nel cimitero Imam al-Shafii a sud del Cairo, ha suscitato un’ondata di rabbia e proteste. Costruita 150 anni fa in uno stile che ricorda quello mamelucco, questo mausoleo così come molti altri edifici della zona è stato distrutto per permettere la realizzazione di una sopraelevata nell’ambito dei mega progetti varati da ‘Abdel Fatah al-Sisi per sviluppare la viabilità della capitale. Come spiega il quotidiano egiziano al-Masry al-Youm, la tomba ospitava le spoglie di Nam Shaz Qadin, una delle 27 concubine del primo khedivè d’Egitto, Mohammad Ali Pasha, da cui nacque il principe Muhammad Abdul Halim. Quando la donna morì nel 1869, fu il figlio a farle costruire la tomba nel cimitero Imam al-Shafii. Ieri il sindacato degli ingegneri egiziani ha chiesto di fermare la demolizione della cupola e ha annunciato la formazione di comitati di esperti di architettura per discutere la questione della distruzione di alcune aree urbane storiche, che va avanti ormai da anni.  

 

La scrittrice Abla El Ruwaini ha fatto una riflessione sulla «cultura della demolizione»: «Che cosa significa cancellare un teatro per costruire un garage? È una storia vecchia che si ripete dall’incendio del Teatro Khediviale dell’Opera nel 1971, su cui è stato costruito un garage multipiano, poi chiamato Garage Opera». Il problema, spiega Ruwaini, non è tanto decidere di distruggere un teatro o una tomba, ma è «la cultura della demolizione, della cancellazione della memoria, della violazione della storia e delle antichità, e dello smantellamento della cultura. È quella antica ed estesa piaga, che va dalla cancellazione delle attività di disegno, musica e teatro nelle scuole, alla riduzione degli studi umanistici, all’abolizione dello studio della filosofia e della logica; dalla demolizione della casa di Umm Kulthum, trasformata in un albergo e in una torre commerciale, al tentativo di demolire la tomba di Taha Hussein, che è stata salvata a fatica».

 

Sono stati inoltre numerosi i commenti sui social. «Tutta la creazione stava a guardare come io, da solo, costruivo le fondamenta della gloria… e dopo un’eternità sono rimasti tutti a guardare come i miei figli demoliscono la mia storia e la memoria degli anni… così l’Egitto parla di sé stesso», ha commentato indignata su X la presentatrice egiziana Lamis Elhadidy. Sarcastico il tweet dell’egittologa Monica Hanna: «Quanto durerà la vendetta contro il passato? La città dai mille minareti si è trasformata nella città dai mille bulldozer».

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