Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba
Ultimo aggiornamento: 28/03/2025 14:21:11
La stampa araba si divide sull’interpretazione da dare alle recenti proteste degli abitanti di Gaza contro Hamas. I giornali filo-emiratini e le testate palestinesi vicini all’Autorità Nazionale colgono l’occasione per evidenziare i gravi errori commessi dal movimento islamista, in evidente difficoltà. Per contro, il fronte filo-qatariota rispedisce le accuse al mittente, argomentando come il problema non riguardi la “Resistenza”, ma quella parte della politica palestinese che col tempo ha di fatto accettato l’occupazione israeliana. Silenzio, invece, da parte della stampa saudita.
Il filo-emiratino al-‘Arab, sempre molto critico nei confronti di Hamas, mette in risalto le proteste e nella prima pagina dell’edizione del 26 marzo titola: «L’intifada di Gaza: via Hamas, via!». Sullo stesso giornale, Hamid Qurman spiega meglio il concetto: «la fine di Hamas richiede una rivolta popolare palestinese», una nuova «intifada» che si opponga tanto agli israeliani quanto ai miliziani di Hamas. Per gli abitanti di Gaza, infatti, l’occupazione israeliana e il regime oppressivo del movimento islamista rappresentano due facce della stessa medaglia. Anzi, questi due attori, osserva l’autore, sembrano sostenersi a vicenda: «ci sono molti punti di domanda intorno al golpe [del 2007], che allora fu approvato da Israele, con cui Hamas si infiltrò all’interno dell’apparato militare e securitario della Striscia». Dopo il 7 Ottobre la problematicità di Hamas è emersa in maniera lampante, al punto da non poter più essere giustificata: «le richieste di Hamas sono irrealistiche e non offrono una soluzione alla crisi né fermeranno il genocidio. Spetta al popolo palestinese prendere l’iniziativa e ribellarsi al movimento». Così facendo, conclude Qurman, si assesterebbe un duro colpo anche alla leadership di Benyamin Netanyahu. Sulla stessa linea lo scrittore iracheno Faruq Youssef che sempre su al-‘Arab scrive: «Hamas non può far altro che uscir fuor di scena». È vero, ammette, anche l’Autorità Nazionale Palestinese ha fallito miseramente, ma questo «è un altro tema, seppur non meno doloroso». Quel che importa ora, però, è che Gaza, dopo tutte le sofferenze che ha subito, «meriti di essere trattata in maniera diversa». Tuttavia Hamas, per quanto indebolita, non rinuncerà facilmente al controllo sulla Striscia: «il movimento si rifiuta di diventare cosa del passato. Un passato di dolore e di fame per la gente di Gaza. Negli anni in cui ha controllato la Striscia non c’è stato un singolo ricordo positivo, anzi: il movimento è accusato di aver separato Gaza dalla Palestina e di aver svuotato la causa palestinese dal suo contenuto di lotta di liberazione araba consegnandola all’Iran sotto lo slogan della “Resistenza Islamica”».
La stampa dell’orbita qatariota prende in generale le parti del movimento e si scaglia sia contro gli occupanti israeliani sia contro i politici di Fatah e dell’Autorità Nazionale. Al-‘Arabi al-Jadid, ad esempio, denuncia l’inconsistenza delle parole di Abu Mazen, che al vertice arabo del Cairo di inizio marzo aveva parlato della legittimità dell’Autorità Nazionale, anche se «la sua presidenza è scaduta costituzionalmente nel 2009». Sullo stesso quotidiano, lo scrittore marocchino Ali Anouzla si chiede: «Perché Hamas non si arrende?» . La risposta è semplice: la resa di Hamas segnerebbe la fine della sua ragion d’essere. «Non esiste nella storia un movimento di resistenza nazionale che si sia consegnato al nemico, ponendo fine alla causa per cui combatteva». Anouzla non cita direttamente le proteste e le voci critiche provenienti dal mondo arabo, anche se il seguente appello sembra essere rivolto proprio all’opinione pubblica anti-Hamas: «chi oggi invita la resistenza ad arrendersi, anche se in buona fede […], sarebbe oggettivamente schierato dalla parte del carnefice e sarebbe contro la vittima. Invece di dare la colpa alla resistenza palestinese – prosegue Anouzla – andrebbe incolpato l’occupante criminale». Su al-Quds al-‘Arabi il giornalista palestinese Suheil Kiwan assolve il movimento islamista: «nessuno può o ha il diritto di incolpare la Resistenza e chi la sostiene per qualsiasi posizione e decisione necessaria per salvare le persone da questo olocausto». Anche la testata filo-islamista Arabi21 prende le parti del movimento e ridimensiona l’ampiezza delle proteste anti-Hamas quasi avallando teorie complottiste: «L’altro ieri sono spuntate nella Striscia delle manifestazioni contro il genocidio […] a cui si sono aggiunte alcune persone che avevano degli striscioni anti-Hamas. Note piattaforme mediatiche arabe le hanno inquadrate, ingigantendo la loro portata e trasformandole nella notizia del momento, come se si trattasse di un miracolo inaspettato! Le proteste sono state precedute da una campagna molto chiara che ambiva a colpire tutti coloro che non appartenevano a Fatah». Questa interpretazione viene categoricamente rifiutata dal ricercatore palestinese Mohsen Abu Ramadan che su al-‘Arabi al-Jadid scrive: «non ha senso ripetere la teoria del complotto […] occorre invece comprendere la situazione in maniera obiettiva ed esaminarne le cause, senza lanciare accuse che non servono a risolvere la crisi […]. Hamas deve prendere in seria considerazione le rimostranze popolari e rivedere la sua politica interna, rinunciando al controllo oppressivo e alla restrizione delle libertà».
Anche gran parte dei quotidiani palestinesi sottolinea, con toni più o meno forti, le difficoltà di Hamas. Sul giornale Al-Ayyam Ashraf al-Ajrami, membro di Fatah, passa in rassegna i suoi «errori disastrosi», dal fallito negoziato con gli Stati Uniti alle macabre cerimonie svoltesi durante lo scambio di prigionieri: «è giunta l’ora per Hamas di riesaminare la realtà alla luce delle attuali condizioni». La testata Al-Haya al-Jadida concorda: «Hamas ora è messa all’angolo, e con essa viene minacciato il futuro di quasi due milioni di gazawi», mentre al-Manar si mostra molto più imparziale, tanto da lanciare al lettore il seguente appello: «è tuo diritto criticare Hamas e l’Autorità, ma ricordati che sei un palestinese». La lotta contro Israele è «esistenziale» e non può passare in secondo piano di fronte ai dissidi intra-palestinesi.
L’arresto di İmamoğlu riapre il dibattito sull’islamismo [a cura di Chiara Pellegrino]
L’arresto del sindaco di Istanbul, Ekrem İmamoğlu, avvenuto il 19 marzo, divide la stampa araba, sempre molto attenta a quello che accade in Turchia. I quotidiani filo-emiratini lo interpretano come un’azione repressiva per silenziare gli oppositori che rivela la vera natura degli islamisti, i quali reclamano la libertà per sé ma la negano agli altri. Al contrario, i media riconducibili al Qatar, tradizionalmente benevoli nei confronti del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, presentano l’episodio come parte di una più ampia operazione anti-corruzione volta a tutelare la stabilità del Paese.
Su al-Quds al-‘Arabi, Turan Kışlakçı, direttore generale di TRT Arabic, il canale satellitare fondato nel 2010 dal Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP), difende la versione ufficiale turca dei fatti ed esclude che la vicenda sia un tentativo da parte del presidente Erdoğan di emarginare un rivale. Il giornalista scrive che l’operazione anti-corruzione lanciata dalle autorità turche non mirava a colpire specificamente il Partito Popolare Repubblicano (CHP), ma ha coinvolto decine di municipi, molti dei quali amministrati dall’AKP. L’indagine, prosegue il giornalista, è stata avviata a seguito di alcune segnalazioni fatte dagli stessi membri del partito di Imamoğlu all’autorità centrale. Kışlakçı sposta poi l’attenzione sui conflitti interni al Partito Popolare Repubblicano, il cui ex leader Kemal Kılıçdaroğlu ha intentato una causa contro il suo stesso partito chiedendo l’annullamento del congresso del 2023, in cui aveva perso la carica di capo del partito a favore di Özgür Özel. Il CHP, prosegue l’articolo, terrà quindi un congresso straordinario il prossimo 6 aprile per risolvere i problemi interni. «I più danneggiati dalla vicenda sono i giovani che sostengono il CHP», scrive il giornalista. «Questi ragazzi sono diventati vittime dei conflitti interni al partito, ma non se ne sono ancora resi conto. Pensavano di lanciare un movimento simile agli eventi di Gezi Park del 2013, ma agli occhi del popolo sono diventati una generazione che difende la corruzione». Il vero obiettivo, secondo Kışlakçı, «è riportare Kılıçdaroğlu alla guida del partito al prossimo congresso». In Turchia, conclude l’articolo, «il problema più grande è la mancanza di un’opposizione capace», una frase che replica pressoché alla lettera gli argomenti utilizzati dallo stesso Erdoğan.
Secondo Gerard Dib, giornalista libanese di al-Jazeera, il panorama politico turco sta attraversando una fase di profonda ristrutturazione interna. A suo avviso, la mossa di Erdoğan «è preventiva, un colpo da maestro contro la corruzione, volto a neutralizzare chi aspira a escludere la Turchia dal novero dei Paesi influenti della regione». Il rischio, sottolinea Dib, è che gli attori stranieri «in attesa della caduta di Erdoğan e del suo partito» possano sfruttare le proteste scoppiate dopo l’arresto del sindaco per servire i propri interessi. Il giornalista evoca un possibile retroscena, ricordando che le manifestazioni a sostegno del sindaco sono esplose solo pochi giorni dopo l’annuncio, il 15 marzo, dell’arresto da parte dei servizi segreti turchi di cinque individui accusati di spionaggio per conto dell’intelligence iraniana in un’operazione condotta in tre province, tra cui Istanbul. Sebbene non esista necessariamente un legame tra la detenzione del sindaco di Istanbul e le operazioni dell’intelligence iraniana, scrive Dib, la gestione corrotta del potere da parte di Imamoğlu potrebbe offrire ai Guardiani della Rivoluzione un’occasione per rafforzare la loro influenza nella regione. Inoltre, sottolinea come l’instabilità della Turchia avvantaggi anche la Russia, considerando la rivalità tra Ankara e Mosca in Siria. Secondo il giornalista, Erdoğan percepisce una minaccia imminente per la sicurezza nazionale e si sta muovendo rapidamente per contenerla: alla luce della situazione regionale attuale è bene evitare «l’ascesa al potere di presidenti corrotti che potrebbero riportare la Turchia nell’era dell’isolamento». Erdoğan, conclude l’editoriale, «farà di tutto per impedire qualsiasi cambiamento che possa ridimensionare il ruolo della Turchia nella regione».
Dure invece le parole di Muhammad Abu Fadl, giornalista egiziano che sul quotidiano filo-emiratino al-‘Arab accusa gli islamisti di essere rimasti in silenzio di fronte all’arresto di Imamoğlu e la repressione dei manifestanti nei giorni successivi. La vicenda turca «ha messo in evidenza la profonda frattura nel discorso politico della Fratellanza e la sua riluttanza a rivederlo criticamente». La Fratellanza, prosegue il giornalista, «non ha speso una sola parola, né ha riconosciuto che quanto sta accadendo a Imamoğlu è in contraddizione con i principi di libertà che essa stessa proclama, con i valori democratici in forza dei quali è stato eletto, o con l’idea di Stato che i suoi leader promuovono come modello di tutela dei diritti umani, capace di offrire protezione politica ai suoi cittadini e di garantire il diritto di protesta nelle piazze». Se la stessa situazione si fosse verificata in Egitto con un esponente dell’islam politico, prosegue il giornalista, gli islamisti turchi «avrebbero eretto una grande tenda funebre in una piazza di Istanbul, i loro media avrebbero gridato allo scandalo umanitario, amplificando il caso, e avrebbero chiesto l’intervento delle organizzazioni internazionali per i diritti umani affinché facessero pressione sulle autorità egiziane». Il vero problema della Fratellanza, conclude Abu Fadl, è il suo costante ricorso a due pesi e due misure: «quando sono loro a commettere errori, li giustificano, minimizzano o li ignorano; quando a sbagliare sono gli altri, li accusano di cospirazione e trasformano ogni vicenda in una questione morale».
Ad Abu Fadl sembra rispondere indirettamente il suo connazionale, l’analista politico Amr al-Shubaki, che su al-Sharq al-Awsat (quotidiano di proprietà saudita) mette in guardia dal leggere l’esperienza turca attraverso la stessa lente con cui si osserva la realtà egiziana. Sostenere che Erdoğan e il suo partito siano parte dell’organizzazione dei Fratelli musulmani è, secondo al-Shubaki, «un’accusa ridicola». L’analista riconosce che il presidente turco ha sfruttato per un periodo la carta dell’islam politico come strumento di influenza nella regione, ma osserva anche come dopo aver capito che si trattava di una strategia perdente, il reis abbia fatto marcia indietro. A suo avviso, Erdoğan guarda con condiscendenza ai movimenti islamisti arabi, considerandoli più come strumenti da utilizzare che veri alleati. Sul piano interno, invece, la Turchia è «più vicina alle esperienze degli Stati arabi civili e al discorso delle correnti civili arabe che alle correnti dell’islam politico». Nei primi decenni della Repubblica, prosegue l’articolo, il modello laico turco escludeva completamente la religione dalla sfera pubblica. Erdoğan ha rimodellato questo paradigma, «avvicinando il modello laico turco alle costituzioni civili arabe nel rapporto con l’islam, pur rimanendo più laico di esse». È vero, però, conclude al-Shubaki, che Erdoğan «ha spesso governato con lo stile di un leader “mediorientale”, instaurando un regime dai forti tratti autoritari e vendicativo. Ma il suo non è un regime islamico e non potrebbe né eliminare l’opposizione né sciogliere il Partito Popolare Repubblicano, perché la Turchia è cambiata e non sarebbe disposta ad accettare un simile scenario».
Sul quotidiano libanese Asasmedia il professore di Relazioni internazionali Samir Salha analizza le conseguenze dell’arresto di İmamoğlu, mettendo in luce la contrapposizione tra le narrazioni delle due parti coinvolte: l’AKP insiste sul ruolo della magistratura, mentre i leader del CHP interpretano la vicenda come un attacco politico e mediatico, alimentando la teoria del complotto contro il partito. Secondo Salha, la polarizzazione tra le fazioni è destinata a intensificarsi. Il CHP sta esacerbando lo scontro promuovendo il boicottaggio di determinati marchi, beni e canali televisivi, facendo leva sui 15 milioni di voti raccolti da İmamoğlu nella corsa alla presidenza. Parallelamente, alcune aziende hanno intrapreso un’azione legale contro Özgür Özel, accusandolo di violare le disposizioni del Codice commerciale turco. La crescente tensione politica solleva interrogativi sulle future alleanze partitiche, in particolare sul Partito dell’Uguaglianza e della Democrazia dei Popoli, formazione filo-curda di sinistra, prosegue l’editoriale. Alleato del CHP nelle recenti elezioni, ma anche interlocutore dell’AKP sulla questione curda, il partito dovrà decidere da che parte schierarsi. Salha evidenzia anche le ricadute economiche della crisi: il mercato azionario ha subito un brusco calo, la Banca centrale turca è dovuta intervenire per frenare la svalutazione della lira, mentre molti investitori stranieri si stanno ritirando dai mercati finanziari turchi. Infine, l’editoriale si interroga sulla reazione dell’Europa e dell’America. Dopo mesi di riavvicinamento tra Ankara, Bruxelles e Washington, questa crisi rischia di compromettere nuovamente i rapporti internazionali della Turchia.