La travagliata costruzione della Repubblica di Turchia illumina molti aspetti della storia del Paese, dal complesso processo di nation building alla cultura politica della sua dirigenza politica, fino alla complicata definizione della sua identità nazionale
Ultimo aggiornamento: 30/10/2023 11:10:14
Durante la campagna elettorale in occasione delle recenti elezioni, il presidente Erdoğan ha ampiamente richiamato nei suoi discorsi il “secolo della Turchia” (Türkiye Yuzılı), utilizzando un’espressione efficace capace di evocare l’aprirsi di una nuova – e secondo i suoi promotori assai lunga – fase storica in cui il Paese anatolico aspira a giocare un ruolo da protagonista nel frastagliato scenario mondiale. Tale richiamo, però, implicitamente intende ricordare anche i cento anni trascorsi, un secolo appunto segnato da un complesso percorso che ha visto la nascita e poi lo sviluppo del Paese, fino alle profonde trasformazioni di questi ultimi vent’anni. Nella retorica del presidente turco, passato e futuro s’intrecciano continuamente e non è un mistero che Erdoğan abbia fatto di tutto per giungere ancora in carica all’appuntamento del centenario della Repubblica – che cadrà il 29 ottobre di quest’anno – così da presentarsi come il “nuovo Atatürk”, ovvero “padre dei turchi”. Se, infatti, Mustafa Kemal poté fregiarsi di tale appellativo per essere stato in qualche modo il “creatore” della Turchia, colui che permise ai turchi di avere un proprio Stato riconosciuto dalla comunità internazionale dopo la fine e la dissoluzione dell’Impero ottomano, Erdoğan ambisce a passare alla storia come colui che ha reso la Turchia uno dei Paesi più rilevanti nel contesto globale del XXI secolo. Se la Turchia di oggi appare maggiormente proiettata sul futuro – benché il passato resti oggi una grande risorsa di legittimazione nel discorso pubblico – il centenario della Repubblica di Turchia rappresenta un’occasione importante per riflettere sulle origini di questo Paese, “il più orientale dei Paesi europei e il più occidentale dei Paesi asiatici”.
Molte questioni e problemi ancora aperti nella società e nella politica della Turchia di oggi – dalla laicità al rapporto tra identità nazionale e pluralismo – sono da ricondurre al particolare contesto in cui prese forma il nuovo Stato turco, le cui radici affondano in quell’evento epocale che è stata la Prima guerra mondiale. Esiste, infatti, uno stretto rapporto tra la guerra e la nascita della Turchia, non fosse altro per il fatto che il conflitto, proprio per le sue dimensioni “globali”, coinvolse pienamente l’Impero ottomano, finendo per determinarne la definitiva dissoluzione dopo cinque secoli di esistenza e creando le premesse per una ridefinizione dell’intera regione mediorientale da cui sarebbe sorta nel 1923 anche la Turchia. Se nella prospettiva dell’Europa occidentale – dove la guerra terminò nel 1918 – i primi anni Venti costituiscono il “dopoguerra”, non così è stato per tutta la regione sud-orientale del continente, che ha visto prolungarsi il conflitto per alcuni anni ancora. Guardando le vicende di quel periodo da Istanbul – capitale del vasto Impero ottomano – la guerra cominciò nel 1912 con lo scoppio della prima guerra balcanica e si concluse solo nel 1922 con la presa di Smirne da parte dei nazionalisti guidati da Mustafa Kemal. Si tratta di una situazione di conflitto che si protrasse per circa dieci anni, più del doppio che nel resto dell’Europa occidentale, lasciando dietro di sé uno strascico di conseguenze profonde destinate a far sentire il loro effetto sul lungo periodo[1].
Conflitti “demografici” e perdite territoriali
La storiografia più recente, oltre a sottolineare il ruolo non secondario dei fronti ottomani, ha evidenziato le caratteristiche peculiari che assunse la guerra nello scenario orientale, in particolare il carattere “demografico” dello scontro finalizzato a creare – dai Balcani all’Anatolia – spazi territoriali il più possibile omogenei dal punto di vista etnico , attraverso forme inedite di “violenza categoriale di massa” tesa a ridurre drasticamente, se non ad eliminare del tutto, lo stratificato pluralismo etnico, linguistico e religioso che aveva caratterizzato il mondo ottomano. La guerra, in questo senso, è stato il punto di convergenza, ma anche di accelerazione e di esasperazione, di dinamiche diverse già in atto: da una parte, la sempre più profonda crisi della coabitazione islamo-cristiana, che costituiva uno dei pilastri su cui poggiava la costruzione imperiale ottomana, dall’altra, le crescenti pressioni esercitate dalle potenze europee su uno spazio geopolitico cruciale per le dinamiche politiche internazionali. Il cortocircuito che portò a considerare le comunità cristiane come “quinte colonne” dell’imperialismo occidentale alimentò l’ossessione della dirigenza ottomana per il nemico interno associato a quello esterno, innescando una spirale di violenze destinata a interrompersi solo nel 1923. I massacri su ampia scala che colpirono le comunità cristiane anatoliche (greci, armeni, siriaci e assiri) tra il 1914 e il 1916 cancellarono pressoché totalmente queste minoranze dall’Anatolia, ma alterarono al tempo stesso gli assetti economici, sociali, demografici della regione, generando squilibri che si riverberarono sulla maggioranza della popolazione musulmana nei decenni successivi. La guerra offrì l’occasione ai Giovani Turchi, un movimento politico salito alla ribalta nel 1908 e dal 1913 saldamente al governo, di portare a compimento la loro “vera” rivoluzione, quella che modificò drasticamente e irreversibilmente la composizione della popolazione anatolica. La cancellazione di buona parte dei cristiani fu al centro di questa “rivoluzione”, che risultò essere al tempo stesso sociale e “nazionale” poiché cancellò buona parte dei ceti urbani cristiani più dinamici – tra i principali fautori della modernizzazione ottomana – con il fine di realizzare una società più coesa e omogenea, secondo una logica che s’ispirava ai moderni modelli “nazionali”[2].
Le sorti della guerra andarono a sfavore dell’Impero ottomano, che uscì sconfitto nel 1918, benché il nucleo centrale dello Stato, con le sue istituzioni e i suoi apparati amministrativi, fosse rimasto ancora in piedi. A metterne in discussione la sopravvivenza fu, però, la pace voluta dai vincitori (Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti ed Italia), i quali nel 1920 – con il trattato di Sèvres – imposero condizioni estremamente gravose agli ottomani, con forti amputazioni territoriali sia nelle province arabe, affidate attraverso dei “mandati” a Francia e Inghilterra, sia in Anatolia. Dal punto di vista territoriale, la guerra segnò il punto di arrivo di un lungo processo, cominciato un paio di secoli prima, durante il quale l’Impero ottomano aveva perso progressivamente, a partire dai Balcani, buona parte dei territori soggetti con le loro popolazioni. Dal duro sforzo di conservare e difendere quanto restava dell’Impero nacque nel 1923 la Repubblica di Turchia. Si è trattata di una difficile costruzione – per così dire “in negativo” – dello Stato turco, frutto di un’azione tesa non tanto ad aggregare territori diversi quanto a difendere dalla definitiva spartizione ciò che restava di un più vasto territorio. Questo travagliato percorso illumina molti aspetti della storia della Turchia, dal complesso processo di nation building alla cultura politica della dirigenza politica repubblicana, fino alla complicata definizione della sua identità nazionale.
Crisi imperiale e resistenza “nazionale”
Entrato in guerra sul finire del 1914, a fianco degli Imperi centrali, l’Impero ottomano poté contare soprattutto sul sostegno militare dato dal governo tedesco, che fornì armi, mezzi ma anche alti ufficiali che collaborarono con gli omologhi ottomani all’interno dello Stato maggiore dell’esercito. La mobilitazione ottomana fu imponente e, nonostante molti limiti, l’apparato militare ottomano si dimostrò molto più efficiente e preparato di quanto non si pensasse in Europa. La modernizzazione dell’esercito aveva compiuto passi importanti negli ultimi decenni del XIX secolo, grazie anche a istruttori tedeschi, e una schiera di giovani ufficiali istruiti nelle nuove scuole militari si rese protagonista durante il conflitto. Tra questi si distinse per carattere, capacità e preparazione Mustafa Kemal. Nato in una famiglia musulmana di Salonicco, Mustafa Kemal aveva studiato in moderne scuole, aprendosi alla cultura europea. Membro dei Giovani Turchi sin dalla prima ora, non apparteneva, però, alla stretta cerchia dei dirigenti del movimento. Attento studioso del fattore umano in battaglia – su cui scrisse alcuni saggi – Kemal univa a profonde conoscenze strategiche un particolare interesse per i risvolti psicologici e morali della guerra, dimostrandosi un valido “motivatore” dei soldati oltre che un ufficiale attento alle buone condizioni degli uomini sotto il proprio comando. Tali qualità emersero nella lunga battaglia dei Dardanelli, tra il 1915 e il 1916, nella quale gli ottomani riuscirono a impedire che le forze dell’Intesa forzassero gli Stretti giungendo a Costantinopoli. Il successo mise in mostra Kemal, che nel corso del conflitto svolse diversi compiti su vari fronti[3]. Nel frattempo, l’Impero ottomano aveva vissuto alterne vicende: sul fronte del Caucaso aveva subito la forte avanzata della Russia, evento che creò le premesse alla deportazione e allo sterminio della popolazione armena, accusata di fiancheggiare la penetrazione russa in Anatolia. Sui fronti della Mesopotamia e del Sinai gli ottomani tennero efficacemente testa agli inglesi, mentre l’uscita di scena dell’Impero zarista nel ’17 a seguito della rivoluzione d’ottobre sembrò creare condizioni più favorevoli agli ottomani, fino a quando il logoramento generale dell’Impero, la fame e le epidemie nonché il venir meno degli approvvigionamenti da parte degli alleati fecero volgere le sorti del conflitto a suo sfavore, costringendo il governo ottomano all’armistizio nell’ottobre del 1918.
I Paesi vincitori s’insediarono a Costantinopoli, mentre nel corso del 1919 italiani e greci procedettero all’occupazione di porzioni dell’Asia Minore. Analogamente Francia e Inghilterra definirono i piani per la spartizione delle province arabe, ipotizzando anche la nascita di uno Stato armeno nell’Anatolia orientale, così da ripagare la popolazione cristiana delle terribili violenze subite durante la guerra. In questo contesto, mentre i dirigenti giovani turchi che avevano guidato l’Impero in guerra erano fuggiti in esilio e il nuovo governo ottomano risultava fragile e privo di grande autorevolezza, prese forma un movimento teso a difendere il territorio anatolico da ingerenze e spartizioni da parte di potenze straniere. Tra gli ufficiali di alto grado dell’esercito – in parte ancora attivo specialmente nell’Anatolia orientale con alcune armate – si fece strada la volontà di agire per contrastare i disegni dei vincitori e provare a salvare l’Impero, o quanto meno il suo nucleo portante costituito dalla Tracia europea e dall’Anatolia. Tra i più attivi vi fu Mustafa Kemal, che fece di tutto per essere inviato nelle province orientali a sovraintendere alla smobilitazione delle truppe. In realtà, fu il pretesto per poter organizzare la resistenza. Fondamentale era creare il consenso anche tra la popolazione affinché questa sostenesse quella che si prospettava come una “guerra di liberazione”. Gli apparati amministrativi collaborarono insieme a quelli militari. Stampa e telegrafo furono messi a servizio della propaganda per la “difesa dei diritti nazionali”. A partire dal porto di Samsun e poi nei congressi di Erzerum e Sivas, si posero le basi del movimento all’interno del quale emerse sempre più la leadership di Mustafa Kemal, convinto che la riuscita dell’operazione dipendesse molto da un forte coinvolgimento della popolazione il più possibile dal basso. Questo afflato popolare e patriottico costituì la base dello spirito “repubblicano” turco.
Nei primi mesi del 1920, mentre a Parigi si definivano gli accordi di pace, il movimento nazionale precisò i propri obiettivi con il “Patto Nazionale” (Misak-ı Milli), un documento che rivendicava la piena sovranità politica ed economica dell’Impero, nonché l’indivisibilità dei territori compresi entro la linea dell’armistizio, abitati dalla “maggioranza ottomana musulmana”. Le clausole del trattato di Sèvres, firmato in agosto, ridefinirono completamente gli assetti del Medio Oriente, sancendo di fatto la fine dell’Impero ottomano, che sopravvisse solo nominalmente.
In quel periodo, da una parte i greci ampliarono la loro area di occupazione a tutta l’Asia Minore nord-occidentale e alla Tracia, ben al di là dei limiti stabiliti dagli accordi; dall’altra, la resistenza ottomana procedette a rafforzare il proprio controllo sulla Cilicia, con le città di Urfa, Maraş e Antep, e sulle province orientali di Kars, Ardahan e Batum. Agli inizi del 1921 un’importante svolta venne dal trattato di amicizia ottomano-sovietico con il quale i bolscevichi assicurarono sostegno finanziario a Mustafa Kemal. I risultati raggiunti sul campo dalla resistenza rendevano sempre più precario il quadro fissato a Sèvres. Per cercare di affrontare la situazione, le potenze dell’Intesa convocarono, nel febbraio del 1921 una conferenza a Londra che vide, per la prima volta, la delegazione ottomana guidata da esponenti del movimento nazionale. In settembre, nei pressi di Ankara, sulle rive del fiume Sakarya si svolse la battaglia decisiva in cui le truppe ottomane sconfissero i greci, costringendoli a ritirarsi. Il fronte rimase, però, fermo per circa un anno a causa dell’impossibilità dell’esercito nazionale ottomano di attuare da subito una controffensiva. Fu solo nell’agosto del 1922 che la resistenza riprese l’iniziativa in direzione di Smirne: il grande porto, capoluogo dell’Asia minore sotto controllo greco capitolò, subendo saccheggi e un violento incendio che ne distrusse buona parte dei quartieri cristiani, mentre la popolazione greca si diede alla fuga via mare insieme a ciò che restava dell’esercito ellenico.
L’affermazione del movimento nazionale di Mustafa Kemal fu riconosciuta a livello internazionale con il trattato di Losanna del 1923: sulle ceneri dell’Impero ottomano era nata la Repubblica di Turchia, che si concepì da subito in forte rottura con il passato imperiale ottomano: la Turchia si presentava, infatti, come uno Stato repubblicano, nazionale e laico, orientato verso i modelli della modernità europea. La capitale fu spostata ad Ankara e nel 1924 fu abolito il califfato. Tuttavia, benché il kemalismo abbia impresso un carattere rivoluzionario a tali cambiamenti, sono molti gli elementi di continuità con l’esperienza imperiale, a cominciare dal perdurante pluralismo etnico-religioso della società, così come il forte carattere musulmano della popolazione nonostante le politiche di laicizzazione volute dal governo. Si tratta di alcuni aspetti di un’eredità storica che continuano ad essere presenti nelle pieghe di un Paese che ha conosciuto nell’ultimo secolo grandi e profonde trasformazioni.
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