Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 17/05/2024 15:51:11

Un tempo considerato una delle poche democrazie del mondo arabo, il Kuwait sta vivendo una prolungata crisi istituzionale che contrappone i suoi governi, nominati dall’emiro, al parlamento, detto “Assemblea Nazionale”, eletto direttamente dalla popolazione. L’impasse, aggravatasi dopo le elezioni generali dello scorso aprile, ha convinto l’emiro Mish‘al, salito al trono lo scorso dicembre, ad assumere pieni poteri sciogliendo il parlamento e dichiarando nulli (per un periodo massimo di quattro anni, stando alle dichiarazioni ufficiali) alcuni articoli della Costituzione.

 

Emblematiche le parole del sovrano riportate a caratteri cubitali sul quotidiano kuwaitiano filogovernativo al-Anba’: «“non permetterò in alcun modo che la democrazia venga sfruttata per fare a pezzi lo Stato. Il Kuwait è al di sopra di tutti». «Il discorso di Sua Altezza – commenta un giornalista sullo stesso giornale – mette i puntini sulle “i” […]. Sciogliere il Parlamento e alcuni articoli della Costituzione era una decisione necessaria. È arrivata in un momento in cui il Paese ha bisogno di riconsiderare il percorso democratico che negli ultimi tempi lo ha esposto a pratiche dannose e negative. La decisione di Sua Altezza, col permesso di Dio, compirà il bene della Nazione».

 

Il giornale di proprietà qatariota al-‘Arabi al-Jadid non si sbilancia con i giudizi ed esprime preoccupazione tanto per lo stallo attuale quanto per l’incerto futuro del Paese: «la crisi, che negli ultimi tempi si è acuita, ha portato a una serie ininterrotta di agitazioni e impasse, che si sono abbattuti sul Kuwait in diversi ambiti. La gravità della crisi è dovuta all’aumento di prolungati scontri e divergenze tra i governi designati dall’emiro e i parlamenti eletti in maniera diretta [dalla popolazione]. Ciò ha gettato un’ombra sinistra sulla vita politica kuwaitiana, ha bloccato i tentativi di riforma economica, ha causato il fallimento dei progetti di sviluppo e ha contribuito al fallimento dei tentativi di diversificazione dell’economia nazionale, che dipende in maniera totale dai proventi petroliferi […]. La questione non si è limitata allo scioglimento dell’Assemblea Nazionale, ma si lega anche alla promulgazione di leggi che hanno reso nulli alcuni articoli costituzionali; ciò sta sollevando parecchie speculazioni in merito al futuro della cronica crisi politica del Paese. Forse la domanda da porsi è: cosa succederà dopo lo scioglimento del parlamento da parte dell’emiro?». È invece chiarissima l’opinione del quotidiano libanese al-Akhbar, molto vicino a Hezbollah e all’Asse della Resistenza: «al Golfo mancava solo l’adesione dell’emiro del Kuwait alla “casa dei re” per ottenere il marchio che certificasse il pieno soddisfacimento dei requisiti per entrare nel “club dei tiranni”». Per al-Akhbar, anche se «le decisioni dell’emiro sono di natura golpista» ci sono due macro-contesti da tenere in considerazione: il fenomeno globale della regressione delle democrazie e il passaggio, nei Paesi del Golfo, «dall’oligarchia all’autocrazia»: «il momento del Golfo – si legge in conclusione – è senza alcun dubbio un momento fallimentare: la battuta d’arresto della democrazia in Kuwait rappresenta l’interruzione della lotta dei kuwaitiani e degli altri popoli del Golfo per la democrazia, che è stata pagata a caro prezzo con la vita di decine di rivoluzionari per la libertà».

 

I media sauditi ed emiratini prendono invece le parti dell’emiro, vedendo nel suo colpo di mano la conferma della bontà delle scelte fatte in passato da Riyad e Abu Dhabi. Sul quotidiano panarabo di proprietà saudita al-Sharq al-Awsat, il giornalista saudita Mashary al-Dhayadi spiega la natura del “difetto” del testo costituzionale: «in sintesi, il problema riguarda il mancato aggiornamento ed emendamento della costituzione. È una cosa che in teoria andava fatta cinque anni dopo la sua entrata in vigore», all’inizio degli anni Sessanta. La costituzione «blocca la mano del governo e concede ai deputati ingiustificabili poteri “esecutivi”, come l’obbligatorietà che alcuni di loro siano ministri di ogni governo, in modo che quest’ultimo diventi legittimo». Così facendo, i deputati possono «imporre al governo condizioni e richieste ingiuste, oltre a ad altri comportamenti come quello di interferire, in conformità con la Costituzione, nelle competenze specifiche dell’emiro, inclusa la facoltà di nominare il principe ereditario. Sappiamo che ci sono dei gruppi politici che perseguono l’agenda della Fratellanza o di movimenti legati alla velayat-e faqih, oppure ci sono personalità che appartengono a poli, esterni e interni, che non hanno niente a che vedere con l’agenda di sviluppo e stabilità né con gli interessi nazionali. Gruppi del genere continueranno a bloccare questo nuovo percorso in diversi modi». Per contro, l’autore elogia la «determinazione dell’emiro Mish‘al» nel gestire la crisi e uscire dall’impasse per il bene della Nazione.

 

Ma’mun Fandi, ex professore di scienze politiche alla Georgetown University, scrive che l’azione e l’atteggiamento equilibrato dell’emiro erano necessari e servono a eliminare le storture del sistema politico kuwaitiano: «molti punti del suo appello, tra cui l’adesione alla democrazia e alla costituzione, intendono essere un discorso di apertura della prossima seduta del parlamento; in altri punti emerge però la severità del sovrano e il mantenimento delle sue prerogative sulle quali il parlamento potrebbe non essere d’accordo». I toni di Fandi sono tuttavia più equilibrati di quelli di al-Dhayadi: pur attribuendo alla Camera la responsabilità dell’attuale crisi politica, egli sottolinea le sfide e i problemi che il Kuwait si trova ora ad affrontare: «il potere esecutivo del Paese deve essere in grado di assumersi le responsabilità di adottare misure che aprano il Paese alla competizione con gli altri Paesi del Golfo, che hanno superato il Kuwait nello sviluppo sul piano economico e sociale. Negli anni Settanta del secolo scorso il Golfo guardava il Kuwait, senza alcun imbarazzo, come un esempio da seguire. Oggi il Kuwait deve guardare gli esempi di successo che lo circondano e imitarli mantenendo le sue specificità nazionali». 

 

Il tema degli “errori del passato” viene ripreso e sviluppato dal giornalista iracheno Haytham al-Zubaidi che descrive, in un significativo articolo apparso sul quotidiano filo-emiratino al-‘Arab, il (decennale) fallimento politico ed economico del Paese, causato a suo dire dalla decisione di aver dedicato in passato troppo tempo ed energie alla costruzione di un sistema democratico perdendo di vista la bussola dello sviluppo economico: «i kuwaitiani si guardano attorno e osservano una scomoda realtà per il loro Paese. Ogni kuwaitiano si chiederà: “ciò che abbiamo perso nello sviluppo lo abbiamo guadagnato nell’instaurare la democrazia?”. La risposta sarà: “non abbiamo realizzato lo sviluppo né creato una democrazia”. Il Kuwait è parte di una regione che si si sta muovendo ad alta velocità e che ha bruciato molte tappe in un profondo ed essenziale processo di cambiamento. Negli ultimi quattro decenni Stati con diverse capacità, sia per disponibilità di petrolio che di gas, hanno raggiunto standard di sviluppo elevati. Il kuwaitiano mette la situazione del suo Paese a confronto con quella degli Emirati, dell’Oman e soprattutto del Qatar; si accorgerà poi di che cosa la volontà e la determinazione politica sono state capaci di realizzare in Arabia Saudita nel breve termine. I giustificazionisti faranno ricorso a qualsiasi pretesto per far ritardare il Kuwait dal progredire. La crisi economica di “Souk Al-Manakh” degli anni Ottanta e l’invasione irachena all’inizio dei Novanta sono diventate ormai cose del passato e non possono più essere addotte come cause [del ritardo]. I Paesi del Golfo che guidano il processo dello sviluppo hanno raggiunto questi risultati attivandosi sin dall’inizio degli anni Novanta. Il Qatar, ad esempio, a metà anni Novanta si trovava sull’orlo della bancarotta finanziaria. Guardate invece dove è arrivato ora! Gli Emirati sono in una condizione straordinaria per quello che hanno ottenuto, ed è pertanto inutile prenderli come paragone. Che dire invece di un Paese di medie capacità come l’Oman? Mentre i parlamentari kuwaitiani discutono su un certo progetto, uno simile viene realizzato» negli altri Paesi della regione. Il giornalista si sofferma infine sulla causa principale che ha generato la crisi attuale, ossia il tentativo da parte del Paese, di diventare una democrazia: «l’agonia democratica è la cosa più severa e amara. L’oasi liberale kuwaitiana si è seccata; al posto di far fiorire la democrazia in un ipotetico clima liberale, le elezioni legislative si sono trasformate in una assegnazione di quote tribali e settarie: gli sciiti eleggono gli sciiti, i salafiti nominano i salafiti e la tribù dei Mutayr elegge un loro membro, anche se quest’ultima dicesse che il suo candidato rappresenta la Fratellanza Musulmana».

 

Essere o non essere: il dilemma del mondo arabo [a cura di Chiara Pellegrino]

 

Dall’inizio della settimana, sulla stampa araba c’è stata molta attesa per il vertice di Manama, capitale del Bahrein, che ieri ha riunito gli Stati della Lega Araba. Il tema è stato preponderante sul quotidiano di proprietà saudita al-Sharq al-Awsat. L’ex Segretario generale della Lega Araba Amr Moussa ha indirizzato virtualmente una lettera ai partecipanti, ricordando loro la responsabilità di cui sono investiti, oggi più di ieri, nel contesto disastroso in cui versa il mondo arabo contemporaneo, «con ciò che sta accadendo a Gaza e in Cisgiordania, il Sudan devastato, la Somalia dilaniata, il Libano ridotto all’impotenza, la Siria che piange sulle proprie rovine, la Libia “sospesa”, il Marocco e la Tunisia in preda ai disordini, la Mezzaluna fertile in balìa delle cospirazioni, il Golfo arabo alle prese con minacce che possono compromettere la stabilità dei suoi Paesi e persino la loro indipendenza». In ballo c’è l’esistenza del mondo arabo – «essere o non essere», commenta Moussa.

 

Il vertice si tiene in circostanze eccezionali, «in un piccolo Paese che ha saputo svolgere un ruolo efficace a livello arabo e internazionale», scrive sullo stesso quotidiano il giornalista libico Jebril El-Abidi, elogiando la capacità storica del piccolo Stato, con i suoi naviganti, viaggiatori e commercianti, di tessere rapporti con gli altri popoli. Il fatto di ospitare per la prima volta il vertice della Lega Araba contribuirà a rilanciare globalmente l’immagine del Bahrein e della sua famiglia regnante, commenta l’editorialista.   

 

Per alcuni giornalisti, il vertice è una buona occasione per gli Stati arabi riuniti per pensare a una strategia comune volta a risolvere il conflitto israelo-palestinese. Il «denominatore comune» di tutte le crisi che affliggono il Medio Oriente, dal Nord d’Africa al Levante, è la questione palestinese che, essendo rimasta irrisolta per troppi decenni, ha contribuito a rendere vulnerabile tutto il sistema arabo, scrive Amine Kammourieh sul sito d’informazione libanese Asas Media. Gli Stati arabi in questo hanno ciascuno la loro buona parte di colpe: hanno preso le distanze dalla Palestina con l’idea che fosse un problema dei soli palestinesi, per poi ritrovarsi, loro malgrado, a gestire l’emergenza profughi nei loro Paesi, «ciò che ha contribuito a far scoppiare la battaglia in Giordania e la guerra civile in Libano. Hanno rafforzato l’identità nazionale a spese dell’identità araba globale, e con il ripiegamento nazionale è andata rafforzandosi la tendenza verso definizioni sempre più ristrette, come la setta, la confessione (madhdhab), la tribù, il clan, per arrivare alla famiglia». Per molto tempo, le difficoltà della regione sono state considerate problemi dei diretti interessati e non di tutti gli arabi: il Golan è diventato un problema dei siriani, ciò che accade nel sud del Libano riguarda soltanto i libanesi e così via. Ma se gli arabi non intervengono, scrive Kammourieh, interverranno le potenze straniere: «Il vecchio-nuovo colonialismo non è scomparso, ma ha assunto forme nuove, a volte attraverso l’invasione diretta, a volte attraverso l’invasione culturale […]. Il ricorso al nazionalismo da parte di alcuni Paesi arabi non li ha difesi dalle interferenze, vecchie o nuove». La Palestina e gli arabi, conclude l’editorialista, «sono inscindibili» e «la Palestina non sarà libera finché gli arabi non saranno liberi».

 

Il tema dell’autoreferenzialità degli Stati arabi emerge anche nell’editoriale del ricercatore siriano Marwan Kabalan (direttore dell’Unità di analisi politica dell’Arab Center for Research and Policy Studies), pubblicato sul quotidiano londinese di proprietà qatariota al-‘Arabi al-Jadid: «Gli arabi hanno voltato le spalle alla Siria agonizzante». Paradossalmente, però, la guerra di Gaza potrebbe rappresentare un’opportunità per la Siria di rientrare pienamente nell’orbita araba. Il percorso era iniziato lo scorso anno con la riammissione di Damasco alla Lega Araba dopo dieci anni di assenza, ma poi è stato congelato per un concorso di colpe, scrive Kabalan: da un lato, l’inadempienza di Bashar al-Assad, che non si è davvero impegnato a rispettare gli accordi che prevedevano, per esempio, lo stop al contrabbando di droghe, un freno alla presenza iraniana sul territorio e l’avvio di una soluzione politica. Dall’altro lato, i Paesi arabi non hanno fornito a Damasco tutti gli aiuti economici promessi. Il conflitto israelo-palestinese ha però portato alla luce l’esistenza di «una crisi di fiducia tra Damasco e Teheran» che, unita alla relativa calma sul fronte con Israele, dovuta forse al risentimento che il regime prova verso Hamas per aver sostenuto i ribelli nella guerra civile del 2011, potrebbe facilitare la ripresa del percorso di riabilitazione di Assad all’interno del mondo arabo. Secondo Kabalan, la strada della riabilitazione passa per il vertice di Manama: «Solo gli arabi sono in una posizione che permette loro di sfruttare l’opportunità che i sacrifici di Gaza hanno dato alla Siria. È loro responsabilità, oltre che nel loro interesse, attivarsi immediatamente lanciando un percorso politico nuovo a guida araba per risolvere la questione siriana, prima che le circostanze cambino, le influenti potenze regionali e internazionali rifiatino e tornino alla carica per continuare a danneggiare la Siria». Complice anche la guerra a Gaza, gli arabi oggi hanno l’opportunità di salvare la Siria, ma non devono sprecarla perché il tempo stringe, come ricorda la vignetta pubblicata sempre su al-‘Arabi al-Jadid. Le due lancette dell’orologio formano il nome arabo della Siria (سوريا), mentre la lancetta dei minuti si avvicina sempre più all’ora della fine.

 

Su al-‘Quds al-‘Arabi, l’intellettuale e oppositore siriano Yassin al-Hajj Saleh fa una riflessione sulla tendenza, molto diffusa, a guardare il mondo a partire sempre e solo dalla propria causa. Questo accade anche tra gli intellettuali siriani, scrive. In linea di principio non ci sarebbe nulla di male nel partire dalla propria esperienza per giudicare quelle della regione. Se non fosse che questo «centralismo siriano» tende spesso a ridurre la causa «a una vendetta contro il regime, l’Iran e i suoi strumenti, sacrificando la dimensione intellettuale, valoriale e politica della questione, legata alla democrazia, all’uguaglianza, alle libertà pubbliche e individuali, alla giustizia sociale, oltre che all’indipendenza e all’unità del Paese come cornice per un patriottismo fondato sulla cittadinanza e i pari diritti». In generale, l’eccessivo centralismo genera rabbia, odio e vendetta, e trova terreno fertile «nelle strutture sociali subnazionali, come il clan, la confessione e la regione, senza mai sfociare in un patriottismo globale». Così, le grandi cause, quella siriana, ma anche quella palestinese, finiscono per perdere «la dimensione di valore generale» e venire sprecate. La stessa critica al-Hajj Saleh la rivolge anche ai palestinesi, che «fanno della causa particolare un criterio generale di giustizia». Tutti i centralismi, da quello europeo, a quello americano, a quello arabo-islamico devono essere «decostruiti», conclude l’editorialista, perché in essi «non c’è nulla che renda liberi».     

 

Ritornando al vertice, esso ha deluso le aspettative di una parte della stampa filo-islamista. Su al-‘Arabi al-Jadid il giornalista egiziano Wail Qandil ha scritto che «da un vertice tenutosi nel giorno dell’anniversario della Nakba ci si sarebbe aspettati che il discorso ufficiale arabo vertesse su un unico punto: organizzarsi e mobilitare le forze arabe contro l’occupante usurpatore e serrare i ranghi per sostenere il fratello in tutte le forme e i modi». Ma la dichiarazione finale va nel senso opposto, nella misura in cui chiede un cessate il fuoco immediato e permanente, la fine dell’aggressione nella Striscia di Gaza e il rilascio degli ostaggi, rinnovando al contempo il rifiuto di qualsiasi sostegno ai gruppi armati e alle milizie. Qandil è inoltre indispettito dall’atteggiamento dell’autorità di Ramallah, che ha abbracciato la posizione ufficiale araba secondo la quale «le fazioni della resistenza a Gaza sono esterne al consenso nazionale e non rappresentano il popolo palestinese».

 

Gli otto mesi di guerra israelo-palestinese hanno messo in luce un cambiamento profondo nelle dinamiche dei rapporti tra lo Stato ebraico e l’America, scrive il giornalista libanese Khairallah Khairallah su al-Arab. Israele «non è più l’Israele che conoscevamo, che dal 1948 in poi ha vinto tutte le guerre». Bibi ha scommesso sulla debolezza di Hamas e dell’Autorità nazionale, e sul fatto che l’Iran non avrebbe mai attaccato direttamente il suo Paese, ma ha perso la scommessa, commenta l’editorialista. Oggi Tel Aviv «non ha altra scelta se non riconoscere che non può ribellarsi per sempre agli Stati Uniti. […] Israele, sostenuto dall’America e dall’Europa, non perderà la guerra con Hamas ma non la vincerà neppure». Il conflitto, scrive l’editorialista, ha portato alla luce un Paese vulnerabile, «a cui non resta che ammettere di aver fallito e che non esiste altro mantello che lo protegga al di fuori di quello americano».

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