Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba
Ultimo aggiornamento: 31/01/2025 15:44:05
Sui media arabi continuano le speculazioni sul futuro della Siria, anche alla luce delle ultime mosse della nuova amministrazione di Damasco. Il 29 gennaio il leader de facto del Paese, Ahmed al-Sharaa, ha assunto la presidenza ad interim e annunciato che avrebbe costituito un consiglio legislativo di transizione rappresentativo delle varie componenti della società. Contestualmente il neo-presidente ha abrogato la Costituzione del 2012 e sciolto il Partito Baath, il parlamento, l’esercito e l’apparato dei servizi di sicurezza legati a Bashar al-Assad.
Nei prossimi mesi il Paese sarà un «laboratorio per testare il rapporto degli islamisti con la democrazia», scrive l’ex ministro della Cultura tunisino Mehdi Mabrouk su al-‘Arabi al-Jadid, quotidiano panarabo di proprietà qatariota. Mabrouk è pessimista e non crede che al-Sharaa abbia davvero compiuto «il leggendario salto dai circoli di al-Qaeda ai circoli della democrazia». Tant’è vero che in due mesi il nuovo leader non ha mai pronunciato la parola «democrazia», preferendo il termine «libertà». Questo, commenta Mabrouk, «è uno stratagemma, perché le persone adesso hanno sete di libertà, soprattutto dopo aver subito la repressione per decenni. Per alcuni la libertà sembra un sogno». I segnali non sono rassicuranti e difficilmente la Siria potrà essere «un incubatore di democrazia». Il deficit democratico tuttavia, conclude l’articolo, non è un problema soltanto degli islamisti. Anche i loro avversari non possono dirsi propriamente «cavalieri della democrazia»: «La sinistra, che celebra ancora il centenario di Lenin, […] considera la democrazia una menzogna borghese, mentre i nazionalisti continuano a considerarla uno stratagemma coloniale. Sono tutte forme diverse di “incredulità nei confronti della democrazia”, soltanto in forma non religiosa».
Su al-Quds al-‘Arabi l’intellettuale e attivista siriano Yassin al-Hajj Saleh delinea una scala delle priorità che dovrebbero guidare il nuovo governo. Nonostante l’economia del Paese sia a pezzi e regnino sovrane povertà e disoccupazione, la politica deve avere la precedenza su tutto, altrimenti qualsiasi «iniezione di denaro sarà inefficace». L’economia, ricorda al-Hajj Saleh, funziona solo in presenza di un sistema politico stabile e regole trasparenti, condizioni che al momento in Siria sono assenti. Peraltro, «lo Stato non deve essere uno Stato mercante, nel senso che chi ha più informazioni sull’economia non deve essere intestarsi contratti né concludere affari», puntualizza l’attivista siriano citando Ibn Khaldun, lo storico tunisino vissuto nel XIV secolo. Ma chi finanzierà la ricostruzione del Paese? – domanda poi al-Hajj Saleh. Probabilmente i Paesi del Golfo (Qatar, Arabia Saudita ed Emirati) o l’Unione Europea, certamente non gli Stati Uniti, prosegue l’editoriale. La provenienza dei fondi, qualunque essa sia, ha però delle conseguenze inevitabili. Gli arabi potrebbero subordinare la concessione di aiuti a imposizioni politiche «che riproducono il dominio autoritario su nuove basi, contraendo le libertà pubbliche nel Paese, limitando il pluralismo politico, impedendo libere elezioni o limitandone la partecipazione». L’Europa invece potrebbe chiedere garanzie per la sicurezza di Israele, un impegno nella lotta al terrorismo e un ridimensionamento del ruolo giocato dalla Russia nel Paese. Per ora l’unica certezza è che per entrambi i finanziatori è prioritaria la stabilità della Siria, non certo il rispetto delle libertà politiche e dei diritti dei siriani. Il futuro del Paese dipenderà dalla capacità del governo di allargare la base di partecipazione politica coinvolgendo il più possibile rappresentanti di tutte le fazioni e minoranze etniche e religiose presenti nel Paese. Il tempo dirà se gli ex militanti di Tahrir al-Sham hanno davvero dismesso i panni del gruppo salafita-jihadista, conclude l’editoriale.
Sul quotidiano filo-emiratino al-‘Arab, Salem al-Kebti paventa il rischio di un’afghanizzazione della Siria. La nomina di Shadi al-Waisi a ministro della Giustizia non lascia ben sperare, commenta il giornalista emiratino, considerati i suoi pregressi quando era giudice di Jabhat al-Nusra e la facilità con cui era solito comminare le pene di morte. A questo si aggiungono le recenti dichiarazioni con cui al-Waisi ha preannunciato «un sistema di governo religioso che verrà applicato attraverso un ombrello parlamentare». Tutte le promesse fatte finora da Ahmad al-Sharaa svaniranno presto, quando la scena politica della nuova Siria inizierà ad «affollarsi di volti provenienti dal “governo di Idlib”». Al momento, prosegue l’editoriale, non sembra esserci posto per i leader di altre fazioni, fatta eccezione per Maysaa Sabrin, nominata governatrice della Banca centrale, una nomina strategica, che consente al nuovo presidente di rassicurare il mondo dimostrando la sua apertura alle donne.
Grande ottimismo traspare invece dalla stampa saudita. È finita l’era dell’ISIS, di al-Qaeda, di Osama bin Laden, al-Baghdadi, Bashar al-Assad, Muammar Gheddafi e Saddam Hussein, scrive Mamduh al-Mhuain su al-Sharq al-Awsat. Oggi «viviamo in un’epoca diversa, in cui i popoli si mescolano tra loro, i capitali si spostano verso luoghi stabili e promettenti, il mondo compete nel turismo, nell’industria, nella costruzione degli aeroporti più grandi e nell’utilizzo delle ultime innovazioni dell’intelligenza artificiale». Oggi le grandi potenze non si fanno più la guerra per occupare territori o imporre determinate ideologie, ma per la ricchezza e la prosperità economica, da cui derivano il potere militare e diplomatico, commenta il giornalista. Due, pertanto, sono i modelli a cui la Siria deve guardare se vuole superare il suo passato: l’Arabia Saudita e Singapore. Entrambi i Paesi hanno saputo «sfruttare le opportunità, creare una cultura tollerante che abbraccia le diverse nazionalità e religioni, e un ambiente capace di attrarre gli investimenti delle grandi aziende. Ma soprattutto sono stati capaci di superare tutte le ideologie morte e pensare solo al futuro». Al-Sharaa ha il vantaggio di «avere tra le mani il libro di storia» per distinguere tra le esperienze fallimentari e quelle che hanno avuto successo. Nei suoi discorsi ha dimostrato di aver «capito bene la lezione e conoscere la strada che sta percorrendo», conclude l’articolo.
Gli arabi respingono la “pace” di Trump
La richiesta rivolta da Trump all’Egitto e alla Giordania di accogliere gli sfollati di Gaza ha suscitato una miriade di commenti critici sulla stampa araba. I quotidiani tradizionalmente vicini alla causa palestinese si sono scagliati contro la nuova amministrazione americana, accusandola di volere «liquidare la questione palestinese». Trump non è diverso da Biden, scrive su al-‘Arabi al-Jadid il giornalista marocchino Mohamed Ahmad Bennis. L’ex presidente ha «sostenuto una brutale guerra di annientamento per 15 mesi», ora il nuovo inquilino della Casa Bianca vuole «liberarsi dell’“incubo palestinese” per sempre» sostenendo un piano in cui «ebraizzazione, insediamento, sfollamento e normalizzazione con i Paesi arabi procedono di pari passo, contribuendo a dividere gli Stati della regione e a consolidare lo Stato occupante come grande potenza regionale». È la fine della «soluzione dei due Stati», conclude l’articolo.
«Il progetto sionista è anche il progetto americano», denuncia il giornalista palestinese Hatem Rashid sullo stesso quotidiano. La pace di Trump è «la pace come la intende Israele», «la pace dello sfollamento, degli insediamenti, dell’annessione e la transizione verso il progetto di una patria alternativa in Giordania per i palestinesi». Il giornalista esorta Amman a coordinarsi con il Cairo e le altre capitali arabe per «formare un muro che impedisca il piano israelo-americano».
L’unica differenza tra Biden e il suo successore è che Trump dice pubblicamente ciò che l’ex presidente era solito dire in segreto, quando un anno fa faceva pressioni sull’Egitto affinché aprisse i confini ai profughi in fuga da Gaza, commenta su al-Quds al-‘Arabi Jamal Zahalqa, politico palestinese, ex membro della Knesset. Oggi i media arabi si scagliano contro Trump, dimenticando che l’idea di trasferire i palestinesi è in realtà «un progetto israeliano, nato contestualmente all’idea sionista, nella convinzione che non fosse possibile realizzarla senza prima cambiare la demografia della Palestina». Nella sua attuale versione applicata a Gaza, «il progetto nasce dalla consapevolezza sionista che esiste uno “squilibrio” nell’equilibrio demografico della Palestina storica, dove il numero di arabi palestinesi e di ebrei israeliani si equivale, con segni di superiorità numerica palestinese», spiega Zahalqa. E poiché rifiuta la soluzione dei due Stati, Israele propende per la soluzione più radicale della «pulizia etnica».
Sempre al-Quds al-‘Arabi rappresenta in una vignetta il fallimento del piano di sfollamento e la resilienza degli abitanti di Gaza. Un palestinese si dirige deciso verso il nord della Striscia issando una bandiera palestinese sulla quale campeggia la scritta «Ripopolamento», mentre un carro armato guidato da Netanyahu si dirige nella direzione opposta sventolando la bandiera israeliana con la scritta «Sterminio».
“Senza uno Stato tutti i palestinesi sono rifugiati”, titola il quotidiano panarabo di proprietà saudita al-Sharq al-Awsat. La storia dal 1948 a oggi insegna che i campi profughi palestinesi non sono luoghi di transizione temporanei, ma sono sempre diventati situazioni stabili. Questo nel tempo ha contribuito a «radicare negli animi il sentimento di rifugiato», commenta l’ex ministro dell’Informazione palestinese Nabil Amr. Quel sentimento, prosegue il discorso, «è una condizione comune a tutti i palestinesi, a prescindere dal luogo nel mondo in cui essi vivono» e avrà fine soltanto quando il palestinese potrà «infilare in tasca una carta d’identità e un passaporto rilasciati dal suo Stato. […] Soltanto allora sentirà di essere un cittadino normale in uno Stato normale».
I timori degli arabi sono giustificati, commenta il giornalista tunisino Ali Qasem sul quotidiano filo-emiratino al-‘Arab: «L’esperienza ci ha insegnato che un palestinese che se ne va dalla Palestina non vi fa più ritorno». Guardando le immagini del grado di distruzione nella Striscia, la proposta del presidente americano di trasferire temporaneamente la popolazione di Gaza nei Paesi limitrofi potrebbe sembrare plausibile. Ricostruire le città con la popolazione presente infatti è impossibile. Resta il fatto però che la ricostruzione richiederà anni, pertanto è alta la probabilità che la proposta di Trump sia una «trappola», finendo per perpetuare una situazione che dovrebbe essere temporanea. Facendo quelle dichiarazioni, Trump non si aspettava certo una reazione diversa da parte araba: ha semplicemente voluto dire al mondo di aver offerto ai palestinesi una soluzione per ricostruire Gaza, che è stata rifiutata dagli arabi. E in effetti, conclude l’editoriale, gli arabi hanno le loro colpe, perché si sono limitati a indignarsi ma non hanno saputo proporre una soluzione alternativa.