La riesplosione del conflitto israelo-palestinese ha avuto l’effetto di attenuare le fratture tra diverse correnti dell’Islam. Simbolo di questo sviluppo è la moschea di al-Azhar, che nonostante la sua ostilità verso i Fratelli musulmani sta sostenendo l’operato di Hamas
Ultimo aggiornamento: 05/11/2024 15:31:34
Dopo il 2011, uno degli effetti delle rivoluzioni arabe è stata la frattura politico-religiosa, interna all’Islam sunnita, tra un campo filo-islamista sponsorizzato dal Qatar e un campo anti-islamista guidato da Emirati Arabi Uniti ed Arabia Saudita. Le due posizioni hanno finito per cristallizzarsi in altrettante istituzioni. Da un lato l’Unione mondiale degli Ulema di Doha, punto di riferimento della galassia dei Fratelli musulmani; dall’altro il “Consiglio dei Saggi musulmani”, promosso dagli Emirati e presieduto dal Grande Imam di al-Azhar Ahmad al-Tayyeb.
Già attenuatasi dopo la riappacificazione tra il Qatar e gli Stati arabi che nel 2017 avevano isolato il piccolo emirato, tale divisione si è ulteriormente sfumata quando il 7 ottobre del 2023 è riesplosa la questione israelo-palestinese. Simbolo di questi sviluppi è la moschea egiziana di al-Azhar, uno dei più prestigiosi centri d’insegnamento dell’Islam sunnita. Nel 2013, il suo Grande Imam aveva appoggiato la destituzione del presidente egiziano e membro dei Fratelli musulmani Mohammed Morsi, rovesciato da un intervento dell’esercito, e negli anni successivi al-Azhar ha messo in atto una delegittimazione sistematica della Fratellanza. Nel 2020, il centro per la fatwa della moschea era anche arrivato a dichiarare che l’adesione a questa organizzazione era proibita dalla shari‘a.
Molto diverso è l’atteggiamento di al-Azhar nei confronti di Hamas, che pure affonda le sue radici nell’esperienza dei Fratelli musulmani. Il giorno stesso dell’attacco contro Israele, la moschea si è pronunciata per «salutare con orgoglio gli sforzi della resistenza del fiero popolo palestinese» e nei mesi successivi ha moltiplicato gli appelli a favore della Palestina e le condanne dello Stato ebraico. Il 18 ottobre scorso, due giorni dopo l’uccisione del leader di Hamas Yahya Sinwar, al-Azhar ha affermato in un comunicato di «piangere gli eroici martiri della resistenza palestinese su cui si è allungata la criminale mano sionista», criticando i tentativi di dipingere la “resistenza” come “terrorismo”.
L’impegno di al-Azhar per la causa palestinese non è una novità. Nel 2019, al-Tayyeb aveva accolto al Cairo una delegazione di dirigenti di Hamas, tra i quali Ismail Haniyeh e Saleh al-Arouri, entrambi uccisi nell’ultimo anno da operazioni israeliane. Nel maggio del 2021, quando lo sgombero forzato di alcune famiglie palestinesi a Gerusalemme Est e l’irruzione delle forze di sicurezza israeliane all’interno della moschea di al-Aqsa innescarono un nuovo scoppio di violenza, la moschea lanciò una campagna mediatica per dimostrare l’arabità di Gerusalemme, sottolineando il ruolo della tribù canaanita dei Gebusei nella costruzione della città: un punto di vista singolare, dal momento che esso svaluta di fatto la figura di Re Davide, il conquistatore di Gerusalemme menzionato più volte nel Corano e considerato un profeta dai musulmani.
Al-Azhar, inoltre, non ha mai commentato pubblicamente gli “Accordi di Abramo” con cui alcuni Stati arabi hanno stretto relazioni formali con Israele. Il Grande Imam ha invece più volte messo in guardia dai tentativi di istituire un’unica religione abramitica che trascenda i tre monoteismi storici, un modo non troppo velato di dissociarsi dalla riconciliazione con Israele nel nome del patriarca biblico e profeta islamico.
Anche una personalità come ‘Ali Gomaa, l’ex-mufti d’Egitto che nel 2013 avallò con una fatwa il massacro compiuto dall’esercito egiziano ai danni di centinaia di Fratelli musulmani riuniti per protestare contro il rovesciamento di Morsi, ha una visione molto più sfumata di Hamas e in un intervento al Parlamento egiziano si è scagliato contro “l’entità sionista”.
All’estremo opposto, tra le organizzazioni che hanno commemorato Yayha Sinwar figura anche al-Qaida, in passato molto critica verso le scelte del movimento islamista palestinese. Ciò non significa che al-Azhar e il gruppo simbolo del jihadismo globale facciano ora parte di un fronte comune. Il comunicato con cui al-Qaida ha celebrato il leader di Hamas, per esempio, sembra implicitamente biasimare proprio le istituzioni come la moschea egiziana là dove afferma che gli ulema «devono superare la fase delle fatwe e delle dichiarazioni di solidarietà e di condanna» e offrire invece «il loro sangue». Da parte sua, in questi anni al-Azhar non ha mai raffigurato la lotta contro Israele come un jihad. Ma questa convergenza dà la misura dell’unanimità che la questione palestinese è capace di suscitare tra personalità e istituzioni islamiche altrimenti molto distanti. Lo stesso può dirsi per la spaccatura tra sunniti e sciiti, le cui differenze teologico-politiche vengono smussate dall’impegno comune per la Palestina.
Teoricamente le due grandi correnti dell’Islam dovrebbero avere una sensibilità diversa nei confronti del conflitto israelo-palestinese. L’importanza che i musulmani attribuiscono alla Palestina è infatti legata alla sacralità di Gerusalemme, che i sunniti considerano terza città santa dell’Islam dopo La Mecca e Medina. Benché Gerusalemme non sia esplicitamente menzionata nel Corano, la tradizione islamica maggioritaria la identifica infatti con il luogo che Muhammad avrebbe raggiunto durante il suo viaggio notturno dalla Mecca (isrā’) e dal quale avrebbe compiuto la sua ascesa al cielo (mi‘rāj). A partire da questo dato, la città fu poi celebrata attraverso le “Virtù di Gerusalemme” (Fadā’il Bayt al-Maqdis), un genere letterario che iniziò a proliferare nell’VIII secolo. Essa ha inoltre un ruolo rilevante nell’apocalittica sunnita. La geografia sacra degli sciiti è parzialmente diversa, e a Gerusalemme antepone altre città sante. Un detto attribuito ad ‘Ali, cucino e genero di Muhammad e primo imam secondo la tradizione sciita, invita a mettersi in marcia verso tre moschee: quella della Mecca, quella di Medina e quella di Kufa (in Iraq). Una narrazione simile vuole che per il sesto imam, Jafar al-Sadiq, la moschea di Kufa sia migliore di quella di Gerusalemme.
Ciò non ha impedito una militanza trasversale ai due gruppi. Già negli anni ’30, alcuni religiosi sciiti iracheni invocarono il superamento dei confini confessionali per rispondere più efficacemente alla pressione imperialista e alla colonizzazione della Palestina. E sin dalla fondazione della Repubblica Islamica l’Ayatollah Khomeini individuò nella causa palestinese la leva che avrebbe consentito all’Iran di porsi a capo di un movimento panislamico e anti-imperialista. Negli anni ’80, poi, la nascita di Hezbollah certificò l’adesione dello sciismo politico arabo alla “resistenza” allo Stato d’Israele.
Questa vasta adesione alla causa palestinese non ha una traduzione politica immediata. Gli Stati musulmani continuano infatti a perseguire i propri interessi, che in alcuni casi coincidono con quelli d’Israele. Benché abbia lasciato libero corso alle invettive di al-Azhar contro “l’entità sionista”, dopo il 7 ottobre l’Egitto non ha mai messo in discussione il riconoscimento dello Stato ebraico, né gli Emirati hanno rinnegato gli accordi di Abramo. L’Arabia Saudita è tornata a insistere sulla necessità di dare uno Stato ai palestinesi, ma i media di cui è proprietaria sono molto critici verso Hamas e Hezbollah, considerati un nemico ben più pericoloso di Israele.
Gli appelli di al-Azhar e di altre istituzioni islamiche danno tuttavia voce a un sentimento popolare profondo e sono sintomatici della rilevanza globale assunta dalla Palestina. In un documento dei suoi primi anni, Hamas scriveva che la «causa palestinese non riguarda la terra e il suolo, ma la fede e il credo». Terra e fede, nazionalismo laico e nazionalismo religioso, sono in realtà inestricabilmente intrecciati, dal momento che il territorio palestinese è la posta in gioco allo stesso tempo materiale e simbolica del conflitto tra i due popoli che lo abitano. Un conflitto che sta già incendiando tutto il Medio Oriente, ma che proprio per la sua natura rischia di estendersi illimitatamente.
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