Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 30/08/2024 15:10:21

Per “vendicare” l’uccisione del proprio dirigente Fuad Shukr, il 25 agosto il movimento libanese sciita Hezbollah ha lanciato centinaia di razzi e droni contro lo Stato ebraico. Analizzando l’operazione, la stampa araba si divide, come di consueto, tra chi condanna la rappresaglia e chi, invece, la difende e la giustifica.

 

Toni di scherno e di aperta derisione caratterizzano gli articoli provenienti dalle testate (filo)emiratine. Al-Ayn al-Ikhbariyya non prende affatto sul serio l’attacco e titola con irriverenza: “Quando le milizie diventano una barzelletta!”. I miliziani di Hezbollah, infatti, «stanno tentando di convincere arabi e non arabi che la loro risposta è stata una vera reazione», quando, in realtà, la «natura farsesca di questo attacco e i suoi risultati nulli», suscitando il riso di osservatori e analisti. Se proprio si vuole fare la conta dei danni, osserva divertita la testata, chi “ci ha rimesso le penne” in Israele sono stati soltanto alcuni «pollai». Il fiasco dell’attacco missilistico stride con i minacciosi proclami del leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, che «gioisce di continuo affermando che i suoi membri sono in possesso di centomila missili che sarebbero in grado di cancellare Israele». Tuttavia, «non appena si è abbassata la polvere degli scontri tra Israele e Hezbollah, tutti si sono accorti che Nasrallah si è attenuto alle regole del gioco, addirittura annunciando prima di altri la sua ferma decisione di non aprire un vero fronte di guerra che avrebbe portato all’escalation». Sul quotidiano panarabo al-Arab di orientamento filo-emiratino, il giornalista iracheno Farouq Youssef si concentra proprio sulla figura di Nasrallah, definito con disprezzo «un uomo disoccupato che domina il Libano». Nel pezzo si fa notare come il capo del movimento sia privo di un curriculum professionale tale da giustificare la sua posizione di preminenza nel Paese. Se accostato alle grandi figure del Novecento, il paragone è impietoso: «Yasser Arafat era ingegnere di professione, Ho Chi Minh aveva svolto diversi lavori, mentre Gandhi e Nelson Mandela erano avvocati». Pertanto, prosegue Youssef, «la domanda scomoda e ignorata è: ma che cosa faceva Hassan Nasrallah prima di diventare il Signore della Resistenza?». I suoi studi in scienze religiose non sono sufficienti a giustificare la sua leadership, anche perché Nasrallah dipende a livello politico e ideologico dalla Repubblica Islamica iraniana: «in realtà la Resistenza è un’arma di fabbricazione iraniana, è completamente slegata da quello che pensano i libanesi e non ha nulla a che vedere con le loro disgrazie […]. Nasrallah combatte per conto dell’Iran con un esercito di libanesi destinati a diventare sciiti. E il Libano paga il prezzo di questa logica. Un disoccupato controlla il Libano ed è capace di farlo coinvolgere in una guerra non appena glielo ordinano i suoi padroni». Sempre su al-‘Arab, il giornalista libanese Khayrallah Khayrallah rincara la dose: «come può un Paese senza elettricità distruggere completamente Israele e quindi liberare la Palestina? Non esiste una risposta logica a questa domanda, se si esclude il fatto che il Libano è entrato in una guerra» per dimostrare di essere in grado di tenere testa a Israele. «Tutto ciò che questi funzionari cercano di fare è soddisfare Hezbollah, che ogni giorno conferma di essere la vera forza che governa il Libano, in virtù del suo essere brigata delle Guardie Rivoluzionarie iraniane». La critica di Khayarallah non si limita ai membri del “Partito di Dio”, ma include l’intera classe politica libanese, talmente incapace e indolente da piegarsi sommessamente ai desiderata di Teheran: «il Libano soffre, più di qualsiasi altro momento della sua storia recente, di un vuoto politico […]. Non vi è traccia di una forza libanese che sia in grado di contribuire alla determinazione del futuro del Paese, considerato il tremendo eclissamento dei sunniti e la caduta dei cristiani […]. A ciò occorre aggiungere il disimpegno arabo e internazionale, che riflette la convinzione dei Paesi arabi influenti che il Libano sia caduto militarmente e politicamente nell’orbita iraniana». Il declino del Paese viene descritto con echi letterari da Antoine Douaihy, romanziere e poeta libanese che sul quotidiano panarabo di proprietà saudita al-Sharq al-Awsat scrive: «la prima volta in cui comparve la forma plurale della parola Libano fu in un verso del grande poeta francese Arthur Rimbaud (“o Libani del sogno!”) comparso nella sua opera “Illuminazioni” del 1886». Rimbaud, però, alludeva alla pluralità culturale e storica che caratterizza il Paese, non alle differenze di matrice confessionale che ora lo dividono e lo frammentano: «fa davvero impressione che molti libanesi oggi, nel mezzo di una tale penuria intellettuale ed emotiva, immaginano il loro Paese unito e così lo definiscono, mentre esso è diviso». Douaihy ricorda come il “Paese dei Cedri” si sia fatto carico di un fardello, quello della liberazione della Palestina, troppo grande per le sue ridotte dimensioni: «così come c’è una “questione palestinese”, così c’è anche una “questione libanese”. E il Libano, nel corso del tempo, per la Palestina ha pagato un prezzo alto come nessun altro Paese».

 

Di diverso avviso il giornale di proprietà qatariota al-Quds, che se la prende proprio con quella stampa araba che sta ridicolizzando la rappresaglia di Hezbollah: «nel momento in cui gli Stati occidentali cercavano attraverso dei mediatori di convincere il “Partito di Dio” a non rispondere all’attacco israeliano, una certa macchina mediatica presente nel mondo arabo ha preso a sminuire questo movimento libanese, spiegando che l’Entità [Israele] ha ridotto al silenzio Hezbollah e che il Libano deve aspettarsi una situazione simile alla guerra genocidaria cui è sottoposta la striscia di Gaza se continuerà ad affrontare Israele». Per l’autore del pezzo, il giornalista marocchino Hussein Majdubi, «dopo la risposta di Hezbollah, l’Occidente, e naturalmente anche l’Entità, si sono accorti che un attacco iraniano è possibile, in qualunque momento e a sorpresa, per vendicare l’assassinio del capo di Hamas Ismail Haniyeh a Teheran. Ciò sta mettendo in grande agitazione l’Entità, così come le forze americane e occidentali». Sempre su al-Quds, il giornalista palestinese Muhammad ‘Ayesh attacca le menti di questa “macchina del fango” facendo un singolare paragone: «i detrattori di Hezbollah e dell’Iran utilizzano, nelle loro critiche, la “storia di Juha”», famosissimo personaggio del folklore arabo protagonista di racconti umoristici e di barzellette. La storia in questione è quella in cui Juha, che si trova in viaggio con il padre e un asino, viene criticato dalla folla sia quando è lui a cavalcare sia quando lascia il posto al genitore. Prendendo spunto da quest’aneddoto, il giornalista denuncia l’atteggiamento di questi acidi commentatori, che non perdono occasione di bacchettare Hezbollah in ogni caso: «questi detrattori utilizzano esattamente lo stesso approccio critico della folla di Juha: se Hezbollah rimane in silenzio, accontentandosi di dire “ci riserviamo il diritto di rispondere”, allora quelli si fanno beffe delle sue capacità e della sua forza. Se invece il movimento reagisce davvero con un’azione ben definita e studiata, allora quelli si fanno beffe dell’esito e delle dimensioni dell’attacco».

 

Passiamo infine agli editoriali di due quotidiani libanesi, molto diversi per contenuti e tono. Rassegnato un articolo di al-Nahar, il cui titolo ben sintetizza il limbo che avvolge l’intera regione levantina: «Iran e Israele: nessuna guerra, nessuna pace, nessuna fine». «Così facendo – si legge in conclusione – la regione tornerà a uno stato di attrito e di tensione, uno stato di non belligeranza e di non-pace. I contendenti si limiteranno a raggiungere obiettivi facili come genocidi, omicidi, schermaglie e operazioni chirurgiche. I leader mondiali, invece, si accontenteranno di gestire lo scontro, controllare le regole di ingaggio e ad assistere la spirale infernale e di sangue. E ciò durerà finché il sangue e gli incendi non raggiungeranno le loro porte di casa». Al-Akhbar, giornale legato a Hezbollah e all’Asse della Resistenza, si adopera per mettere in guardia il Paese dalla concreta minaccia rappresentata da Israele e dal sionismo: «la retorica anti-Resistenza in Libano e all’estero si fonda su tre assunti: che il nemico non abbia altre ambizioni all’infuori della Palestina; che un accomodamento politico della questione palestinese sia possibile all’interno di una soluzione a due Stati o altro; che il pericolo sionista che prende di mira uno Stato o una formazione nella regione non coinvolge necessariamente altri attori». E invece, secondo al-Akhbar, Israele ha dei veri e propri interessi geopolitici anche in Libano, in particolar modo la regione a sud del fiume Litani. 

 

The Goat Life, il film indiano che accende la rabbia araba [a cura di Chiara Pellegrino]

 

The Goat Life è il titolo di un film indiano e distribuito su Netflix. Narra la vicenda di un uomo del Kerala, Najeeb Mohammad, che cercando un lavoro segue una potenziale offerta in Arabia Saudita, ma si ritrova costretto a lavorare gratis come pastore di capre nel deserto. Ispirato a una storia vera accaduta negli anni ’90 e raccontata nel romanzo in lingua Malayalam Aadujeevitham, “The Goat Life” per l’appunto, dell’autore indiano Benyamin, il film è stato al centro di un grande dibattito tra gli arabi del Golfo, che ha finito per assumere una connotazione anche geopolitica.

 

I telespettatori si sono divisi tra chi ha colto l’occasione per denunciare le violazioni dei diritti umani di cui spesso sono vittime i lavoratori stranieri in Arabia Saudita e nel Golfo in generale, e chi invece ha urlato a un «complotto ordito dall’India» per mettere in cattiva luce Riad. Tentativo che sembra in parte riuscito, nota il giornalista giordano Sameh Mahariq su al-Quds al-Arabi: «L’Arabia Saudita non è riuscita a costruire una strategia per utilizzare a proprio vantaggio il film, nonostante il sistema della sponsorizzazione (kafāla), su cui si basano molti aspetti del film, sia da anni al centro di un processo di revisione completo in Arabia Saudita e in altri Paesi del Golfo». Il film, prosegue l’editorialista, affronta un aspetto della società saudita che lo Stato sta cercando di superare costruendo un approccio moderno, senza essere più costretto a portare il peso di un’eredità che risale a oltre trent’anni fa». Secondo Mahariq inoltre è paradossale che la produzione sia indiana: il film critica il trattamento ricevuto dai lavoratori stranieri in Arabia Saudita, ma al tempo stesso «ignora il soffocante sistema delle caste, che colloca molte persone nella categoria dei sub-umani».

 

Di segno opposto invece l’editoriale comparso sullo stesso quotidiano e firmato da Rashid Issa, che ha preso le difese del film affermando che il suo intento è stato travisato. Il dramma dell’indiano costretto a vivere in condizioni disumane nel deserto saudita vuole sollevare l’attenzione «su tutte le forme di schiavitù esistenti ancora oggi – dalla schiavitù vera e propria in Mauritania, alla servitù in Libano, al sistema di sponsorizzazione in essere in alcuni Paesi del Golfo, al maltrattamento in Libia e in Tunisia dei migranti irregolari che prendono la via dell’Europa, al traffico di esseri umani». La storia narrata nelle tre ore di film è dunque un pretesto per parlare di un problema più generale, prosegue l’articolo, a maggior ragione che la vicenda messa in scena è avvenuta trent’anni fa in un Paese profondamente diverso da quello odierno. Il fatto stesso che l’Arabia Saudita abbia intrapreso una lunga serie di riforme in questi ultimi anni è un’implicita ammissione «dell’inadeguatezza del sistema che era in vigore» fino a poco tempo fa.

 

La tesi del complotto su larga scala è stata alimentata anche dal sito d’informazione libanese Asas Media, vicino alle posizioni saudite. Il giornalista Mohamad Barakat parla di «un’aggressione tripartita britannica, francese e indiana» motivata dall’uscita in contemporanea di tre produzioni critiche verso l’Arabia Saudita: The Goat Life, The Kingdom: The World’s Most Powerful Prince (un documentario in due parti prodotto dalla BBC), e MBS, prince d’Arabie – documentario francese prodotto nel 2019 ma ridistribuito proprio in queste settimane. Lo scopo di questa grande operazione, scrive l’editorialista, è «distogliere l’attenzione da tutti i successi e gli sviluppi di cui il Regno è stato testimone negli ultimi anni – il divieto fatto ai religiosi di interferire negli affari dei cittadini, la concessione alle donne di molte libertà nel lavoro, nel movimento e nella socializzazione con l’altro sesso, prima impossibili e vietate, e l’apertura della società saudita alle arti e alla letteratura. L’obiettivo è distorcere l’immagine del Regno dipingendolo come un mero deserto […] pieno di rapitori e incivili delinquenti privi di pietà, che schiavizzano l’indiano, l’eroe del film». Il Regno è al centro di una «guerra politica e mediatica», prosegue l’editoriale, e sta pagando il prezzo di alcune sue scelte politiche, che l’hanno reso inviso all’Occidente. Tra queste, il miglioramento delle relazioni con la Russia e la Cina, la volontà di entrare nei BRICS, il rifiuto di seguire una politica dell’OPEC concepita in base a interessi non sauditi, ma soprattutto la posizione assunta da Riad nel conflitto israelo-palestinese a sostegno di una soluzione a due Stati.  

 

La stampa saudita ha pubblicato diversi articoli in difesa delle politiche del lavoro attuate dal Regno, un Paese che ospita 9 milioni di lavoratori stranieri, di cui 1,8 milioni sono indiani. L’Arabia Saudita, scrive su al-Watan Hadi Alyami, «è vittima di una feroce campagna condotta da ambienti dediti alla diffusione dell’odio, meglio rappresentata dalla promozione del degradante film indiano The Goat Life. Il film è estremamente debole e incoerente, e annoia gli spettatori per le ripetizioni e la mancanza di una trama convincente. Esso si concentra fondamentalmente sulla presentazione di una narrazione debole di come i diritti dei lavoratori vengano confiscati e questi ultimi ridotti in schiavitù. Il saudita in particolare, e l’arabo in generale, vengono descritti come persone avide e opportuniste, che pensano soltanto a realizzare i propri interessi». Anche assumendo che la storia sia vera, prosegue l’editoriale, la vicenda non può essere utilizzata per mettere alla gogna un intero Paese e colpevolizzare i 35 milioni di persone che lo abitano. Alyami solleva dubbi anche sui tempi di produzione del film: «Il momento dell’uscita di questo film è sospetto e l’enorme aura mediatica che ne ha accompagnato l’uscita solleva più di un interrogativo, perché in questo momento l’Arabia Saudita sta compiendo grandi passi nel suo governo e nel suo percorso istituzionale; a successo si aggiunge successo, a tutti i livelli, politico, economico e sociale».

 

Analogo il commento dell’accademico emiratino e consigliere per gli Affari religiosi Waseem Yousef, che sul suo account X (ex Twitter) scrive che non si possono giudicare un Paese e la sua leadership sulla base del comportamento di uno o comunque un numero ristretto di individui.

 

Il film è il «punto di vista dei rancorosi», scrive l’imprenditore saudita Abdullah Sadiq Dahlan su al-Madina, mettendo l’accento sull’impatto positivo delle rimesse dei lavori stranieri nei loro Paesi d’origine (124 miliari di Riyal solo nel 2023) e auspica che l’emittente saudita MBC risponda «con la produzione di una serie tv sulle storie di successo dei lavoratori stranieri nei Paesi del Golfo».

  

Akhbar al-Khalij ha definito il film indiano «irrealistico, non credibile e incompleto», prodotto da chi «si ostina a restare ancorato a una certa posizione nonostante le prove dimostrino il contrario». Una testardaggine che l’editoralista Mahmid al-Mahmid riassume citando il proverbio arabo che recita «è una capra, anche se vola».

 

Nella vicenda si è ritrovato coinvolto anche l’Oman. La figura del perfido sponsor che schiavizza il protagonista indiano è stata infatti interpretata dall’attore omanita Talib Al Balushi, ciò che ha suscitato una serie di illazioni sui social circa un complotto omanita ai danni del vicino saudita. La stampa locale ha perciò preso posizione denunciando i tentativi «di alcune persone di diffondere la divisione e l’odio tra gli stessi Paesi del Golfo». Sul quotidiano nazionale Oman, lo scrittore e ricercatore Bader Alabri si è schierato in difesa dell’arte e dell’artista nel senso più alto dei termini: «La decisione dell’attore di interpretare la parte dello sponsor riguarda soltanto lui, come ogni scrittore, giornalista, artista, giocatore o comune cittadino che abbia esercitato uno dei suoi talenti; la questione rimane personale e con essa l’Oman non ha nulla a che fare. D’altra parte, l’arte attraversa la geografia e i confini perché è umana in termini di originalità e tratta di questioni umane. Lo stesso dibattito critico non può essere confinato in un angolo ristretto, perché è legato all’esistenza e all’essere umano stesso, e criticare alcuni aspetti negativi non significa insultare la società nel suo complesso».

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