L’erede di Osama Bin Laden ha attraversato tutte le fasi e le varie declinazioni dell’islamismo armato. La sua uccisione segna la fine di un’epoca
Ultimo aggiornamento: 20/03/2024 16:14:51
È difficile misurare la portata effettiva dell’uccisione di Ayman al-Zawahiri, guida di al-Qaida da quando nel maggio del 2011 un commando statunitense eliminò Osama bin Laden. I documenti rinvenuti allora nel compound del jihadista saudita ad Abbottabad, studiati in profondità da Nelly Lahoud, mostrano un’organizzazione già in affanno all’indomani dell’11 Settembre, e da allora inesorabilmente in declino. Dell’uscita di scena del medico egiziano è invece innegabile il valore simbolico. Al-Zawahiri è infatti la figura che più di altre ha incarnato la storia e la parabola del jihadismo contemporaneo, con le sue diverse fasi e nelle sue varie declinazioni.
Nato nel 1951 a Maadi, quartiere benestante del Cairo, già a quindici anni aveva creato con alcuni compagni del liceo una cellula clandestina che si prefiggeva di rovesciare il governo egiziano per instaurare un sistema politico islamico. È il 1966, anno in cui il regime di Nasser mette a morte Sayyid Qutb, ideologo per antonomasia dell’islamismo jihadista e fonte d’ispirazione anche del giovane Ayman, il quale ambisce a tradurre in pratica quanto delineato nei testi del suo mentore. Negli anni ’70 Zawahiri gode, come tutti i militanti dell’epoca, di una certa libertà di azione, grazie all’indulgenza di Sadat verso il fenomeno del “risveglio islamico”, e insieme all’attivismo islamista porta avanti gli studi in medicina e poi la professione di chirurgo. Nel 1981, l’assassinio del presidente egiziano da parte di un commando jihadista fa scattare un’ondata di arresti che coinvolge anche Zawahiri. Benché non sia tra i responsabili diretti dell’attentato, questi rivendica la sua complicità morale e soprattutto vive il carcere come un’esperienza di martirio simile a quella sperimentata da Qutb.
Liberato nel 1984, si trasferisce in Pakistan e quindi in Afghanistan, all’epoca meta d’elezione per i militanti dell’islamismo armato, attrattati dalla possibilità di partecipare alla difesa di un territorio islamico occupato e incoraggiati dai propri governi a rivolgere all’estero il proprio desiderio d’immolarsi “sulla via di Dio”. A Peshawar, città pakistana in cui convergono i combattenti che da tutto il mondo si uniscono alla causa dei mujahidin afghani, entra in contatto con un giovane e facoltoso saudita, Osama bin Laden, dal quale spera di ottenere il sostegno necessario a riorganizzare il jihad in Egitto. Il sodalizio che nasce tra i due, destinato a fare la storia del terrorismo islamista, non è privo di divergenze, soprattutto nei primi tempi. Il ritiro dei sovietici dall’Afghanistan pone infatti i jihadisti di fronte alla necessità di ridefinire i propri obiettivi. Bin Laden e Zawahiri, rifugiatisi intanto in Sudan, coltivano due visioni diverse della lotta armata. Il primo, che aborre la presenza militare americana nel suo Paese d’origine, sollecitata dalla monarchia saudita in seguito all’occupazione irachena del Kuwait, si convince che gli Stati Uniti siano il nemico contro il quale concentrare i propri sforzi. Per qualche anno Zawahiri rimane invece fedele all’idea che la priorità sia rovesciare il regime egiziano, impersonificato in quel momento da Hosni Mubarak: «la via per Gerusalemme passa per il Cairo», scriverà nel 1995 su una rivista jihadista. Effettivamente, negli anni ’90 l’Egitto è teatro di una sanguinosa serie di attentanti, che tuttavia sortisce l’effetto contrario a quello voluto dagli islamisti. La violenza indiscriminata scatenata da questi ultimi contribuisce a scavare un solco tra il movimento jihadista e la popolazione, mentre il tentativo di decapitare lo Stato egiziano fallisce nel 1995, quando Mubarak sfugge a un attentato.
È allora che anche Zawahiri si decide a un cambio di strategia. Nel 1998, è tra i firmatari, insieme a Bin Laden, della dichiarazione che dà vita al Fronte islamico mondiale per il Jihad contro gli Ebrei e i Crociati, al cui interno si trova la fatwa secondo cui «uccidere gli americani e i loro alleati, siano essi civili o militari, è un dovere che s’impone a ogni musulmano». È il passaggio al jihad globale, che per due decenni avrebbe rappresentato la forma per eccellenza del terrorismo transnazionale. A quest’impresa, Zawahiri contribuisce ideologicamente, in particolare con due testi, Cavalieri sotto la bandiera del Profeta e La fedeltà e la rottura. Una dottrina alterata e una realtà persa di vista, e operativamente, sia come braccio destro di Bin Laden che come suo erede alla guida dell’organizzazione responsabile dell’11 Settembre. Certamente gli manca il carisma del sodale saudita. Negli ultimi tempi, i video dei suoi lunghi interventi erano diventati noti più per il tedio che provocavano in chi li guardava che per i loro contenuti e la loro capacità di mobilitazione. Zawahiri appare così come il gestore del declino di al-Qaida, che sopravvive quale marchio di cui si fregiano gruppi sparsi in tutto il mondo ma non funziona più come centrale organizzativa delle azioni jihadiste globali.
A un anno di distanza dal ritiro americano dall’Afghanistan, la morte del leader jihadista egiziano è un altro sigillo posto sulla fine dell’era della guerra al terrore. Tuttavia, la sua concomitanza con l’invasione russa dell’Ucraina e con l’innalzamento della tensione tra Stati Uniti e Cina suggerisce anche un’altra considerazione. Per due decenni l’islamismo radicale è stato elevato a nemico ontologico del “mondo libero”. Questo fenomeno sopravvive ai suoi grandi protagonisti come forza insurrezionale locale, soprattutto nei contesti già segnati da crisi e conflitti, ma è dallo scontro di potenza tra attori statuali che viene la minaccia più grave alla pace mondiale.
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