Nei cinque Paesi dell’ex-Indocina (Myanmar, Cambogia, Thailandia, Laos e Vietnam) le violazioni alla libertà di fede sono molto diversificate, andando da forme eclatanti di persecuzione a casi molto più sfumati. Sullo sfondo un elemento comune: la presenza ingombrante di militari e regimi militari

Ultimo aggiornamento: 13/02/2025 12:47:30

Cinque Paesi a maggioranza buddhista, ma con al loro interno un mosaico composito di etnie che in molti casi chiama in causa anche la dimensione religiosa. Paesi con storie recenti e situazioni tra loro molto diverse, ma accomunati dalla presenza ingombrante di militari e regimi autoritari. Democrazie che (anche là dove almeno formalmente esistono) negli ultimi anni hanno fatto registrare passi indietro preoccupanti nel loro esercizio. Sullo sfondo, il caso del tutto particolare del Vietnam, il Paese più popoloso del gruppo, e anche il più corteggiato nelle dinamiche geopolitiche dell’Asia-Pacifico di oggi. Una realtà dove, in questo momento, è oggettivamente difficile stabilire se si debba considerare più significativo il bicchiere mezzo pieno dei nuovi spazi di libertà aperti dalla “politica del bambù” o le tante forme di controllo e repressione che continuano a essere praticate.


Tracciare un panorama della libertà religiosa nell’area di quella che un tempo veniva chiamata l’Indocina (Cambogia, Laos, Myanmar, Thailandia e Vietnam) è un’operazione complessa. Un mondo dove esistono forme eclatanti di persecuzione, ma non sono meno significative le sfumature, per esempio quel tipo di violazioni che più che con diritti sanciti espressamente da leggi o regolamenti hanno a che fare con i rapporti di forza tra gruppi maggioritari e minoranze etniche. O con il coraggio di personalità religiose che, in nome del proprio credo, osano mettere in discussione sistemi di potere basati su forme di controllo capillari e autoritarie.

 

Il Myanmar tra guerra civile e persecuzione dei Rohingya
Tra i cinque Paesi della regione la situazione più critica dal punto di vista della libertà religiosa è certamente quella del Myanmar (52 milioni di abitanti), l’unico Paese dell’area a figurare costantemente nelle posizioni peggiori negli elenchi sulle realtà dove è difficile vivere liberamente la propria fede. Il volto più duro è certamente quello della persecuzione subita dai Rohingya, la minoranza musulmana dello Stato occidentale del Rakhine, da decenni considerata una sorta di corpo estraneo in un Paese a forte maggioranza buddhista e per questo privata dello stesso diritto di cittadinanza. Un’ostilità sfociata nella durissima campagna militare negli anni 2016 e 2017, scatenata dall’esercito birmano come ritorsione agli attentati condotti contro alcune postazioni di polizia dell’Arakan Rohingya Salvation Army (ARSA), una milizia indipendentista islamica. Secondo le stime delle organizzazioni internazionali, almeno 6.700 persone vennero uccise in quegli anni e oltre 700.000 scapparono in Bangladesh nei campi per i rifugiati allestiti sul confine a Cox’s Bazar, in una situazione che resta tuttora irrisolta.


Per queste vicende il procuratore generale della Corte penale internazionale Karim Khan ha recentemente chiesto un mandato di arresto nei confronti del generale Min Aung Hlaing, il capo della giunta militare birmana. Min Aung Hlaing è anche l’uomo che, con il colpo di Stato del 1° febbraio 2021, ha liquidato il fragile percorso verso la democrazia incarnato da Aung San Suu Kyi, la leader storica dell’opposizione che per alcuni anni, aderendo alla “transizione” mediata da Washington, aveva provato la strada di una “convivenza” con l’esercito, salvo finire agli arresti quando ha cercato di far pesare il voto popolare.
La richiesta della Corte penale internazionale suona oggi però un po’ beffarda, perché è arrivata solo quando, in un Paese sprofondato ormai da quasi quattro anni nella guerra civile, Min Aung Hlaing è apparso fortemente indebolito. Probabilmente è stato scaricato anche da Pechino, che sta cercando di proteggere i propri interessi nel Paese trattando parallelamente con le milizie etniche. Mentre oggi i Rohingya, oltre che dall’esercito, devono guardarsi dall’Arakan Army, il gruppo armato nazionalista buddhista che di fatto ha ormai sconfitto le forze armate nel Rakhine e che negli ultimi mesi è stato ripetutamente accusato di aver compiuto “in proprio” ulteriori massacri ai danni del gruppo musulmano.


Lo scenario del Myanmar è dunque quanto mai intricato, e mostra come la libertà religiosa sia una delle tante vittime della guerra civile, e non solo nel Rakhine. Nel tentativo di soffocare l’insurrezione dell’alleanza tra chi aveva militato nella Lega nazionale per la democrazia di Aung San Suu Kyi e i gruppi etnici insofferenti rispetto all’egemonia dei Bamar, anche i luoghi di culto sono stati presi di mira: l’esercito birmano ha ripetutamente bombardato chiese cristiane (minoranza significativa che rappresenta circa il 6% della popolazione del Paese), ma anche monasteri buddhisti. Emblematica la storia del compound della cattedrale cattolica di Loikaw, nell’orientale Stato Kayah: l’esercito l’ha occupato nel novembre 2023 costringendo la comunità a fuggire nella foresta, compreso il vescovo stesso, mons. Celso Ba Shwe, profugo tra i profughi.


In una guerra fatta di alleanze quanto mai fragili la domanda cruciale oggi appare quella su come ne usciranno davvero i rapporti tra i 135 diversi gruppi etnici che formano il tessuto del Myanmar. Se prevarrà la disgregazione oppure una forma di unità diversa rispetto alla via della “salvaguardia della nazione e della religione” perseguita dal Ma Ba Tha, l’organizzazione identitaria buddhista appoggiata dall’esercito. Nel 2015 riuscì a far approvare leggi profondamente discriminatorie, come l’obbligo di chiedere l’approvazione del governo per convertirsi a una religione diversa o le rigide clausole imposte agli uomini non buddhisti che sposano donne buddhiste.

 

Cambogia: i limiti alla libertà religiosa vanno di pari passo con quelli alle libertà politiche

Meno problematica, almeno a prima vista, appare la situazione in Cambogia (15,2 milioni di abitanti), Paese dove fortunatamente le dure persecuzioni subite dalle confessioni religiose durante la stagione dei Khmer rossi appaiono una oscura pagina del passato. La Costituzione cambogiana ora riconosce il buddhismo come religione di Stato, ma prevede comunque la libertà di credo e di culto religioso, purché non interferisca con le credenze e le religioni altrui né violi l’ordine pubblico e la sicurezza. Il governo sostiene l’educazione buddhista, mentre è vietato ai “gruppi non buddhisti fare proselitismo pubblicamente”. La letteratura non buddhista può essere, invece, distribuita ma solo all'interno delle istituzioni religiose.
Anche in Cambogia però il tema della libertà religiosa è inseparabile da quello più generale dello spazio sempre più ristretto per le libertà politiche. Dopo aver sciolto il National Rescue Party, il principale partito di opposizione, e costretto i suoi leader all’esilio, Hun Sen – l’ex Khmer rosso che era stato capo del governo dal 1985 (salvo una breve parentesi) – l’anno scorso ha passato il testimone attraverso elezioni farsa al figlio Hun Manet (ritagliando comunque per sé la carica di presidente del Senato). In questo quadro di repressione sempre più dura per ogni forma di dissenso politico, anche il controllo sulle attività religiose è molto forte. Secondo diverse organizzazioni per i diritti umani, è il Ministero dei culti e delle religioni di Phnom Penh a decidere le leadership non solo delle principali organizzazioni buddhiste, ma anche della comunità musulmana Cham che, insieme ai cristiani (che sono appena lo 0,5% della popolazione), sono le due più significative minoranze religiose.


La legge vieta espressamente alle organizzazioni religiose di tenere eventi, manifestazioni, raduni, incontri e sessioni di formazione a sfondo politico. Ai monaci buddhisti viene poi chiesto di essere politicamente neutrali, astenendosi dal partecipare a proteste politiche. Chi non obbedisce paga conseguenze molto dure: nel luglio scorso, ad esempio, il monastero Wat Damrei Sorwas di Battambang ha espulso il monaco Sang Rithy per aver partecipato a una manifestazione che commemorava Kem Ley, un attivista locale per i diritti umani ucciso otto anni fa. Mentre Theary Seng, una cristiana evangelica che ha collaborato alla traduzione della Bibbia in lingua Khmer, si trova in carcere con l’accusa di tradimento dopo aver appoggiato il fallito tentativo di rientro in patria del leader dell’opposizione cambogiana in esilio Sam Rainsy.

 

Il Laos e le differenze tra città e campagne

Il piccolo Laos (7,2 milioni di abitanti) è invece una Repubblica Democratica Popolare di stampo comunista, tuttora guidata da un partito unico. Il governo riconosce ufficialmente quattro religioni: il buddhismo (cui è riconosciuta una posizione prioritaria), il cristianesimo, l’islam e la fede baha’i. Leader religiosi locali continuano però a raccontare che, mentre nelle aree urbane e in alcuni distretti le autorità hanno una forte comprensione delle leggi che regolano le attività religiose, restrizioni improprie rimangono prevalenti nelle aree rurali. Vi sono segnalazioni di autorità locali che, soprattutto nei villaggi isolati, operano discriminazioni e talvolta espulsioni di seguaci di gruppi religiosi minoritari, in particolare cristiani (che sono intorno all’1,7% della popolazione), per aver rifiutato di rinunciare alla loro fede.


Particolarmente grave in questo senso è stato il caso dell’uccisione di Thongkham Philavanh, un pastore evangelico quarantenne di etnia khmu, colpito a morte da due uomini mascherati mentre si trovava nella sua casa nel villaggio di Vanghay, nella provincia di Xai. Testimoni hanno riferito dell’esistenza di gruppi locali che erano infastiditi dalle attività religiose che svolgeva presso la sua chiesa domestica. In febbraio in un’altra località della provincia di Savannakhet la comunità cristiana locale aveva raccontato di essere stata assaltata dal capo villaggio, dalle guardie di sicurezza e dagli anziani che hanno bruciato Bibbie e documenti: «Hanno distrutto la nostra casa – hanno raccontato – perché non vogliono che i nostri fratelli e sorelle cristiani venerino Dio».

 

Thailandia: i problemi della legge marziale nel Sud

In Thailandia (70 milioni di abitanti) la Costituzione «proibisce la discriminazione basata sul credo religioso» e protegge la libertà religiosa fintanto che il suo esercizio non è «dannoso per la sicurezza dello Stato». La legge riconosce ufficialmente cinque gruppi religiosi: buddhisti, musulmani, indù, sikh e cristiani (questi ultimi sono circa l’1% della popolazione). Un’ordinanza speciale militare del 2016, tuttora in vigore, garantisce la promozione e la protezione da parte dello Stato di «tutte le religioni riconosciute» nel Paese, ma impone alle agenzie statali di monitorare il «giusto insegnamento» di tutte le fedi per garantire che non vengano «distorte per turbare l’armonia sociale».


In Thailandia la situazione più delicata riguardo alla libertà religiosa è legata al conflitto politico nelle province a maggioranza musulmana del profondo Sud (Narathiwat, Yala e Pattani), più vicine al confine con la Malaysia. Qui dal 2004 si è riacceso un conflitto con i gruppi separatisti locali che i governi thailandesi hanno cercato di sedare con la forza: lo scontro in questi anni è costato la vita a più di 7.000 persone, di cui si stima che il 90% siano civili di etnia thai o malese.


Le autorità nel Sud della Thailandia continuano a usare i decreti d’emergenza e le disposizioni della legge marziale che permettono ai militari e alla polizia di limitare alcuni diritti fondamentali, tra cui l’estensione della detenzione preventiva e l’ampliamento delle perquisizioni senza mandato. La comunità musulmana locale (che costituisce il 4,3% della popolazione) esprime frustrazione per il trattamento discriminatorio percepito dalle forze di sicurezza e per quello che descrive come un sistema giudiziario privo di controlli ed equilibri adeguati.


Un’altra situazione critica per la libertà religiosa in Thailandia è data dal fatto che la legge sull’immigrazione non riconosce lo status di rifugiato già concesso dall’UNHCR a persone provenienti da altri Paesi: non ci sono eccezioni per i richiedenti asilo, compresi quelli che fuggono da persecuzione per motivi religiosi, che possono essere soggetti ad arresto e detenzione come tutte le persone che non hanno un permesso di soggiorno legale. Particolarmente dibattuto è il caso di 48 musulmani uiguri, fuggiti dalla provincia cinese dello Xinjiang e trattenuti a Bangkok in condizione di detenzione da almeno una decina d’anni. Un gruppo di parlamentari di tutto il mondo ha lanciato recentemente un appello affinché la Thailandia non proceda a un rimpatrio forzato in Cina, come già avvenuto per altri dissidenti.
 

Vietnam: gli ambigui passi avanti di un Giano bifronte

Come accennavamo già all’inizio, infine, il Vietnam (con i suoi 96 milioni di abitanti) appare oggi come una sorta di Giano bifronte. Complici le aperture economiche verso gli Stati Uniti e i vicini asiatici perseguite in quella che l’allora leader del Partito comunista vietnamita Nguyen Phu Trong nel 2016 battezzò come la “politica del bambù” – pianta forte e resistente, ma insieme flessibile e pronta ad adattarsi alle situazioni – vi sono indubbiamente stati passi avanti in tema di libertà religiosa. E non solo, ovviamente, per la “certificazione” attribuita da Washington, che nel suo annuale rapporto su questo tema oggi non classifica più Hanoi tra i Paesi in situazioni di “particolare preoccupazione” (pur restando comunque nel gradino immediatamente sotto, cioè tra i Paesi che per il Dipartimento di Stato Usa sono “sotto controllo speciale per aver commesso o tollerato gravi violazioni alla libertà religiosa”).

 

I principali motivi di speranza vengono piuttosto dai passi avanti molto significativi fatti registrare negli ultimi anni nei rapporti con il Vaticano. Appaiono ormai un ricordo del passato gli anni in cui il Vietnam, in nome della sua ideologia comunista, limitava pesantemente gli ingressi nei seminari alla vivace comunità cattolica locale in un Paese che nelle statistiche ufficiali sbandierava l’ateismo come il gruppo religioso dominante (e dove oggi i cristiani sono il 6,1% della popolazione). Con un percorso paziente la Chiesa vietnamita è riuscita a ottenere spazi importanti all’interno della società, con un riconoscimento da parte del governo di Hanoi dell’opera solidale svolta dagli organismi caritativi cattolici, specialmente nel periodo della pandemia da Covid 19. Contemporaneamente anche le relazioni con la Santa Sede hanno fatto registrare importanti passi avanti: dal dicembre 2023, per la prima volta dall’espulsione del nunzio avvenuta nel 1975, nella capitale vietnamita è tornato a risiedere un rappresentante permanente del Vaticano, mons. Marek Zalewski. E la prospettiva di uno storico viaggio apostolico di papa Francesco in Vietnam oggi appare ben più di una semplice ipotesi: le autorità vietnamite lo hanno già invitato, i cattolici locali lo aspettano, sembrerebbe ormai solo una questione di date da definire.


Un altro segnale importante in tema di libertà religiosa è poi venuto con la liberazione di Nguyen Bac Truyen, attivista della comunità buddhista Hoa Hao (ritenuta una setta sincretista dall’establishment religioso ufficiale), arrestato nel 2017. Era stato condannato a 11 anni di carcere, ufficialmente per aver condotto “attività con l’obiettivo di rovesciare il governo”. In realtà erano battaglie legali in favore di prigionieri politici, vittime di land grabbing, e comunità religiose perseguitate. Nguyen Bac Truien è stato rilasciato nel settembre 2023, in concomitanza con il viaggio ad Hanoi del presidente americano Joe Biden, e caricato su un aereo per Berlino, dove ora vive in esilio. Proprio Truien, però, parlando dopo la sua liberazione, ha invitato a non lasciarsi ingannare da questi gesti. «Il futuro della libertà religiosa o dei diritti umani in Vietnam non è roseo – ha dichiarato. I gruppi buddhisti indipendenti come gli Hoa Hao nel sud-ovest sono ancora soggetti a difficoltà e discriminazioni nelle loro attività religiose, mentre ai credenti registrati presso il Buddhist Sangha (l’organismo istituito dallo Stato) non viene impedito» il culto.
Parole che vanno al cuore del problema della libertà religiosa in Vietnam che non tocca tanto la questione del rapporto tra maggioranze e minoranze e non prende di mira singole confessioni religiose: in un sistema politico che resta rigidamente controllato dal Partito comunista locale la vera distinzione è tra comunità religiose riconosciute o non riconosciute dal governo. Anche nel Vietnam della “politica del bambù”, ogni attività religiosa resta rigidamente sottoposta ad autorizzazione. Ed è pericolosamente subordinata a pratiche che «non possano minare la pace, l’indipendenza e l’unità nazionale» o causare «pubblico disordine».


Un esempio concreto di quanto questa ambiguità possa ledere la libertà religiosa è il caso dei cosiddetti Montagnard, un gruppo di circa 30 minoranze etniche negli Altipiani centrali del Vietnam che secondo le statistiche ufficiali più recenti, risalenti al 2019, comprende complessivamente 5,8 milioni di persone. Per anni le “tribù dei monti” hanno subito una persecuzione religiosa da parte del governo, retaggio dei tempi della guerra in Vietnam, quando i Montagnard si schierarono a fianco degli Stati Uniti nel tentativo di dar vita a una nazione autonoma. Con il passare degli anni le autorità di Hanoi hanno continuato a reprimerle, accusandole di secessione ed espropriando i loro terreni con questo pretesto. La loro fede cristiana rappresenta un ulteriore elemento di sospetto, e oltre agli attacchi di natura etnico-politica subiscono anche una persecuzione di matrice confessionale.


«L’ingiusto processo di massa del gennaio 2024; l’inserimento della Msfj (il movimento attivista Montagnards Stand for Justice) nell’elenco dei terroristi nel marzo 2024; la presunta intimidazione dei rifugiati vietnamiti in Thailandia nel marzo 2024 – si legge in un rapporto diffuso dall’Onu nell’agosto 2024 – sembrano far parte di un modello più ampio e crescente di sorveglianza discriminatoria e repressiva, controlli di sicurezza, molestie e intimidazioni» contro la minoranza Montagnard.
 

Nel gennaio scorso 100 fedeli Montagnard della provincia di Dak Lak sono stati processati per un attacco avvenuto l’11 giugno 2023 a due sedi della Comune popolare che hanno causato nove morti sul terreno. In 10 sono stati condannati all’ergastolo con l’accusa di terrorismo. I rimanenti hanno ricevuto pene variabili da tre anni e mezzo sino a 20 anni di prigione, per lo più con accuse legate al terrorismo.


Un altro caso degli ultimi mesi ha poi riportato in primo piano i limiti imposti alla libertà religiosa anche all’interno della comunità buddhista, la confessione maggioritaria vietnamita. Nel mirino delle autorità è finito Thich Minh Tue, un monaco divenuto popolarissimo sui social network per il suo pellegrinare a piedi nel Paese in assoluta povertà, vivendo le pratiche ascetiche del Dhutanga, una forma di rigore e devozione tradizionale identificata dalla gente come il contraltare rispetto alle pagode “ufficiali” e alla corruzione diffusa. Proprio la sua crescente notorietà, alla fine, ha suscitato gli strali del Vietnam Buddhist Sangha, l’organizzazione confessionale che ha preso il posto della Unified Buddhist Sangha of Vietnam, bandita nel 1981 dal governo di Hanoi. I religiosi buddhisti “ufficiali” hanno accusato Thich Minh Tue di «non essere un vero monaco», definendolo un fanatico, finché non è intervenuta la polizia per fermare le sue popolarissime marce. Fermato per alcune settimane, è poi ricomparso nella sua provincia d’origine da dove ha chiesto al pubblico di smettere di filmare, fotografare e condividere la sua immagine sui social media. Ufficialmente ha motivato il suo appello con la preoccupazione per l’impatto di tutto questo sulla sua pratica spirituale; ma non è difficile intravvedere anche pesanti condizionamenti dietro a queste parole.
Una storia, dunque, che in qualche modo riassume molti dei volti delle violazioni della libertà religiosa in questa parte del Sud-est asiatico. E dello spazio estremamente ristretto a disposizione per ogni credente che in coscienza ritenga giusto uscire dai binari rigidamente stabiliti dai governi locali e dalle loro strutture religiose di riferimento.

 

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