La rivoluzione del 2010-2011 vista da un attivista: il fermento della piazza, la transizione a metà, i molti problemi irrisolti e la voglia di giustizia che neanche il Covid ha soffocato
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:03:54
È stato uno dei tanti giovani scesi in piazza contro la tirannide di Ben Ali. Nel 2015 ha fondato in un quartiere periferico di Tunisi un’associazione che si occupa dei problemi della popolazione: disoccupazione, ingiustizia, estremismo. Oggi insegna filosofia dopo essere stato sindacalista. Intervistato da Viviana Schiavo, Ahmed Sassi racconta l’esplosione rivoluzionaria del gennaio 2011 e tenta un bilancio degli ultimi dieci anni
Ahmed Sassi, parlaci di te e del tuo impegno nella società civile tunisina.
Sono stato tra le migliaia di giovani scesi in piazza nel 2011. All’epoca ero uno studente e facevo parte dell’Union Générale des Étudiants Tunisiens (Unione Generale degli Studenti Tunisini – UGET). Ho partecipato alla maggior parte delle manifestazioni organizzate a Tunisi, prima e dopo la caduta di Ben Ali. Ero presente ai diversi sit-in giovanili, tra cui la Kasbah 1 e la Kasbah 2. Poi sono diventato sindacalista e sono stato eletto nell’Union des diplomés chomeurs (Unione dei laureati disoccupati – UDS) dove sono rimasto per 3 anni. Ora lavoro come insegnante. Ho preso la laurea in filosofia proprio nel 2011.
Nel 2015, insieme ad altre persone, ho fondato un’associazione nel nostro quartiere, la Kabaria, a sud di Tunisi: è uno dei primi quartieri popolari costruiti nel Paese. Il nome dell’associazione è GAMKabaria - Génération Anti-Marginalisation (Generazione Anti-Marginalizzazione). Abbiamo iniziato occupandoci delle grandi tematiche che interessano i giovani: la disoccupazione, l’estremismo violento, la giustizia sociale, ecc. Ora stiamo cercando di lavorare anche in altri rioni popolari. Nel 2019 abbiamo creato una piattaforma, la Plateforme Tunisienne des Alternatives (Piattaforma Tunisina delle Alternative), con un gruppo di militanti di sinistra, scrittori, sociologi e attivisti nel campo dell’agricoltura. L’idea era di creare una rete per continuare a rivendicare i nostri diritti, come facciamo dall’epoca di Ben Ali.
Tu hai preso parte attiva alla rivoluzione del 2011. Cosa ti ricordi di quel periodo?
A partire dal mese di dicembre del 2010, insieme ad altri sindacalisti e attivisti, cercavamo di organizzare delle manifestazioni nelle Università e davanti alla sede centrale dell’UGET, in piazza Mohamed Ali El-Hammi. Ma venivamo spesso picchiati dalla polizia, che cercava di ostacolarci, impedendoci di uscire dalla piazza. Il 27 dicembre ce l’abbiamo fatta, con il sostegno dei sindacalisti, in particolare quelli del settore delle Poste e dell’insegnamento primario e secondario. Abbiamo dato vita a una piccola manifestazione in avenue Habib Bourguiba. Poi di nuovo le cariche della polizia, alcuni militanti sono stati arrestati. Da gennaio, il movimento si è allargato. Eravamo gruppi di studenti, giornalisti, sindacalisti e attivisti
E poi è arrivato il 14 gennaio…
Già. L’esplosione è avvenuta proprio quel giorno. Mi trovavo davanti alla sede centrale dell’UGET. Era partita una manifestazione verso il Ministero degli Interni. La protesta era davvero enorme, la folla era stanca del sistema. C'erano già stati quasi 90 martiri, dal 17 dicembre, data dell’inizio delle proteste a Sidi Bouzid. C’era rabbia ovunque, c’era collera.
Ricordo che c’era il funerale di un martire. Il corteo passava davanti al Ministero degli Interni. Subito dopo sono iniziati i colpi di pistola e la folla ha cominciato a disperdersi. Fuggivano tutti. Da alcune auto spuntavano fucili puntati verso i manifestanti. La tendenza era a colpire soprattutto i giornalisti. Alcuni giovani sono stati arrestati o picchiati dalla polizia, altri hanno resistito. Ma non c’erano solo giovani, erano presenti persone di tutte le età. Intorno alle 17-17.30 del pomeriggio era pieno di gente che tornava a casa a piedi. Quel giorno l’ex presidente tunisino Ben Ali ha lasciato il Paese. Nei giorni seguenti abbiamo continuato a manifestare. Poi, tra la fine di gennaio e il mese di febbraio, abbiamo lanciato i sit-in della Kasbah 1 e 2. Ed è iniziato un lungo processo di transizione.
Quali erano le vostre principali rivendicazioni?
Il movimento popolare del 2010 e del 2011 avanzava due tipi di rivendicazioni. Alcune erano direttamente politiche: contro la dittatura, per la sovranità popolare, per la libertà e la democrazia. Altre, ancora più decisive, miravano a una profonda trasformazione del sistema sociale ed economico. Ad ogni modo, la tendenza degli attivisti e dei giovani che volevano cambiare il sistema era quella di recuperare quel cuore sociale che la dittatura aveva cercato di soffocare, impedendo ogni forma di riunione. Non avevamo la libertà di organizzarci, di esprimerci e di rivendicare i nostri diritti. Abbiamo cercato di capire cosa potevamo ottenere da questa rivoluzione. Con i sit-in volevamo recuperare gli spazi più sensibili del Paese. Abbiamo fatto molti appelli e i giovani si sono radunati in tutta la Tunisia, a Tataouine, Kasserine, Sidi Bouzid, fino a Sousse. Ogni giorno, alla Kasbah, abbiamo cercato di animare dei dibattiti e di rivendicare la difesa della rivoluzione tunisina.
Poi è arrivata la politica. Alcuni partiti politici sono emersi dalla clandestinità. Cercavano di capire cosa fare dopo la caduta di Ben Ali. Ma vedevano solo le rivendicazioni politiche. Hanno tentato di cambiare il sistema politico affinché la Tunisia si rimettesse in pista, iniziasse a svilupparsi e potesse avere un sistema economico equo. Il problema è che tutto è stato fatto a porte chiuse. Quindi le proteste e le manifestazioni sono continuate, coinvolgendo tutte le categorie sociali.
Qual è il tuo bilancio della Rivoluzione, a dieci anni di distanza? Quali obiettivi sono stati raggiunti e quali invece restano ancora lontani?
A dieci anni di distanza, il cambiamento tarda a realizzarsi, principalmente per l’incapacità delle forze politiche. Le condizioni in cui vive la popolazione sono ancora drammatiche, direi più degradate che sotto il regime di Ben Ali. La maggior parte degli uomini di affari e dei carnefici del vecchio regime, quelli che potremmo chiamare i “figli legittimi” di Ben Ali, sono ancora al potere. Il Paese oggi vive una crisi economica, politica e sociale. È un momento di delusione. Ma c’è ancora un movimento, c’è ancora quel cuore sociale, che si esprime, che urla gli stessi slogan della rivoluzione. Gli attivisti cercano di rendere la società libera e cosciente, di spronarla a trovare delle vie d’uscita ai suoi principali problemi, che ora sono soprattutto di natura economica e sociale. Oggi possiamo dire che la società tunisina è più libera, può organizzarsi, dire ciò che pensa, ma entro dei limiti: alcuni argomenti restano ancora tabù, come la questione della religione e delle minoranze.
Al livello della società civile questa crisi ha provocato una presa di coscienza. Sempre di più si reclama un altro modello di sviluppo. Purtroppo abbiamo un po’ perso il polso della società: non possiamo avere una fotografia dettagliata della situazione tunisina rispetto al passato, perché il sistema di Ben Ali falsificava i dati economici e sociali. La società civile ha cercato di portare avanti quest’analisi, concentrandosi sulle realtà locali e sui principali settori economici, come l’agricoltura. Dopo Ben Ali cosa è successo davvero in campo agricolo? Viviamo una profonda crisi nel settore alimentare, in termini di materie prime e di prodotti. La tendenza dello Stato tunisino all’esportazione di tutti i prodotti agroalimentari ha impoverito il mercato interno e ha fatto diminuire il potere d’acquisto delle famiglie, facendo aumentare i prezzi dei prodotti, come l’olio d’oliva per esempio. Questa tendenza non ha aiutato l’economia tunisina a svilupparsi e a progredire. Nemmeno negli altri settori, quello industriale e il terziario. Stessa cosa per il commercio.
Il sistema di Ben Ali manipolava ai propri fini gli uomini di affari, gli imprenditori, i possidenti tunisini. Ma dopo la rivoluzione queste stesse lobby sono diventate manipolatrici nei confronti dei partiti politici tunisini, finanziandoli e orientandoli, a livello nazionale e geopolitico. Hanno saputo indirizzare il Paese a loro vantaggio, verso il modello economico che conveniva loro. Ciò ha portato all’aumento dei disoccupati e alla crisi economica in diversi settori. Per questo oggi i tunisini manifestano ovunque, protestano per tutti questi problemi: le infrastrutture, le condizioni degli ospedali, la situazione sanitaria, ecc...
A tutto ciò si aggiungono i conflitti internazionali. Il terrorismo ha colpito anche la Tunisia. Infine ci sono le ingerenze delle multinazionali e delle potenze straniere, come la Turchia, gli Stati Uniti, la Francia e tutti gli altri Paesi che sfruttano le dinamiche politiche della nostra regione per il loro personale tornaconto. Eppure, né il terrorismo, né la falsificazione mediatica, né la povertà o la crisi della democrazia partecipativa hanno potuto imprigionare la società. Oggi c’è ancora questa voglia di libertà e di giustizia sociale, anche con il Covid, anche in quarantena. Credo che questo sia il nostro principale punto di forza. Dobbiamo cercare di collaborare con tutte le menti libere del mondo per avere dei sistemi più giusti, più equi, più degni, per tutti gli esseri umani. Magari passeranno anni, ma credo che arriverà il momento in cui tutto questo cambierà.
Secondo te, l’opinione pubblica europea e in generale i Paesi europei avrebbe dovuto fare qualcosa in più per aiutare gli attivisti tunisini?
Non so se avrebbero dovuto o potuto fare qualcosa. Credo ci siano diverse problematiche, diverse cause da difendere. Recentemente il capo di Stato francese, in alcune sue dichiarazioni, ha collegato le migrazioni agli atti terroristici e, più in generale, molti capi di Stato europei hanno delegittimato il fenomeno migratorio. Noi non siamo affatto d’accordo. Credo che sia necessario difendere l’uguaglianza, essere contro il razzismo e contro questo spirito naif che circoscrive il problema del terrorismo al solo contesto islamico e che separa l’umanità esclusivamente per difendere una razza e un colore. Credo che questa sia una missione da intraprendere in Europa e che sia tra le priorità degli attivisti e dei giovani progressisti europei: devono riunirsi ed essere contro tutti gli estremismi e contro gli atti razzisti. Non bisogna abbassare la guardia, né perdere la speranza. Penso che la rivoluzione tunisina abbia liberato questa enorme volontà di cambiamento per tutti, questo grande desiderio di libertà per tutti gli esseri umani in tutti i Paesi.
Ritornando alla Rivoluzione dei gelsomini, che cosa ha rappresentato per voi Mohamed Bouazizi?
Secondo me, il gesto di Mohamed Bouazizi è stato la goccia che ha fatto traboccare il vaso. È stata una goccia, ma è stata necessaria. Un essere umano che ha voluto rivendicare i suoi diritti immolandosi. Il suo gesto rappresenta un rifiuto di questo sistema economico, della marginalizzazione, dell’impoverimento. Ha scelto di rivendicare i suoi diritti. È un modo per dire: esisto, rifiuto di essere così, di essere nella società che avete costruito e in cui avete creato delle regole e delle leggi per imprigionare il popolo. Ma noi ci teniamo alla vita, non vogliamo immolarci. Vogliamo che siano quelli che ci danno alle fiamme ogni giorno, a doversi immolare.
Ti faccio un altro nome: Lina Ben Mhenni. Cosa rappresenta per te?
La rivoluzione tunisina ha creato molte icone. Tra queste senz'altro c’è Lina Ben Mhenni. Era un’amica, era una donna coraggiosa e libera, che non ha mai abbassato la guardia. Non si è fatta disorientare dal bombardamento mediatico o dai conflitti tra islamisti e modernisti, creati ad arte dal sistema nella società tunisina. Lina era con il suo popolo, era la voce del suo popolo. Non ha voluto essere come gli intellettuali, lei era con gli ultimi della società. Lo ha espresso coi suoi testi, con le manifestazioni, con le sue azioni. Alla fine della sua vita, aveva cercato di raccogliere migliaia di libri per creare delle biblioteche nelle carceri tunisine. Basterebbe questo per rappresentare la grandezza di questa donna. Anche se non c’è più, ci sono centinaia di Lina che sono presenti, ci sono le sue azioni, questa visione della libertà che continua: difendiamo la libertà, difendiamo l’uguaglianza, la giustizia anche se siamo soli. Tutti i martiri tunisini che hanno seguito la sua strada hanno fatto sì che lo stesso popolo tunisino, la stessa società tunisina diventasse un’icona, rappresentandola nel modo migliore.
Quale futuro vedi per la Tunisia?
Innanzitutto, credo che il futuro della Tunisia necessiti di un’approfondita analisi sociale ed economica. Penso che sia necessario avere una fotografia della situazione reale per poter poi proporre delle alternative. Dovremmo concentrarci su dei settori precisi, analizzarli ed elaborare delle possibili soluzioni, che difendano la sovranità nazionale, la dignità dei lavoratori, dei giovani e che portino la Tunisia a risolvere i suoi problemi più pressanti nei settori sanitario, educativo, dei trasporti, della produzione alimentare. Fino ad ora, purtroppo, i partiti politici non sono riusciti a proporre un sistema economico nuovo che permettesse alla Tunisia di uscire da questa crisi.
La crisi attuale gioca su più livelli. C’è la crisi politica: io credo che la democrazia partecipativa abbia veramente fallito in Tunisia. Esistono delle proposte di democrazia diretta soprattutto a livello locale, ma ci rendiamo conto che la nostra partecipazione al processo decisionale è veramente difficile. Non perché non presentiamo delle alternative, ma perché per poter avere un potere decisionale, anche a livello locale, bisogna appartenere a uno dei partiti politici che governano il Paese. Anche se fai dei tentativi, se costruisci delle piattaforme parallele a quelle dello Stato e provi a proporre delle soluzioni, ti scontri col muro della burocrazia e del cattivo funzionamento dell’amministrazione tunisina.
A questo si aggiunge la grande crisi della rappresentanza parlamentare. Le coalizioni cambiano continuamente. Prima delle elezioni i partiti si insultano, si scontrano e dopo le elezioni tutti quanti si riuniscono. Alcuni partiti sono nemici nelle elezioni e poi si coalizzano per i loro interessi.
Io credo ci sia bisogno di un’alleanza sociale che aiuti la Tunisia a rialzarsi e a costruire il suo sistema di sviluppo.
Su che cosa dovrebbe fondarsi questo modello alternativo?
Penso che, da questo punto di vista, il nostro pilastro e la nostra ricchezza sia l’agricoltura. In più abbiamo una grande base di piccole e medie imprese che sono attualmente svantaggiate dal sistema e non possono svilupparsi. Queste imprese potrebbero trainare lo sviluppo economico tunisino, se potessimo proteggerle, dar loro più diritti e più agevolazioni, a livello amministrativo e della circolazione dei prodotti. Inoltre, è necessario regolarizzare la situazione di coloro che lavorano nel settore informale, che rappresentano più del 50% della forza lavoro tunisina. Tutti i governi e i capi di Stato tunisini hanno promesso di trovare delle soluzioni per questo settore. Ma fino ad ora nessuno è riuscito veramente a fare delle leggi che vadano in questa direzione. La sfida è immensa e credo che noi, come attivisti, come membri della società civile, a livello locale e nazionale, e come cittadini, non possiamo vincerla da soli, ma in partenariato con tutti quegli attori, individui e associazioni, che vorranno unire le loro forze alle nostre. La nostra missione è creare spazi di dibattito pubblico su questi problemi e non lasciare campo libero ai partiti dominanti.
C’è un conflitto in atto, tra i partititi “classici” tunisini (diventati tali dalla rivoluzione in poi) e la via del cambiamento, del rinnovamento. Già nelle elezioni del 2019 abbiamo assistito ad un grande crollo di questi partiti. È un sintomo del fatto che la società tunisina è sempre più cosciente di quello che succede all’interno e all’esterno del Paese. E si indirizza verso i più onesti, che potremmo considerare il futuro della Tunisia. Anche se fino ad ora abbiamo visto che è davvero molto difficile cambiare il sistema, resta il lavoro di tutti questi organismi. Facciamo quel che possiamo con i nostri mezzi e quello che possiamo è riunire le nostre forze per offrire delle alternative e mostrare la strada al prossimo che verrà e che vorrà veramente costruire un Paese migliore, più giusto, più degno, in cui tutti possano veder riconosciuti i propri diritti.
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