Dopo l’attacco del 7 ottobre, Erdoğan ha cercato di mantenere una posizione prudente. Ma ragioni di politica interna e considerazioni elettorali l’hanno spinto a schierarsi apertamente con i palestinesi. Il suo Paese è così destinato a mantenere una collocazione sempre più instabile tra Oriente e Occidente
Ultimo aggiornamento: 15/03/2024 10:40:58
Con la loro violenza inaudita, i brutali attacchi di Hamas del 7 ottobre scorso contro Israele hanno provocato un’ondata di choc estremamente polarizzante, nei Paesi vicini e nella maggior parte della comunità internazionale. In Occidente come in Oriente, al Nord come al Sud, la scelta di una parte rivela spesso una debolezza, per cui lo slancio di solidarietà viene strumentalizzato a beneficio dei propri interessi. Così sono molti a brandire la causa palestinese come simbolo di resistenza dei dominati contro i dominanti. In un contesto tanto definito, paradossalmente la Turchia proclama forte e chiaro la propria sensibilità pro-palestinese proseguendo attivamente un processo di normalizzazione delle relazioni politiche ed economiche con lo Stato ebraico.
Dopo aver inizialmente reagito con moderazione, e non essendo riuscita a imporsi come mediatrice, la Turchia ha rapidamente preso un’altra direzione, schierandosi apertamente con i palestinesi e criticando la politica dello Stato d’Israele. Quali sono le ragioni e quali saranno le conseguenze dell’atteggiamento turco in questo conflitto? Quest’articolo cerca di fornire degli elementi di risposta.
La Turchia nell’equazione israelo-palestinese
La Turchia fu tra i primi Paesi musulmani a riconoscere lo Stato d’Israele sin dalla creazione di quest’ultimo nel 1948. Progressivamente, poi, ha abbracciato la causa palestinese. Quando nel 2003 Erdoğan è arrivato al potere come primo ministro, l’establishment militare kemalista tradizionalmente pro-occidentale e pro-israeliano ha visto poco a poco erodersi la propria influenza[1]. Ankara ha mantenuto comunque relazioni corrette con Israele, nonostante l’ascesa dell’Islam politico turco a partire dagli anni ’90 sotto la bandiera di Necmettin Arbakan. In Turchia, però, gli islamisti non erano gli unici a esibire la propria simpatia per la causa palestinese. Già negli anni ’70, infatti, la sinistra turca rivoluzionaria, influenzata dall’Unione Sovietica, aveva adottato un atteggiamento terzomondista favorevole ai palestinesi.
L’evoluzione generale dell’opinione turca in favore dei palestinesi è culminata in modo spettacolare nel gennaio del 2009. In quel momento, la diplomazia turca era all’opera per trovare una via d’uscita dal conflitto, quando l’esercito israeliano organizzò una nuova incursione punitiva violenta nella Striscia di Gaza. Sentendosi ingannato e tradito dallo Stato ebraico, il primo ministro Erdoğan approfittò del palcoscenico della conferenza di Davos per definire «assassino» lo Stato d’Israele. L’accusa provocò un’ondata mondiale di choc, e la Turchia apparve allora come il principale difensore della causa palestinese[2]. Nel maggio del 2010 scoppiò una nuova crisi, ancora più violenta, quando un convoglio umanitario turco, organizzato da una ONG vicina al potere, tentò di infrangere il blocco della Striscia di Gaza. Le forze israeliane presero d’assalto le navi, provocando la morte di dieci militanti e la rottura totale delle relazioni turco-israeliane[3].
Ci sarebbero voluti anni di mediazione americana e la presa di coscienza turca della necessità di uscire dal proprio isolamento perché Ankara accettasse la normalizzazione con Israele. I due Paesi si erano scambiati gli ambasciatori da meno di un anno. Erdoğan e Netanyahu si erano incontrati nel settembre del 2023 a New York a margine della riunione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. E Netanyahu era atteso in visita ufficiale in Turchia nel novembre del 2023. La riconciliazione con Israele aveva due obiettivi per Ankara: uscire dall’isolamento diplomatico nella regione, dovuto principalmente alla sua ingerenza in Siria e in Libia, e stringere nuove relazioni economiche, e in particolare energetiche, con Israele. Favorire, attraverso la Turchia, l’esportazione del gas israeliano recentemente scoperto verso il mercato europeo[4] faceva parte del piano di salvataggio dell’economia turca, colpita da una crisi acuta.
Se le relazioni con Israele rispondevano ad ambizioni economiche, il sostegno alla causa palestinese obbedisce a imperativi essenzialmente ideologici e identitari fortemente presenti in seno alla società e allo Stato turchi. Ankara sostiene infatti l’Autorità palestinese, ma appoggia anche Hamas, e a caro prezzo, dal momento che gli alleati occidentali della NATO lo considerano un movimento terrorista e criticano la posizione turca. Questa simpatia turca si spiega col fatto che, in generale, per l’opinione pubblica di sinistra essa è segno di una posizione anticoloniale, mentre per le frange islamiste e nazionaliste è una manifestazione di solidarietà islamica. Fedele alla sua politica di solidarietà con i movimenti islamisti in tutto il mondo, l’AKP non considera Hamas un movimento terrorista al contrario dei suoi alleati a partner occidentali. Così come l’islamista sudanese Omar al-Bashir, perseguito dalla Corte penale internazionale per genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra in Darfour, era stato accolto in Turchia come una persona rispettabile, Hamas e alcuni suoi dirigenti sono ospitati e trattati con benevolenza dal governo di Erdoğan. Per quest’ultimo, tale politica di sostegno, protezione e ospitalità offerta a Hamas è naturale e incondizionata. Preoccupato di preservare la propria immagine di difensore degli oppressi, soprattutto quando si tratta di musulmani, Erdoğan è costretto a sostenere la causa palestinese, chiunque ne siano gli interpreti. D’altronde, Hamas non è la sola organizzazione di questo tipo ad essere accolta in Turchia. Altri membri della Fratellanza musulmana, siriani, sudanesi, egiziani, e altri movimenti islamisti vicini ai Fratelli musulmani beneficiano della protezione turca. Istanbul, dopo il fallimento delle Primavere arabe, tradottosi ovunque in una forte repressione nei confronti dei militanti dell’Islam politico, è diventato un luogo d’esilio e di attivismo per gli islamisti di tutto il mondo arabo.
Questa politica turca del “ma anche” è andata in frantumi con gli attacchi del 7 ottobre. Perché? E con quali conseguenze?
La Turchia di fronte agli attacchi
La violenza degli attacchi e della repressione israeliana ha esacerbato all’estremo la polarizzazione tra i due campi, destabilizzando i fautori del “ma anche” come Erdoğan. Consapevole che la Turchia ha bisogno di buone relazioni con Israele, ma impossibilitato a rinunciare alla sua politica di solidarietà con i palestinesi, il presidente turco ha adottato un atteggiamento moderato quando si è espresso per la prima volta sulla questione. Ha infatti chiamato i contendenti a dar prova di dialogo e concertazione. Parallelamente, la diplomazia turca ha subito stretto contatti con diversi Paesi della regione, con lo scopo di agevolare una soluzione pacifica e rapida del conflitto. Tuttavia, a partire dal 17 ottobre, si è osservato un cambiamento nell’atteggiamento turco. Il 17 ottobre non è una data qualunque. È in quel giorno, infatti, che un enorme esplosione all’interno dell’ospedale al-Ahli ha provocato la morte di diverse centinaia di persone[5]. Anche se le circostanze e le responsabilità esatte di quest’esplosione rimangono incerte, la brutalità dell’attacco ha finito per screditare la politica tiepida del “ma anche”. Così, il 24 e il 28 ottobre il presidente Erdoğan ha cambiato il tono della posizione turca. Durante una riunione del gruppo del suo partito al parlamento turco, ha dichiarato che «Hamas non è un’organizzazione terroristica, ma un movimento di liberazione che legittimamente vuole difendere il proprio territorio»[6]. Qualche giorno più tardi, in occasione di un’immensa manifestazione a favore della causa palestinese organizzata dal suo partito a Istanbul, si è spinto oltre nella critica, accusando Israele di essere uno Stato terrorista e gli occidentali di complicità nei suoi crimini[7]. Queste dichiarazioni hanno smentito tutte le ipotesi di una mediazione turca. Si tratta di un cambiamento che può essere spiegato in diversi modi.
Il sostegno di Erdoğan alla causa palestinese, e anche ad Hamas, pur con la condanna della violenza barbara del 7 ottobre, non è in alcun modo sorprendente o eccezionale in Turchia. Come abbiamo visto, la causa palestinese genera consenso in Turchia per diverse ragioni, alla destra e alla sinistra dello scacchiere politico. La sinistra e l’estrema sinistra simpatizzano coi palestinesi in nome della lotta anticoloniale. Anche la destra laica li sostiene, ma con un po’ meno entusiasmo. Ma sono soprattutto le diverse correnti islamiste a mobilitarsi a favore della Palestina. Erdoğan non avrebbe quindi potuto non criticare Israele senza deludere la propria base e tutta la società turca.
Non bisogna infatti trascurare la dimensione interna ed elettorale. Nel marzo del 2024 si terrano le elezioni municipali che, per quanto locali, avranno una portata nazionale. Erdoğan spera che il suo partito possa tornare in possesso delle grandi città, Ankara e Istanbul. E a questo scopo utilizza la causa palestinese per emarginare e indebolire i piccoli partiti islamisti con i quali non è alleato.
Tuttavia, nonostante la virulenza delle critiche verso Israele, si percepisce qualche rimpianto in questa posizione, probabilmente adottata controvoglia. Erdoğan sa che, così facendo, ipoteca allo stesso tempo la cooperazione economica con Israele e le sue chance di riabilitazione sulla scena diplomatica regionale e internazionale. Eppure, nonostante la necessità di una politica estera conciliante, Erdoğan si è lasciato sopraffare dall’emozione suscitata dal carattere inaccettabile della violenta repressione israeliana. In un primo momento l’Occidente è sembrato concedere carta bianca a Israele per la propria autodifesa. È una posizione comprensibile tenendo conto delle azioni di Hamas, ma i fatti sono percepiti in modo molto diverso nel mondo musulmano. La violenza degli attacchi di Hamas pare trovare una giustificazione nella stessa violenza decennale della politica israeliana di colonizzazione e di umiliazione. Detto altrimenti, il fatto che l’Occidente abbia adottato una posizione eccessivamente, per non dire esclusivamente, pro-israeliana ha rilanciato la critica che ne ha fatto Erdoğan. Sono molti in Oriente, e non solo in Turchia, a condividere profondamente ciò che Erdoğan dice forte e chiaro a proposito d’Israele e dell’Occidente. Erdoğan si trova così (o almeno aspira) a essere il portavoce dell’Oriente musulmano.
Due punti sono particolarmente inudibili e restano incompresi in Occidente. Nel suo discorso alla grande manifestazione pro-palestinese, il presidente turco ha usato parole che hanno scioccato in Occidente, ma non in Oriente: «l’Occidente ha un debito verso Israele per via dei crimini commessi contro gli ebrei in Europa, e in particolare della Shoah». Dal momento che la Turchia non è stata coinvolta in queste atrocità, essa non ha alcun debito verso Israele e non deve dar prova di compiacenza nei suoi confronti. In effetti, in Turchia tutti lo sanno e lo ripetono all’infinito, quando gli ebrei sono stati espulsi dalla Spagna è nell’Impero ottomano che si sono rifugiati[8]. Erdoğan ha usato le stesse parole e lanciato le stesse accuse, ma con maggiore insistenza, durante la sua visita ufficiale in Germania e il suo incontro con il Cancelliere Olaf Scholz. Nel mondo musulmano c’è infatti il sentimento diffuso che i palestinesi paghino il prezzo delle ingiustizie commesse dagli occidentali nei confronti degli ebrei. E il fatto che ogni critica della politica israeliana di occupazione, di colonizzazione e di repressione sia percepita come un atto antisemita è vissuto come un’ulteriore ingiustizia. Se c’è antisemitismo, questo si trova nel mondo cristiano sin dai primi tempi della cristianità, da quando gli ebrei sono stati accusati di aver «ucciso Gesù». È invece accertato che prima della creazione dello Stato ebraico l’antisemitismo era diffuso in Occidente ma era quasi assente nel mondo musulmano.
L’altro sentimento, ugualmente diffuso nel mondo musulmano e fatto proprio da Erdoğan, è la convinzione che esista un legame intrinseco tra Occidente e Israele. Lo Stato ebraico è percepito come una creazione dell’Occidente, come un suo prolungamento in un mondo musulmano che dalla fine dell’Impero ottomano ne subisce l’aggressione. Questa confusione implicita tra Israele e l’Occidente è peraltro un’idea corroborata dal modo in cui i media occidentali trattano l’attualità israelo-palestinese[9]. Gli attacchi di Hamas, così come la causa palestinese in generale, sono infatti descritti come minacce non solo per Israele, ma per tutto l’Occidente. Inconsapevolmente, in questa equazione Israele è rappresentato come un isolotto di libertà e democrazia aggredito da palestinesi assimilati a un Oriente violento e barbaro.
Una frattura sempre più ampia tra Occidente e Oriente, tra Nord e Sud
All’inizio della crisi, la Turchia poteva forse pretendere a un ruolo di mediatore nel conflitto, sulla base delle relazioni intrattenute tanto con Hamas che con lo Stato d’Israele. La trasformazione del conflitto in guerra aperta, ma anche la portata inaudita della reazione israeliana, peraltro in parte responsabile con la sua politica di colonizzazione e occupazione della barbarizzazione di Hamas, e soprattutto il sostegno incondizionato a Israele da parte di un Occidente che non è né guarito né è stato assolto dalla sua colpa originaria, hanno provocato la reazione ipercritica di un Erdoğan rinfocolato e trascinato da un’opinione pubblica sopraffatta dall’emozione. Che lo si voglia o no, l’Occidente ha una parte di responsabilità nella polarizzazione del dibattito e della guerra. E in mezzo al clamore la Turchia si fa portavoce dei senza voce.
Prendendo posizione in questo modo, Ankara perde ogni possibilità di porsi come mediatrice neutrale. E visto che il denaro parla ai cannoni più della ragione, questo ruolo sembra ormai affidato al Qatar e all’Egitto, dal momento che il primo finanzia il governo di Hamas (con l’avallo d’Israele e degli Stati Uniti, i quali quando serve chiudono gli occhi sui suoi legami con un’organizzazione terrorista), mentre il secondo, in quanto confinante con la Striscia di Gaza è immediatamente interessato alla sicurezza dei territori e delle popolazioni martoriati.
D’altronde, si rimprovera alla Turchia di fare il doppio gioco, esitando tra Occidente e Oriente, quando spesso è l’Occidente a tenerla a distanza. Questa nuova frattura lo testimonia un’altra volta. A seconda delle questioni e degli interessi di ognuno, la polarizzazione del mondo si esprime in una geografia fluttuante tra l’asse Est-Ovest e quello Nord-Sud. A essere costante è il rapporto tra dominanti e dominati. La Turchia è, per sua natura, e resterà allo stesso tempo musulmana e solidale nei confronti del mondo islamico da un lato e, per la sua storia e la sua reinvenzione moderna, sospesa tra Oriente e Occidente dall’altro. Le sue relazioni complicate con un mondo occidentale immobilizzato dalla sua intolleranza e dalle sue preferenze e giudicato troppo “giudaico-cristiano” sembrano spingerla sempre più verso un Sud emergente ma dominato da un Nord nel quale la Turchia non si riconosce più per davvero. Persistere in questa collocazione instabile e difficile tra Oriente e Occidente è il suo destino, consolidare il proprio ruolo nei Sud del mondo che le sono vicini è la sua sorte.
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