Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 05/04/2024 15:58:12

L’attacco israeliano al consolato iraniano di Damasco del 1° aprile ha suscitato molta preoccupazione nella stampa vicina alle posizioni degli Emirati, uno dei pochi Paesi arabi ad aver riallacciato le relazioni diplomatiche con il regime siriano di Bashar al-Assad. Severo soprattutto nei confronti dell’Iran il commento di al-‘Arab, che alla questione dedica l’articolo di prima pagina nell’edizione del 3 aprile, titolando “la Siria esce dalla perdurante guerra civile per diventare il terreno di scontro della guerra regionale”. Secondo il quotidiano panarabo «il sostegno iraniano ha aiutato il regime siriano a sopravvivere, ma ora lo sta facendo diventare parte dell’ampio conflitto che contrappone Teheran agli Stati Uniti e a Israele». In effetti «l’escalation militare, qualora diventasse di proporzioni più ampie danneggerebbe i piani di Assad per dimostrare che il suo Paese è in fase di recupero e per riabilitarlo a livello regionale e internazionale, ponendo fine alla guerra civile». Il presidente, infatti, benché «sembri intenzionato a offrire sostegno all’Iran in funzione antisraeliana, è in realtà a disagio proprio a causa della perdurante presenza di Teheran e dei pericoli che questa causa a Damasco». E, aggiunge l’articolo, Assad «non gradisce l’aumento della presenza militare iraniana». Per la testata emiratina al-Bayan, con questa operazione Israele ha voluto lanciare tre messaggi-monito: il primo a Teheran, il secondo a Hezbollah, e il terzo a Mosca («Tel Aviv non permetterà alla Russia di chiudere un occhio sulle nuove spedizioni di armi iraniane» nel Paese levantino). Proprio la Russia è al centro dell’analisi di Khayrallah Khayrallah, editorialista di al-‘Arab, che accusa il Cremlino di non essere in grado di gestire gli affari mediorientali: «che cosa ci sta guadagnando la Siria dal sostegno russo e dall’alleanza tra Mosca e Teheran oltre alla sequela di tragedie, l’ultima delle quali è l’attacco israeliano al consolato iraniano a Damasco?»

 

Il quotidiano saudita al-Sharq al-Awsat, sostiene che dopo l’attacco israeliano contro un edificio istituzionale della Repubblica Islamica il “gioco” delle guerre per procura non può più proseguire. E aggiunge in maniera provocatoria: «da oggi l’Iran sarà dietro a qualsiasi attacco a obiettivi diplomatici israeliani nel mondo. Ma se spunterà una qualsiasi organizzazione, come “Jund Allah” o “‘Ibad Allah” o simili, sciita o sunnita, che rivendicherà la responsabilità di queste azioni, basterà all’Iran dire di non avere nulla a che vedere con questi gruppi e che li sostiene solo moralmente, così come sta facendo con gli Houthi?». 

 

I quotidiani di proprietà qatariota, solidali con l’Asse della Resistenza ma profondamente ostili al regime di Assad, non commentano (almeno in maniera diretta) l’attacco al consolato iraniano. Il giorno prima dell’aggressione Al-Quds al-‘Arabi ha constatato come Damasco fosse di fatto impotente di fronte alla crisi di Gaza, succube dei suoi ingombranti alleati: «la guerra ha messo la Siria in un vicolo cieco: il governo non è in grado di prendere decisioni perché subisce l’influenza iraniana». Al-‘Arabi al-Jadid, che aveva definito il presidente siriano “Dracula”, si è invece occupata del «trasferimento» dei colloqui di pace dell’ONU da Ginevra a Riyad, sottolineando come la normalizzazione tra Siria e Arabia Saudita non sia mai davvero decollata, anzi: il Regno, che tra il 2015 e il 2021 ha organizzato dei negoziati con i movimenti anti-Assad, mantiene forti legami con questi e ancora adesso «continua a inviare aiuti umanitari nei territori settentrionali del Paese [Idlib], dove si trovano i capi dell’opposizione»; in un altro articolo, il giornale sottolinea come le aggressioni di Israele verso obiettivi iraniani mettano la Repubblica Islamica di fronte «a due opzioni, una più amara dell’altra: stare in silenzio e ritirarsi, oppure rispondere e scontrarsi. Ma in entrambi i casi si tratta di un suicidio, fatto che spiega l’atteggiamento prudente e lo scarso entusiasmo degli iraniani nei confronti del “Diluvio di al-Aqsa”». Ovviamente duri, ma non molto numerosi, i commenti dei giornali dell’Asse della Resistenza: «prendere di mira l’entità della Repubblica Islamica – osserva il libanese filo-sciita al-Akhbar – è una risposta sproporzionata, soprattutto perché Israele non ha colpito direttamente il territorio iraniano, e ciò potrebbe portare allo scoppio di una grande guerra regionale». Più fumoso il commento di al-Mayadeen («è probabile che l’Iran gestisca questi pericolosi sviluppi bellici in un modo utile al proseguimento della lotta»), che addossa la responsabilità dell’attacco agli Stati Uniti per aver inviato alla «entità occupante» gli armamenti necessari a compiere l’operazione. «Resta da osservare – conclude l’articolo – quale sarà la natura e le modalità che l’Iran e gli altri membri dell’Asse adotteranno, in quello che potrebbe essere l’inizio di una fase diversa della guerra».    

 

«Hamas ha puntato gli occhi sulla Giordania» [a cura di Chiara Pellegrino]

 

Fin dai primi giorni dello scoppio del conflitto a Gaza, la Giordania si è mostrata solidale con i palestinesi sia a livello istituzionale che popolare. Le ripetute manifestazioni di piazza hanno testimoniato questo orientamento, ma nelle ultime settimane il livello di tensione nelle strade è salito a dismisura e preoccupa non poco gli osservatori della regione. Lo scorso 24 marzo Khaled Mesh‘al, leader di Hamas all’estero, si è rivolto ai giordani chiedendo loro di prendere parte direttamente alla guerra a Gaza, ciò che ha indispettito le autorità giordane, che hanno accusato il leader del movimento islamista palestinese di violare la sovranità del Paese.

 

“La Giordania è su una lastra rovente”, titola al-‘Arabi al-Jadid. Il giornalista giordano Murad Batal Shishani parla di «segnali preoccupanti che stanno emergendo nella società giordana». Dal “Diluvio di al-Aqsa”, le autorità hanno rilasciato dichiarazioni a sostegno di Gaza e invitato la popolazione a boicottare i prodotti israeliani, mantenendo una posizione che il giornalista definisce «un’uscita dalle convenzioni diplomatiche». Ma allora, se il risentimento per Israele da un lato, e il sostegno per Gaza dall’altro hanno unito le piazze e i palazzi del potere giordani fino a oggi, perché nelle ultime settimane le autorità hanno intensificato la campagna di arresti nei confronti di attivisti e giornalisti che criticano Netanyahu? La risposta è nella composizione delle piazze, spiega l’editoriale, divise tra gli islamisti, che inneggiano ad Hamas, i giovani di sinistra e gli attivisti non affiliati ad alcun partito. «Dopo il “7 ottobre” in Giordania si è verificato un cambiamento antropologico-sociale: a seguito degli eventi di Gaza, molti giordani di origine palestinese si sono riavvicinati all’identità palestinese, soprattutto le nuove generazioni, che sembravano più vicine all’identità urbana moderna». Questo «ha cominciato a suscitare tra i difensori dell’identità nazionale giordana il timore che la società torni in uno stato di divisione». Oltre al fattore strutturale della società, spiega ancora Shishani, c’è il fattore regionale: i Paesi limitrofi sono preoccupati dalla comparsa degli islamisti nelle strade giordane – «in Giordania gli islamisti riescono ancora a mobilitare le piazze più di qualsiasi altra parte politica, e stanno vivendo una fase di grande popolarità» – e credono che le autorità giordane non abbiano fatto abbastanza per contenerli.

 

Sul quotidiano al-Quds al-‘Arabi, finanziato dal Qatar, lo scrittore giordano Bassam Badareen ridimensiona il ruolo degli islamisti nelle proteste in corso ad Amman. «I discorsi sull’alleanza tra l’Iran e la Fratellanza e la storia dell’“accordo tra i Fratelli palestinesi e i Fratelli giordani” sono più vicini a documenti da museo [che alla realtà], perché oggi non c’è più nulla che unisce Hamas ai Fratelli musulmani nella loro versione internazionale o a quelli giordani, eccetto “il quadro intellettuale”, nel senso che c’è stato un allontanamento ideologico da “una scuola di pensiero unica”». Le persone che manifestano, scrive Badareen, sono giordani di colori politici variegati, che hanno perso la fiducia nel governo e sono «preoccupati per il futuro del loro Paese, delle loro istituzioni, del loro Stato e dei loro figli, nell’eventualità in cui chi sta commettendo un genocidio riesca a sottrarsi alla punizione per poi dedicarsi a completare l’annessione della Valle del Giordano». Anziché speculare sulle connotazioni islamiste delle manifestazioni, demonizzare le proteste e agitare lo spauracchio delle «cospirazioni e degli intrighi transregionali», le autorità dovrebbero aprire un dialogo nazionale, definire una strategia e dare delle risposte ai cittadini. Ma da molti anni ormai, le élite al potere hanno chiuso i canali di comunicazione con i cittadini, che quindi hanno perso la fiducia nelle istituzioni, conclude l’editoriale.

 

È un dato di fatto, però, scrive Hussein al-Rawashdeh sul quotidiano giordano al-Dustur, che i leader di Hamas «hanno lanciato degli appelli al popolo giordano, alle tribù in particolare, affinché si uniscano alla resistenza di Gaza e oltrepassino i confini per marciare verso la Palestina». In sei punti l’editorialista spiega perché «Hamas ha puntato gli occhi sulla Giordania» proprio ora e perché si è rivolto direttamente al popolo giordano eludendo le autorità. 1) A livello di tempistiche, le dichiarazioni di Hamas coincidono con la visita di una delegazione del movimento islamista palestinese a Teheran, il cui obbiettivo congiunto è «fare di Amman un sesto fronte» seguendo «l’agenda dell’“unità dei fronti”»; 2) i rapporti tra le autorità giordane e Hamas si sono interrotti 25 anni fa e Amman s’interfaccia solo con l’OLP e l’Autorità Nazionale; 3) negli ultimi sei mesi i leader di Hamas hanno incontrato a più riprese personalità giordane, chiedendo di esercitare pressioni sullo Stato perché questo partecipi alla guerra a Gaza; 4) Hamas vorrebbe spingere la regione nel caos «creando degli staterelli dentro lo Stato», come hanno già fatto in Siria, Libano, Iraq e Yemen; 5) il dopo guerra preoccupa Hamas, che lancia attacchi preventivi alle capitali arabe per metterli in guardia contro un’eventuale presa di posizione contraria agli interessi del movimento islamista; 6) infine, pare che i leader di Hamas abbiano confuso la posizione del popolo giordano a sostegno della Resistenza e del popolo palestinese, con la posizione dello Stato giordano rispetto alle fazioni della Resistenza, viste con grande sospetto per i problemi di sicurezza che potrebbero creare nel Paese.

 

Nell’occhio del ciclone sono finiti anche i Fratelli musulmani giordani, accusati di collaborare con Hamas per destabilizzare il loro Paese. Tali accuse sono state respinte dal portavoce degli stessi Fratelli musulmani giordani, Moaz al-Khawaldeh, il quale ha dichiarato che i contatti con i leader di Hamas sono avvenuti alla luce del sole e che «per il movimento islamista [giordano] la sicurezza e la stabilità della Giordania sono una priorità». Al-Khawaldeh ha inoltre giustificato gli appelli lanciati da Hamas ai giordani spiegando che è normale che «un fratello chieda al fratello il sostegno per aiutare ad affrontare un nemico criminale che sparge sangue e viola e profana le cose sacre, senza che ciò debba essere inteso come un’istigazione contro la Giordania».

 

I quotidiani afferenti alla sfera saudita-emiratina, tradizionalmente ostili all’islamismo, accusano i Fratelli musulmani e l’Iran di sfruttare il conflitto israelo-palestinese per destabilizzare non solo la Giordania, ma tutto il Medio Oriente. Su al-‘Arab il giornalista emiratino Muhammad Faysal al-Dosairi denuncia il tentativo delle «milizie affiliate all’Iran di minare la stabilità e infiammare le piazze giordane». Inoltre, continua l’editorialista, «le organizzazioni terroristiche ed estremiste sfruttano l’attuale situazione regionale per realizzare i propri interessi politici e fomentare le sedizioni istigando i popoli, come se qualcuno stesse cercando di aprire un secondo capitolo della Primavera araba, o volesse sfruttare formalmente l’ombrello della Primavera araba per ampliare la portata della guerra regionale». Dosairi conclude tessendo le lodi di re ‘Abdullah, che incarna «una leadership saggia» e lungimirante, visto che già nel 2004 aveva messo in guardia dalla nascita di una «mezzaluna sciita iraniana nella regione».  

 

Sulla stessa lunghezza d’onda il giornalista emiratino Ahmad Sa‘id al-‘Alawi che, su al-‘Ayn al-Ikhbariyya, definisce le manifestazioni in atto «un complotto per distruggere» il Paese, il tentativo di «creare un terreno fertile per attrarre tutti coloro che si nutrono di caos, in particolare le parti che fanno leva sui sentimenti nazionali e arabi per aizzare l’opinione pubblica e conseguire obiettivi personali in un orizzonte ristretto, ciò che ha condotto la regione in un “tunnel” senza fine». Gli eventi giordani, commenta l’editorialista, non sono una semplice «coincidenza o casualità, ma uno “scenario pianificato”». Amman corre il rischio di un nuovo «Autunno arabo», conclude al-‘Alawi, a causa dell’azione della «Fratellanza, che sfrutta le folle inferocite» per far piombare il Paese nel caos.

Sul quotidiano saudita al-Sharq al-Awsat il giornalista libanese Nadim Koteish commenta il messaggio con cui Khaled Mesh‘al ha invitato i giordani a prendere parte al conflitto di Gaza definendolo «il prodotto della disperazione che avvolge  il movimento, dopo che questo è stato il bersaglio di una guerra senza precedenti ed è stato inaspettatamente abbandonato dai suoi alleati». «È come se Hamas, che non è riuscito ad affogare Israele nel sangue del popolo di Gaza, ora volesse affogarlo con altro sangue, a cominciare dalla Giordania», prosegue l’articolo. Secondo Koteish, l’appello di Mesh‘al tradisce il desiderio islamista di «riprendere la sua guerra contro il sistema politico arabo», dopo che i Fratelli musulmani hanno visto fallire i loro progetti di governo in Egitto e in Tunisia, hanno perso la scommessa in Marocco e in Sudan, e hanno visto il «padrino turco» cercare la riconciliazione con il mondo arabo. In questo contesto, la guerra di Gaza «sembra essere una nuova finestra da cui la “Fratellanza” si sporge, armata del discorso della resistenza e della teoria dell’“unità dei crolli”, anziché dell’unità delle arene», conclude l’editoriale.

 

Sul fronte dell’Asse della Resistenza invece, il quotidiano libanese filo-sciita al-Akhbar ha titolato “Il ‘Diluvio della Giordania’ si espande: basta prendersi in giro”. L’articolo è un resoconto delle proteste che «hanno chiesto alle autorità di mettere fine all’“Accordo sul gas”, al Trattato di “Wadi Araba” [l’accordo di pace tra Giordania e Israele] e alla partecipazione della Giordania al ponte terrestre israeliano [il valico di Allenby che unisce la Cisgiordania alla Giordania]», ed è infarcito di accuse al governo giordano, che «reprime i manifestanti e silenzia gli oppositori» con la violenza e vieta ai quotidiani «filo-regime» di raccontare i fatti.   

 

 

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