A colloquio con Mons. Diego Sarriò, nominato Vescovo da Papa Francesco nella Diocesi di Laghouat, dove si trova la tomba di Charles de Foucauld

Ultimo aggiornamento: 02/04/2025 16:11:50

Intervista a Monsignor Diego Sarrió Cucarella, Missionario d’Africa, a cura di Alessandro Banfi e Marco Pagani (Pime).

 

 

La festa della sua ordinazione episcopale è stata memorabile. Non solo perché è avvenuta a Roma in Vaticano all’Altare della Cattedra di San Pietro, il giorno di San Giuseppe (19 marzo), con i fedeli e gli invitati stretti tra due opere mozzafiato di Gian Lorenzo Bernini. Ma perché alla tradizionale Schola Cantorum si sono per una volta aggiunte alcune suore che all’Offertorio hanno cantato e ballato in swahili il loro ringraziamento. Lo swahili infatti si parla anche in Oman, ultima tappa pastorale di monsignor Diego Sarrió Cucarella, Missionario d’Africa, o come si dice comunemente Padre Bianco, diventato nuovo Vescovo di Laghouat, in Algeria, per la nomina di Papa Francesco. A quel punto tutti hanno capito che uno dei due Vescovi in procinto di essere consacrati dal cardinal Luis Antonio Gokim Tagle (essendo l’altro, monsignor Samuele Sangalli, lombardo di Curia) veniva dall’Africa. Insieme a padre Marco Pagani, che lavora per il Pime in Algeria, abbiamo rivolto al nuovo Vescovo qualche domanda per i lettori di Oasis.

 

Eccellenza, vuole raccontarci qualcosa della sua vita, dal punto di vista della sua famiglia e del suo Paese, la Spagna? Quando ha capito che Dio la chiamava al suo servizio? E come è successo?

Sono nato a Gandía, una città spagnola sulla costa del Mediterraneo, a 65 chilometri a sud di Valencia. Sono il più giovane di quattro figli, mio padre era un fornaio. Quando avevo tredici anni, la mia famiglia si è trasferita nel capoluogo di provincia, lì ho terminato le elementari e ho proseguito con la scuola secondaria. Sia a Gandía che a Valencia ho frequentato le scuole dei gesuiti. La mia educazione alla fede e la mia preparazione ai sacramenti sono avvenute a scuola piuttosto che in parrocchia: da bambino, ricordo che ero affascinato dalle storie che i missionari gesuiti, in vacanza, ci raccontavano delle loro missioni in India, Ciad, Brasile... A scuola, mi piaceva sfogliare le riviste pubblicate dalle varie congregazioni missionarie. Ho anche uno zio gesuita che ha lavorato per molti anni in Africa. Guardando indietro, penso che la preparazione alla Cresima e le lezioni di educazione religiosa che ho avuto nell’ultimo anno di liceo siano stati momenti importanti per la mia crescita spirituale. È stato in quel periodo che ho iniziato a prendere in considerazione la possibilità di una vocazione missionaria: sono stato immediatamente attratto dalla passione dei Missionari d’Africa (i cosiddetti Padri Bianchi) per il continente africano e dal carattere internazionale delle loro comunità.

 

Papa Francesco la manda nel Sahara, nella diocesi di Laghouat. Lei ha già avuto modo di conoscere la diocesi durante il suo soggiorno a Ghardaïa nei primi anni del Duemila. Che ricordi ha di quel soggiorno? E che cosa ci può dire della sua diocesi?

In effetti, anche prima della mia nomina episcopale, la diocesi di Laghouat, in particolare la città di Ghardaïa, occupavano un posto molto speciale nel mio cuore e nei miei ricordi, poiché è lì che ho trascorso i primi anni di sacerdozio. Monsignor Michel Gagnon era allora vescovo di Laghouat, «il vescovo delle sabbie», come lo definì un foglio cattolico dell’epoca. Era sempre in viaggio, per visitare le comunità di tutta la diocesi. Ho imparato molto dai miei confratelli e da altri membri della diocesi che nutrivano un profondo amore per il popolo algerino. È stata anche l’occasione per scoprire l’eredità spirituale di Charles de Foucauld, una figura che conoscevo solo superficialmente prima del mio arrivo. Insomma, anche se non è stato un periodo molto lungo, appena due anni, questo primo soggiorno in Algeria ha avuto un effetto profondo su di me e mi ha permesso di sperimentare le gioie e le sfide della presenza della Chiesa nel sud del Paese. Sono grato a Papa Francesco per avermi dato l’opportunità di tornare nella diocesi in cui avevo lasciato una parte del mio cuore.

 

Si tratta di un territorio immenso, in gran parte desertico…

La diocesi di Laghouat condivide molte caratteristiche con le altre diocesi del Maghreb, ma allo stesso tempo presenta tratti distintivi. Sono Chiese che possono vantare una storia ricca e feconda che ha dato grandi figure alla Chiesa universale. Basta pensare a sant’Agostino d’Ippona, a Tertulliano o alle sante Perpetua e Felicita. Tuttavia, le Chiese attualmente presenti nel Maghreb sono piuttosto la continuazione di una Chiesa arrivata con l’espansione coloniale dell’Europa, che ha introdotto una certa ambiguità nel rapporto con la popolazione locale e nella percezione reciproca. D’altra parte, bisogna riconoscere che, negli ultimi anni, le Chiese del Maghreb hanno progressivamente perso il loro carattere europeo: i fedeli e la nuova generazione di consacrati che operano nella regione sono sempre più eterogenei e provengono principalmente dall’Africa e dall’Asia. La popolazione cattolica si concentra generalmente nelle grandi città, dove lavora o studia. Il numero di cattolici nella diocesi di Laghouat è molto ridotto: poco più di 2.000 nel 2021, su un totale di 5 milioni di persone che vivono nella regione. Se si considera anche la vastità del territorio di cui stiamo parlando, si può affermare che la Chiesa di Laghouat vive pienamente in mezzo al popolo algerino, testimoniando la sua fede cristiana e i valori del Vangelo attraverso la vita concreta.

 

Dopo la sua prima esperienza in Algeria, ha studiato arabo al Cairo e ha proseguito il suo percorso di conoscenza dell’Islam che l’ha portato fino a Roma, dove è diventato preside del PISAI. È giusto dire che questo percorso rappresenta una continuazione di quel primo soggiorno nel Sahara?

In realtà, il mio incontro con l’islam è precedente al primo soggiorno in Algeria. Negli anni della mia formazione ho vissuto per due anni a Khartoum, in Sudan. Era il 1995-1997, prima della divisione del Paese. Lavoravo in una parrocchia nella periferia della città. I nostri parrocchiani erano cristiani del Sud che si erano rifugiati al Nord a causa della guerra. Questa prima esperienza mi ha fatto capire subito che musulmani e cristiani sono capaci del meglio e del peggio; questo mi ha aiutato a evitare di idealizzare. Dopo l’ordinazione sacerdotale, ho trascorso due anni a Ghardaïa, un’esperienza che mi ha permesso di continuare a incontrare i musulmani in un contesto diverso da quello di Khartoum. Nel complesso, è stata un’esperienza positiva, caratterizzata da amicizia e rispetto reciproco. Questo mi ha spinto a voler approfondire la conoscenza della loro tradizione religiosa e della fede che li anima. Sono seguiti diversi anni di studio e lavoro in Egitto, Italia, Tunisia e Stati Uniti. Nel 2014, dopo aver completato il dottorato, sono stato nominato a tempo pieno al PISAI. È stato difficile accettarlo, perché volevo tornare nel Maghreb. Durante questi anni a Roma, la mia consolazione è stata quella di vedere molti studenti del PISAI che si preparavano a vivere a contatto con i musulmani in Nord Africa o altrove, il che mi ha fatto sentire che anche io stavo dando il mio contributo alla missione della Chiesa. Questi anni sono stati molto arricchenti anche perché mi hanno permesso di entrare in contatto con musulmani provenienti da contesti molto diversi dal Nord Africa.

 

Cosa la affascina dell’islam? E in che modo questa conoscenza arricchisce la sua fede cristiana?

Come molti altri cristiani prima di me, ho sperimentato che conoscere e studiare un’altra tradizione religiosa, in questo caso l’islam, in uno spirito di apertura e rispetto, porta alla purificazione e all’intensificazione della propria identità religiosa. Conoscere gli altri dissipa le incomprensioni e le idee sbagliate che abbiamo ereditato da secoli di conflitti e controversie. Questo ci permette di cambiare l’immagine di noi stessi e di purificare la verità su di noi, perché questa verità è sempre legata al modo in cui noi rappresentiamo gli altri. In secondo luogo, quando studiamo a fondo un’altra tradizione religiosa, scopriamo che la nostra non è l’unica ragionevole e aperta a Dio. Se dopo questa scoperta decidiamo di rimanere nella nostra fede religiosa, allora si tratta di una scelta vera, basata su alternative reali e non più solo su rappresentazioni distorte dell’altro.

 

Negli ultimi anni, il dialogo islamo-cristiano è stato segnato dalla Dichiarazione di Abu Dhabi del 2019 e dall’inaugurazione, sempre ad Abu Dhabi, della Casa della Famiglia Abramitica, un luogo in cui si trovano nello stesso posto una moschea, una chiesa cattolica e una sinagoga. Lì ci siamo incontrati l’ultima volta a novembre 2024 per la Conferenza della Fondazione Oasis, lei ci aveva raggiunto dall’Oman… Come vede lo stato di questo dialogo oggi? Pensa che le Chiese del Maghreb possano dare un contributo?

La dichiarazione di Abu Dhabi ha fatto storia, poiché è stata la prima volta che un leader religioso cristiano e un leader religioso musulmano del calibro di Papa Francesco e Ahmad al-Tayyeb firmavano una dichiarazione congiunta. Tuttavia, il messaggio in sé non dovrebbe sorprendere le Chiese del Nord Africa, poiché è in linea con l’insegnamento dei papi precedenti. Più di quarant’anni fa, rivolgendosi ai vescovi nordafricani in visita ad limina il 23 novembre 1981, San Giovanni Paolo II sottolineò che una delle caratteristiche essenziali della vita dei cristiani nel Maghreb era la loro vocazione ad entrare in un costruttivo dialogo con i musulmani. Questo rimane vero anche oggi e quindi faremmo bene a ricordare le parole di incoraggiamento che il Papa rivolse ai vescovi in quell’occasione: «Tengo molto ad incoraggiarvi a proseguire su questa via difficile in cui, anche se le sconfitte possono essere molte, la speranza è sempre più forte. Per mantenerla occorrono convinzioni cristiane molto temprate». In altre parole, la strada del dialogo cristiano-musulmano non è facile e ci sono molti ostacoli da superare: il peso della storia, lo scontro tra due religioni che pretendono di essere universali e missionarie, la radicalizzazione... Per mantenere la speranza, abbiamo bisogno di convinzioni cristiane forti e solide. Mi sembra che una di queste convinzioni sia quella espressa nella dichiarazione Nostra Aetate, secondo la quale, pur proclamando Cristo come «via, verità e vita» (Gv 14,6), in cui gli esseri umani trovano la pienezza della vita religiosa, la Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo nelle altre religioni. Questa è una forte convinzione a cui noi cattolici impegnati nel dialogo con i musulmani dobbiamo sempre aggrapparci per avanzare con tenacia quando il cammino si fa difficile. Se le Chiese del Maghreb hanno molto da condividere con i cristiani di altre parti del mondo riguardo alla loro esperienza, possiamo anche trarre beneficio dall’ascolto delle esperienze degli altri.

 

Nella sua nuova diocesi si trova la tomba di San Charles de Foucauld: la sua figura è ancora un’ispirazione per la missione della Chiesa nel Maghreb?

In effetti, le sue spoglie riposano nel cimitero cristiano di El Menia, dove furono trasferite nel 1929, dopo l’avvio del processo di beatificazione nel 1927. Charles de Foucauld rimane certamente un’ispirazione per la missione intesa come ricerca della fratellanza universale. Basti pensare che lo stesso Papa Francesco lo ha indicato come una delle figure che hanno ispirato la sua enciclica Fratelli tutti. Nel testo, il Papa lo descrive come una persona di profonda fede che, a partire dalla sua intensa esperienza di Dio, ha intrapreso un cammino di trasformazione fino a sentirsi fratello di tutti. Ha orientato il suo sogno di abbandono totale a Dio e il suo desiderio di sentire qualunque essere umano come un fratello verso un’identificazione con gli ultimi, con i quali ha condiviso la sua vita nel deserto. Voleva essere, in definitiva, «il fratello universale», scrive il Papa, ma solo identificandosi con gli ultimi arrivò ad essere fratello di tutti (Fratelli tutti, 287). Per quanto riguarda la missione della Chiesa nel Maghreb intesa in termini di fratellanza e di dialogo autentico, credo che Papa Francesco l’abbia riassunta molto bene nel suo discorso nella spianata della Torre Hassan a Rabat il 30 marzo 2019: «Si tratta di scoprire e accogliere l’altro nella peculiarità della sua fede e di arricchirsi a vicenda con la differenza, in una relazione segnata dalla benevolenza e dalla ricerca di ciò che possiamo fare insieme. Così intesa, la costruzione di ponti tra gli uomini, dal punto di vista del dialogo interreligioso, chiede di essere vissuta sotto il segno della convivialità, dell’amicizia e, ancor più, della fraternità».

 

Per finire, ci può spiegare il senso del suo motto episcopale: «Ponam in deserto viam» (Is 43, 19)?

Per il mio motto, ho scelto queste parole del libro del profeta Isaia, tratte da un passo che annuncia un cambiamento nella situazione degli israeliti, esiliati a Babilonia. Questa parola di Dio rimanda all’esperienza dell’Esodo, evocando la potenza trasformatrice di Dio negli eventi che hanno segnato la nascita di Israele come popolo. Dio annuncia che aprirà una strada nel deserto, simile a quella che aveva aperto attraverso il Mar Rosso. Tuttavia, il ritorno dall’esilio babilonese non sarà possibile senza l’accettazione dei rischi dell’attraversamento del deserto. Dio promette che gli animali selvatici non costituiranno un pericolo e che fornirà acqua per il viaggio. Israele, quindi, è chiamato a rendere grazie.

Il tema del deserto richiama la realtà della diocesi di Laghouat, che si estende su gran parte del Sahara algerino. Il termine «strada» o «via» evoca diverse realtà. In primo luogo, l’Anno Santo giubilare 2025 che ci invita a considerare la nostra vita come un pellegrinaggio di speranza. In secondo luogo, «la Via» è citata più volte negli Atti degli Apostoli in relazione ai primi seguaci di Cristo. In terzo luogo, la vocazione della Chiesa di Laghouat, chiamata a fare strada insieme al popolo algerino, in mezzo al quale vive la propria missione di essere sale della terra. Infine, ci ricorda le speranze e i sogni delle migliaia di migranti che attraversano la diocesi, costretti a mettersi in viaggio alla ricerca di un mondo migliore per sé e per le proprie famiglie. Con questo motto, affido il mio ministero alla forza trasformatrice di Dio, seguendo con umiltà le orme dei miei predecessori e fiducioso nelle promesse divine.