Sopravvissuto alle Primavere Arabe, il regime di Damasco è stato riammesso nella Lega Araba. Tuttavia, la “normalizzazione” non risolve la disastrosa situazione interna del Paese e nasconde molteplici interessi geopolitici da parte di vecchi e nuovi alleati di Assad
Ultimo aggiornamento: 15/03/2024 12:01:30
Era il 17 novembre 2011 quando la Lega Araba sospendeva la Siria come Stato membro. Troppo gravi e numerosi gli episodi di violenza nel Paese, troppo compromessa la figura del presidente della repubblica Bashar al-Assad, intento a reprimere con l’esercito e gli apparati segreti le pacifiche manifestazioni popolari. Sorte nel marzo 2011 sull’onda delle Primavere Arabe nordafricane, esse chiedevano il rispetto dei diritti umani e la democratizzazione della scena politica del Paese, dominata da decenni dalla dinastia degli Assad e dal partito-Stato, il Ba‘th, formazione panaraba e socialista più di nome che di fatto. La decisione della Lega fu un atto forte ma inevitabile, che isolò definitivamente il regime dallo scenario regionale e internazionale. All’inizio degli scontri molte cancellerie, sia in Occidente che in Medio Oriente, ritenevano improbabile la sua sopravvivenza, al punto che Obama ed Erdoğan dichiararono addirittura che il ra’īs “aveva i giorni contati”. Inoltre, gli storici alleati di Damasco (le milizie del movimento libanese Hezbollah, l’Iran e la Russia, quest’ultima fino al 2015 coinvolta solo in maniera indiretta nel conflitto) non sembravano in grado di invertire i rapporti di forza tra le truppe governative e i gruppi dell’opposizione.
Nonostante queste premesse, dopo dodici anni di guerra civile il governo siriano non solo è sopravvissuto, ma ha anche riconquistato gran parte dei territori perduti e ripristinato le relazioni con diversi Stati arabi, dalla Giordania all’Arabia Saudita. Quest’ultima è la principale artefice del processo di reintegro della Siria nella Lega Araba, iniziato ufficialmente il 7 maggio 2023 al vertice del Cairo, quando è stata emanata la comunicazione ufficiale di riammissione, e conclusosi la settimana successiva, con la partecipazione di Assad al vertice di Gedda. Per comprendere la portata del ribaltamento della situazione siriana rispetto al 2011, che solo a prima vista appare sorprendente, occorre contestualizzarla nella particolare congiuntura geopolitica venutasi a creare negli ultimi anni dall’interazione tra le dinamiche del contesto locale e quelle del più ampio scenario regionale.
La storia del conflitto può essere divisa in due fasi. La prima si era distinta per l’escalation di violenza che portò al collasso delle istituzioni statali e all’ascesa di attori non statuali. Il regime adottò una strategia di sopravvivenza rinunciando al controllo delle province orientali per concentrarsi sulla difesa dei grandi centri abitati dell’Ovest, come Aleppo, Laodicea, Homs, Hama e, naturalmente, Damasco. L’avanzata delle opposizioni non innescò tuttavia l’atteso processo di democratizzazione: i gruppi moderati, deboli e fra loro divisi, vennero rapidamente fagocitati dai movimenti salafiti jihadisti – come lo Stato Islamico (ISIS) e al-Nusra, poi ridenominata Tahrir al-Sham – molto più organizzati e militarmente preparati. Il terrorismo di matrice salafita-jihadista giocò a favore del presidente siriano che poté così presentarsi di fronte alla popolazione e alla comunità internazionale come il “minore dei mali” nonché come l’unico protettore delle minoranze religiose sciite (in quanto egli stesso appartenente al gruppo alawita) e cristiane che vivevano sotto la costante minaccia degli attacchi dell’ISIS. Ciò aprì una nuova fase del conflitto, caratterizzata dall’intervento diretto della Russia, che dal settembre 2015 schierò il suo esercito al fianco di quello di Assad. Si trattò di un vero e proprio punto di svolta: a partire da quel momento il governo riuscì a riconquistare gran parte delle regioni perdute a scapito delle tante formazioni jihadiste, tra le quali lo Stato Islamico e al-Nusra (diventata nel 2017 Tahrir al-Sham dopo aver assunto altre denominazioni nei due anni precedenti), minacciati anche dall’intervento della Turchia (in funzione anti-curda) nel nord del Paese. Anche se la Siria era ormai considerata uno Stato fallito, dopo il 2015 la figura di Assad non fu più messa in discussione.
In parallelo all’evoluzione dello scenario siriano, in Medio Oriente si stava intensificando la polarizzazione geopolitica tra due grandi sfere di influenza: la prima era quella della cosiddetta “Mezzaluna sciita” pro-Assad che dalla Repubblica islamica iraniana si estendeva su Iraq, Siria e Libano. La seconda comprendeva il “campo largo” degli Stati arabi sunniti ostile a Damasco, a sua volta suddiviso in due sottogruppi: da una parte Arabia Saudita ed Emirati, dall’altra gli esponenti dell’Islam politico, Qatar e Turchia, vicini alle posizioni della Fratellanza Musulmana.
A livello internazionale, il percorso diplomatico avviato dalle Nazioni Unite con i tavoli di Ginevra si arenò lasciando spazio, a partire dal 2016, ai colloqui di Astana organizzati dalle potenze regionali direttamente coinvolte nel conflitto: la Russia di Vladimir Putin, l’Iran di Hasan Rohani, la Turchia di Recep Tayyip Erdoğan. Più che un tentativo di raggiungere la pace, Astana portò alla spartizione definitiva della Siria nelle rispettive sfere di influenza dei Paesi sponsor, creando in questo modo uno “status quo” informale che fece entrare il conflitto in una fase di quiescenza. In effetti le forze salafite, pur indebolite, mantennero il controllo di Idlib, mentre le sigle curde stanziate nel Rojava mantennero un’indipendenza de facto da Damasco.
L’Occidente risultò invece il grande assente: gli Stati Uniti rimasero sempre ostili al governo di Damasco, ma il principio della “linea rossa” espresso da Obama (intervento armato in caso di uso di armi chimiche) non venne applicato, rendendo Washington un attore poco coinvolto, se si esclude il timido sostegno offerto ai movimenti curdi. Anche l’Unione Europea, allineata sulla posizione americana, faticò a elaborare una linea d’azione condivisa da tutti i suoi Stati membri. Durante la seconda fase del conflitto, infatti, alcune cancellerie del Vecchio Continente ripristinarono i canali diplomatici con Damasco – si veda la riapertura delle ambasciate da parte di Grecia, Cipro, Repubblica Ceca e Ungheria – mentre gruppi di pressione e delegazioni di partiti si recarono periodicamente nel Paese levantino al fine di discutere possibili cooperazioni e investimenti.
A partire dal 2018, il conflitto entrò in una “terza fase”. In Medio Oriente, la linea di faglia tra Mezzaluna sciita e Riyad-Abu Dhabi cominciò a ridursi quando fu ormai chiaro che le opposizioni moderate e pro-democratiche siriane avevano fallito e che, in generale, l’ondata “rivoluzionaria” delle Primavere Arabe in Egitto, Libia (e in seguito anche in Tunisia) si era arrestata. La priorità era diventata semmai un’altra: ripristinare le istituzioni, fortemente indebolite se non proprio distrutte dall’ascesa di attori ibridi, con l’obiettivo di porre freno alla spirale di violenza e caos in Siria, i cui effetti (dai flussi migratori incontrollati alla proliferazione dei mercati illegali di armi, carburante e droghe) si ripercuotevano sull’intero Levante e sul Golfo. Pertanto, alcuni Paesi arabi cambiarono gradualmente le loro posizioni: gli Emirati Arabi furono tra i primi ad attivarsi e nel 2018 ripresero i contatti con il regime. Il rapprochement si concluse nel marzo 2022 con la visita ufficiale ad Abu Dhabi di Assad – la prima del ra’īs in un paese arabo dal 2011 – che incontrò il presidente Mohammed bin Zayed al-Nahyan. Determinante anche il ruolo dell’Algeria di Abdelmajid Tebboune, che – forte del suo riposizionamento geopolitico dopo l’invasione russa dell’Ucraina – cercò di reintegrare la Siria nella Lega già in occasione del vertice di Algeri nel novembre 2022.
Dopo il devastante terremoto in Turchia e Siria del febbraio 2023, il processo di normalizzazione ha subito una vistosa accelerazione: nelle settimane successive al sisma Damasco ha ripristinato le sue relazioni con l’Oman, con la Tunisia e infine con l’Arabia Saudita, decisiva per la riammissione al vertice di Gedda. Il fronte anti-Assad si è di fatto ridotto al gruppo dell’Islam politico, Turchia e Qatar, e a pochi altri Stati, come Marocco e Kuwait, la cui influenza all’interno del consesso arabo è però limitata. Doha, attraverso i suoi consistenti canali di comunicazione, prosegue ormai in solitaria la campagna di denuncia nei confronti della “normalizzazione”: ogni settimana al-Quds al-‘Arabi e al-‘Arabi al-Jadid, due autorevoli quotidiani panarabi finanziati dal Qatar, pubblicano articoli e vignette che ricordano i numerosi crimini di guerra di cui Assad si è macchiato, puntando il dito contro gli Stati sponsor del regime e contro l’Occidente, accusato di essersi disinteressato della causa siriana.
D’altro canto, è significativo sottolineare come Assad e i suoi alleati inquadrino le loro azioni all’interno di una precisa cornice ideologico-geopolitica. Per il regime siriano la difesa delle minoranze, e in particolar modo dei cristiani orientali, è diventata lo strumento di legittimazione contro il jihadismo, ma serve anche a sottolineare un legame storico e culturale con la Mosca ortodossa, dando sostanza all’alleanza politica. L’Algeria e lo stesso partito Ba‘th hanno operato una sintesi tra l’obsoleta ideologia panaraba novecentesca e le attuali dinamiche: l’unità del mondo arabo si è trasformata in unità della nazione e integrità dello Stato, mentre la difesa della causa palestinese sottolinea la totale contrapposizione di Algeri e Damasco allo Stato ebraico. L’Iran ha coniato l’espressione “asse della resistenza” ponendosi da una parte in antitesi alle “forze dell’imperialismo (l’Occidente) e del sionismo (Israele)” e proseguendo dall’altra il progetto della “Mezzaluna sciita”. Infine la Russia, in continuità con il passato sovietico, ambisce a creare un blocco geoeconomico antioccidentale composto in gran parte da ex Paesi socialisti del Sud globale. L’Arabia Saudita e gli Emirati non hanno questa lettura ideologica: la riabilitazione di Assad dà certamente un senso di unità, più percepito che reale, del mondo arabo in funzione anti-iraniana, ma è soprattutto un successo dei loro leader – Mohammed bin Salman e Mohamed bin Zayed – frutto di una accurata strategia che risponde in primo luogo a interessi e necessità nazionali, con l’obiettivo ultimo di rendere il Golfo un nuovo polo geopolitico autonomo sia da Stati Uniti che da Cina, fondato sullo sviluppo tecnologico-energetico, sull’utilizzo del soft power nelle arti e nello sport, e sul ripristino della stabilità regionale.
La normalizzazione va pertanto considerata come il primo passo del “nuovo” ordine regionale improntato alla “stabilità autoritaria” antitetico a quello delle Primavere Arabe che promuoveva invece la democrazia, termine che gran parte della stampa e della politica araba associa ormai a caos e disordine socioeconomico. A questo proposito, una giornalista e dissidente siriana si è chiesta, con spiccato senso di ironia, se non fosse stata la Lega Araba a “tornare” alla Siria piuttosto che il contrario. Dopotutto, anche nei giorni precedenti al vertice di Algeri del 2022 la proposta di riammettere il Paese levantino fu portata avanti più dal presidente Tebboune che dallo stesso Assad, il quale era consapevole che un’azione così forte avrebbe riacceso indesiderati riflettori mediatici sulla sua figura.
In conclusione, il ritorno di Damasco nella Lega Araba costituisce una sorta di Gattopardo al rovescio: “non cambiare niente per cambiare tutto”. È vero che la dinastia degli Assad e il fatiscente partito Ba‘th hanno conservato la loro posizione apicale, ma la realtà dentro e fuori il Paese è profondamente mutata negli ultimi dodici anni. Negli affari interni, lo Stato fatica a esercitare le sue funzioni al di fuori dei grandi centri urbani, l’economia nazionale è in rovina, la ricostruzione del Paese è lenta e soggetta agli interessi degli Stati sponsor. La situazione nello scenario regionale è certamente migliorata per il regime, ma dietro alle visite ufficiali e alle foto di rito vi è il rischio concreto che la Siria, dopo aver svolto la funzione di termometro del nuovo ordine mediorientale, venga nuovamente dimenticata insieme ai suoi numerosi problemi.
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