Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 18/10/2024 17:10:27

Sulla morte di Sinwar la stampa araba si è divisa, come spesso accade, in due fazioni: i media di proprietà qatariota celebrano la figura del “martire”, quelli vicini alle posizioni di Emirati e Arabia Saudita mostrano soddisfazione, nella speranza che ciò possa portare alla conclusione del conflitto. “La morte di Sinwar non assegna la vittoria a Netanyahu!” si affretta a titolare sul suo sito l’emittente qatariota Al Jazeera, tra le prime della stampa araba a commentare l’assassinio del leader di Hamas a Gaza. L’articolo ammette che in questo modo Israele ha centrato «un grande obiettivo»; tuttavia, le «terribili conseguenze» della guerra avviata dallo Stato ebraico «non finiranno con la fine di Sinwar […]. È probabile che Hamas e le altre fazioni palestinesi a Gaza siano in grado di proseguire la lotta sul campo a lungo, anche con il martirio di una personalità forte e influente come quella di Sinwar. Qualsiasi scommessa israeliana sul fatto che la sua eliminazione porterà al collasso della capacità di combattimento della resistenza palestinese, non farà altro che complicare i disegni israeliani sul giorno dopo di Gaza, a guerra conclusa».

 

Al-Quds al-‘Arabi dedica a Yahya Sinwar un vero e proprio epitaffio commemorativo, volto a giustificare le sue azioni sanguinose: «non si può ricordare Sinwar, oggi e in futuro, fuori dal contesto coloniale, razzista e genocida dell’Occidente e di Israele. Tuttavia i palestinesi e gli stessi arabi, nel momento in cui ricorderanno la sua eredità, saranno in disaccordo riguardo alla sua decisione di attaccare gli insediamenti che si trovano attorno alla Striscia di Gaza […]. La Storia ricorderà Sinwar come responsabile principale della decisiva svolta avvenuta in Palestina, in Medio Oriente e nel mondo. E come tutte le svolte storiche, infatti, passeranno un po’ di anni, o decenni al massimo, perché siano evidenti i veri risultati delle sue decisioni. Nel frattempo, Abu Ibrahim Sinwar farà ritorno al grembo della terra per la quale ha combattuto. Da lì, il suo spirito salirà in alto, verso il suo Creatore. I palestinesi lo ricorderanno come uno dei loro più grandi leader». Dello stesso tenore al-‘Arabi al-Jadid: «gli eroi storici, proprio perché sono storici, non muoiono con la loro morte, ma hanno una nuova nascita. Pertanto non pensate che la scomparsa del martire Yahya Sinwar sia una morte, così come quella di Nasrallah in Libano».

 

Succinto e didascalico il commento del quotidiano panarabo filo-emiratino al-‘Arab che compare sulla prima pagina dell’edizione del 18  ottobre, anche se un passaggio sembra gettare dubbi sulle tempistiche dell’omicidio: «è indicativo il fatto che gli israeliani, che hanno eliminato la catena di comando di Hamas a Gaza e i suoi esponenti di spicco all’estero, abbiano ritardato l’eliminazione di Sinwar. Ciò non ha soltanto a che vedere con l’abilità di Sinwar di nascondersi, ma anche con il fatto che Israele non voleva, in caso lo avesse ucciso troppo presto, che gli americani lo mettessero sotto pressione per terminare la guerra visto che la vendetta era stata compiuta».

 

Mishari al-Dhaydi, giornalista saudita di al-Sharq al-Awsat, si complimenta con lo Stato ebraico: l’uccisione del «più falco tra i falchi», la mente dietro l’operazione “Diluvio di al-Aqsa”, «fa calare il sipario» su un capitolo di storia di Hamas, Gaza, Palestina e Medio Oriente. «Oggi Israele può andare orgoglioso della morte del suo “nemico numero uno” che, dopo lo spaventoso conto delle vittime e delle devastazioni nella Striscia, è a tutti gli effetti, senza esagerare, un grande successo. Ma cosa avverrà ora?». Al-Dhaydi si chiede, con tono di speranza: «un piano per terminare questa guerra c’è? Anche se venissero uccisi un centinaio di Sinwar e Nasrallah, alla fine dovrà pur esserci un orizzonte politico, una valvola di sfogo e una via d’uscita per tutti questi vapori e correnti calde, altrimenti esploderanno di nuovo. È giunto per tutti il tempo di essere pragmatici, razionali e di pensare al domani?».

 

Libano: «Il vento forte sradica l’albero saldo, ma non l’erbetta» [a cura di Chiara Pellegrino

 

Martedì pomeriggio il leader de facto di Hezbollah Naim Qasim è ricomparso sugli schermi di al-Jazeera con un nuovo discorso, il terzo in quindici giorni. Nell’ultima uscita Qasim ha fatto marcia indietro rispetto a ciò che aveva fatto intendere nel suo precedente discorso sulla divisione dei fronti, quando aveva distinto la guerra in Libano da quella in corso a Gaza ventilando la possibilità di un cessate il fuoco separato. Martedì ha invece sostenuto che «non è possibile scindere il Libano dalla Palestina, né la regione dalla Palestina». Nel discorso il leader ha spiegato anche come è cambiato il ruolo di Hezbollah nell’ultimo mese – «dal 17 settembre siamo entrati in una nuova fase di opposizione all’aggressione israeliana e alla guerra che Israele sta conducendo contro il Libano. Non siamo più nella fase del semplice sostegno [a Gaza]» Come nella sua apparizione precedente, tuttavia, Qasim ha voluto mandare un messaggio ai militanti del movimento rassicurandoli sulle condizioni di buona salute di Hezbollah, e ha accusato l’Occidente di sostenere Israele a prescindere da quello che fa: «Dove sono le Nazioni Unite, la Francia, la Gran Bretagna, l’America, dove sono tutti? Ci dicono sempre che dobbiamo rispettare le risoluzioni internazionali, Israele però non rispetta nessuna risoluzione internazionale, fa ciò che vuole» e nessuno dice nulla. Il piano di Israele, ha proseguito Qasim, è «governare il mondo, non si accontenta di Gaza, ma vuole imporsi su tutto il mondo islamico», e lo stesso «Libano rientra in questo progetto di espansione».

 

Mentre Naim Qasim cerca di dissimulare le difficoltà del movimento, la situazione in Libano continua a peggiorare. «Hezbollah, Hamas e l’Iran non potevano vantarsi di aver liberato un solo centimetro di terra così si sono vantati di aver conquistato quattro capitali arabe» (Beirut, Damasco, Bagdad e Sana), scrive su al-Sharq al-Awsat l’intellettuale libanese Ridwan al-Sayyid. Adesso però «il Partito di Dio teme la risposta israeliana perciò chiede di negoziare, ma allo stesso tempo vuole conservare le sue armi, di cui potrebbe aver bisogno se l’attacco israeliano dovesse diventare molto fastidioso. Questa è la loro paura, mentre la nostra è il crollo totale dello Stato e della nazione». Il Libano però non è abbandonato a sé stesso: gli arabi sono disposti a contribuire alla sua ricostruzione, come era già accaduto nel 2006, anche se «questa volta è più difficile perché gli americani sono dalla parte di Israele nel tentativo di estirpare il Partito di Dio, anche a scapito di un milione di libanesi, così come la guerra per colpire Hamas ha portato all’uccisione di 50.000 persone e allo sfollamento della popolazione di Gaza». Al-Sayyid si augura che gli arabi sappiano «trasformare la crisi in un’opportunità». 

 

“Chi salverà il Libano dall’Iran?”, titola il quotidiano emiratino al-Ayn al-Ikhbariyya. «Salvare il Libano non significa sostenerlo con le armi, la resistenza o il denaro; il Libano deve liberarsi dalla dipendenza iraniana, affrontare Hezbollah e separarlo dallo Stato, e il confronto dev’essere reale, non di facciata come era solito accadere negli anni scorsi», commenta il giornalista emiratino Ali al-Zohri. E conclude che «l’uscita dall’inferno richiede di cambiare approccio rispetto alle questioni interne, correggere la propria posizione, accogliere il vicinato arabo ed evitare di cadere sotto lo sfruttamento iraniano».

 

Anche il giornalista libanese Khairallah Khairallah ritiene che la salvezza del Libano possa arrivare dai Paesi arabi. Posto che né Israele né l’Iran hanno a cuore il destino del Libano – Israele «insiste sulla creazione di una “striscia cuscinetto” lungo la “Linea Blu” con la possibilità di collegarla a un’altra striscia nel sud della Siria»; mentre l’Iran continua a insistere perché Hezbollah lanci missili contro Israele a scapito di tutti gli sciiti libanesi, che si vedono costretti  «a fuggire dalle loro zone» – il punto di svolta potrebbe essere il coinvolgimento arabo con la Giordania capofila, commenta Khairallah su Asas Media. L’incontro questa settimana tra il primo ministro ad interim libanese Najib Miqati e re Abdullah II ad Amman sembra indicare questa direzione. «Hezbollah non è mai stato un problema solo libanese. È sempre stato un problema anche arabo, perché rappresenta l’estensione del progetto espansionistico iraniano. […] Hezbollah ha giocato un ruolo fondamentale nel cambiamento demografico in Siria, nei dintorni di Damasco, lungo il confine siro-libanese e in altre zone siriane» e ha svolto un ruolo importante nel contrabbando di armi in Giordania attraverso la Siria, e di droga attraverso la Giordania verso gli Stati del Golfo, conclude l’editoriale.

 

«La forza del Libano è nella sua debolezza», commenta il giornalista libanese Raouf Kobeissi su al-Nahar riprendendo un’affermazione di Pierre Gemayel, politico libanese e fondatore delle Falangi Libanesi. A chi potrebbe accusarlo di essersi lasciato influenzare dall’affermazione di Hezbollah per cui «Israele è più fragile di una ragnatela», Kobeissi risponde con alcuni esempi: se un uomo viene trovato a picchiare un bambino per la strada tutti i passanti si schiereranno in difesa del bambino, che fra i due è la parte debole. Se la Francia dovesse aggredire il Lussemburgo tutti si ergerebbero in difesa di quest’ultimo per due ragioni: è un Paese piccolo e soprattutto democratico. La forza del Lussemburgo risiede dunque nella sua stabilità politica e nelle sue piccole dimensioni. «Israele avrebbe osato attaccare il Libano se il suo sistema politico fosse stato come quello del Lussemburgo?» domanda il giornalista. «La corruzione, la menzogna, l’ipocrisia e lo sfruttamento delle religioni non mette il Libano nella condizione di essere considerato tra i Paesi rispettabili». La soluzione è istituire un «sistema civile laico […], che protegge il Libano dalle manomissioni dei politici e degli uomini di religione, ne migliora la posizione nel mondo e lo qualifica per diventare uno Stato serio e rispettato». Questo, insieme alle sue dimensioni piccole, salverebbe il Paese dei cedri. Il giornalista conclude con una citazione di Ibn al-Muqaffa tratta da Kalima wa Dimna, celeberrimo “manuale” di filosofia politica medievale: «Il vento forte sradica l’albero saldo, ma non può sradicare l’erbetta».

 

La duplice uccisione di Haniye e Hassan Nasrallah ha inoltre riaperto il tema della riforma religiosa all’interno dell’islam, una questione che si ripresenta ciclicamente nei momenti più delicati della storia contemporanea dei Paesi islamici. Se n’era parlato molto dopo l’11 settembre, dopo la nascita dell’ISIS e dell’ondata di attentati che ha investito l’Europa tra il 2015 e il 2017. «Tutti i rimedi che sono stati adottati non hanno portato i risultati sperati. La Primavera araba, la nascita dell’ISIS, i lupi solitari, la polarizzazione confessionale sciita-sunnita e l’attentato del 7 ottobre confermano il fallimento delle cure». Se sono fallite, scrive Hani Salem Mashour (giornalista yemenita residente negli Emirati) su al-‘Arab, è perché ci si è rifiutati «di affrontare le problematiche profonde presenti nei libri della tradizione. La radice del problema risiede nelle interpretazioni estremiste dei testi religiosi e storici, che vengono diffusi e insegnati in molte istituzioni educative e religiose del mondo arabo islamico. Queste interpretazioni, spesso avulse dal loro contesto storico, alimentano l’idea di una “nazione eletta” e di un “diritto assoluto”, portando a rifiutare l’altro e a giustificare la violenza contro di esso». Il processo pubblico a Sinwar – che nel momento della pubblicazione di questo articolo non era ancora stato ucciso – «dovrebbe essere l’inizio di un’operazione di riforma globale nel mondo arabo islamico». Questo processo dovrebbe includere la riforma delle istituzioni religiose, lo sviluppo di programmi educativi e la promozione dei valori della cittadinanza e della democrazia, conclude il giornalista.

 

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