A partire dalla fine degli anni ’90, Ankara ha iniziato a rivolgere la propria attenzione all’Africa. Questa politica ha poi ricevuto un forte impulso da parte del presidente Erdoǧan, che ha fatto leva sull’islam per estendere l’influenza del suo Paese
Ultimo aggiornamento: 11/09/2024 12:33:57
La contestazione e l’arretramento dell’influenza delle ex potenze coloniali europee nel continente africano stuzzicano gli appetiti, a volte pantagruelici, di nuovi Paesi finora assenti dal panorama geopolitico. Mentre la presenza francese è messa in discussione in Mali, Niger e Burkina Faso, altri Paesi come la Russia, la Cina, l’India, Israele e la Turchia sembrano trovarvi un’accoglienza calorosa. Nel caso specifico della Turchia, oggetto di questo articolo, l’interesse per l’Africa risale a circa vent’anni fa, ma si è trasformato in una politica concreta e ha acquisito maggiore visibilità solo negli ultimi dieci anni. Il carattere distintivo dell’azione turca nel continente africano è l’approccio multisettoriale, che include la dimensione economica, quella politica, quella culturale, quella religiosa e persino quella militare. In questo ampio ventaglio di possibilità, favorito dalla congiuntura internazionale, la dimensione culturale e religiosa, racchiusa nel concetto di soft power, ci sembra la più interessante da analizzare, perché riguarda l’iniezione nel lungo periodo di idee e pratiche, e testimonia di un’ambizione forte e duratura. Questo articolo si prefigge dunque di delineare le grandi linee della politica di influenza turca nei diversi contesti del continente africano.
L’arrivo tardivo della Turchia in Africa
Erede dell’Impero ottomano, la Turchia conosce abbastanza bene il Nord Africa e un po’ il Corno d’Africa, ma per molto tempo non si è mai avventurata oltre il Sahara. Questo schema è stato mantenuto a lungo prima che Ankara osasse tentare oltre la propria fortuna. Si è dovuto attendere il 1998 perché il governo dell’epoca, forte dei successi ottenuti da poco nello spazio post-sovietico del Caucaso e dell’Asia centrale, lanciasse una strategia per l’Africa comprendente anche la regione sub-sahariana[1]. La crisi economica che colpì duramente la Turchia in quel periodo impedì tuttavia di ottenere dei risultati convincenti. I pianeti si allineano nel 2002, con l’arrivo al potere dell’AKP. Forte della sua giovinezza politica e sicuro di sé, Erdoğan attua una politica estera audace, anche in Africa. Va detto che il contesto politico ed economico turco dell’epoca contribuisce a lanciare questa strategia. Il Paese ha superato la crisi e conosce un periodo di calma dalle tensioni sociali e politiche come mai prima nella storia della Repubblica[2]. In breve tempo, il numero di ambasciate turche in Africa passa da 12 a 41[3], mentre il volume degli scambi commerciali aumenta di otto volte tra il 2003 e il 2023[4]. In generale, l’ingresso nel mondo globalizzato degli imprenditori economici turchi, ma anche di quelli culturali e umanitari, contribuisce a esportare in tutto il mondo, e in particolare in Africa, l’immagine di un modello turco laico e liberale[5]. Attrattività, influenza e soft power sono allo stesso tempo causa ed effetto di questa apertura turca verso il mondo.
Gli anni 2000: la Turchia alla conquista dell’Africa
Abbiamo la spiacevole abitudine di riservare la nozione di soft power alla grande potenza americana o a quelle europee, ma in realtà ogni Paese è potenzialmente detentore di una forma di influenza attraverso la cultura, la lingua, le idee o la religione. Nel caso della Turchia, la nozione di soft power diventa rilevante soprattutto con la fine della Guerra Fredda. Dal blocco orientale emergono infatti dei nuovi Paesi sulla scena internazionale, e la Turchia, per via del suo passato ottomano, fa leva sulla sua prossimità storica ai Balcani e sulla sua affinità etno-linguistica e culturale con i popoli turchi del Caucaso e dell’Asia centrale (Azerbaigian, Turkmenistan, Uzbekistan, Kazakistan e Kirghizistan)[6].
Inoltre, gli sconvolgimenti dell’ordine internazionale, la globalizzazione, ma anche i cambiamenti interni alla Turchia incoraggiano la proiezione di quest’ultima oltre la tradizionale zona di influenza, in particolare in Africa. L’esportazione del soft power turco in Africa e altrove si basa su strumenti creati dalla diplomazia pubblica, come la TIKA (Türkiye Isbirligi ve Kalkinma Ajansi), l’agenzia per la cooperazione economica e lo sviluppo, le cui attività si estendono anche ai settori della cultura, dell’educazione e del patrimonio. Vi è poi la YTB (Yurtdışı Türkler ve Akraba Topluluklar Başkanlığı), la Direzione per la cooperazione con le comunità turche e affini all’estero. La YTB persegue una politica d’influenza incoraggiando migliaia di studenti, in particolare africani, ad andare a studiare in Turchia. Di conseguenza, il numero di studenti africani con borsa di studio in Turchia è aumentato in maniera esponenziale, arrivando a superare attualmente le 60.000 unità[7]. Esistono inoltre gli istituti Yunus Emre, preposti all’insegnamento del turco in tutto il mondo e in misura crescente in Africa, dove la domanda è forte grazie allo sviluppo di molti legami con la Turchia e alle opportunità di formazione e carriera offerte da questi istituti. Va ricordata, infine, la Fondazione Maarif, un organismo statale che sovrintende alla gestione di centinaia di scuole turche. La fondazione si è trovata a svolgere un ruolo più importante dopo la rottura creatasi tra lo Stato turco e la galassia di Fethullah Gülen, che aveva svolto un ruolo pionieristico nello stabilire una presenza culturale ed educativa turca in Africa all’inizio degli anni 2000[8]. Per molto tempo, il movimento di Fethullah Gülen è stato infatti il più importante attore privato del soft power turco, per quanto non l’unico. Altri movimenti religiosi, in particolare le confraternite sufi espressione della Naqshbandiyya, continuano a giocare un ruolo cruciale nella diffusione dell’influenza turca in Africa e altrove.
L’islam, strumento principale del soft power turco in Africa
Le mie ricerche sulla presenza turca in Africa mi hanno portato a effettuare indagini di terreno tra gli attori turchi nel continente africano e tra gli studenti africani in Turchia. Questi ultimi, alla domanda «perché hai scelto di studiare in Turchia?», il più delle volte rispondono «perché la Turchia è un Paese musulmano, moderno e sviluppato», aggiungendo che «il suo presidente, Erdoğan, difende i musulmani nel mondo». Questa affermazione, anche se riguarda solo i giovani africani provenienti da Paesi a maggioranza musulmana, dice molto sull’immagine e la percezione della Turchia tra gli africani e sul ruolo della religione nella politica turca. Erdoğan coltiva l’immagine di leader musulmano impegnato a difendere la dignità dei musulmani in tutto il mondo, e questo fa sì che le sue politiche siano accolte positivamente in diversi Paesi musulmani, in particolare in Africa[9]. Così, la natura dei diversi agenti della presenza turca in questo continente riflette la centralità dell’islam nella politica di Ankara. Che siano statali o privati, gli attori turchi più influenti provengono spesso dalla Turchia conservatrice e musulmana.
Uno dei principali attori statali che s’incontrano quando ci s’interessa al soft power della Turchia in Africa è la Diyanet, la Direzione degli Affari religiosi. Organismo responsabile della gestione e della regolamentazione dell’islam in Turchia, essa accompagna da vent’anni la politica estera dello Stato turco[10]. Questo lo si sa per l’Europa, dove la Direzione è attiva da decenni nelle città in cui vive una consistente diaspora turca, ma si tende a dimenticarlo quando si tratta del resto del mondo. Nei Balcani, nel Caucaso e in Asia centrale la Diyanet ha aiutato la Turchia a rispondere ai bisogni religiosi di società da poco liberate dall’ateismo socialista forzato[11]. In Africa è stato fatto e va avanti un lavoro simile attraverso un importante programma di aiuti umanitari, ma soprattutto formando gli studenti di teologia, inviando in loco consulenti incaricati della formazione delle élite religiose e lanciando programmi di restauro o di costruzione di luoghi di culto, che pongono la Turchia in diretta concorrenza con altri Paesi musulmani, come l’Arabia Saudita, il Marocco e l’Egitto. Consapevole che l’islam è una componente essenziale delle società locali, la Diyanet si rivolge in Africa a un pubblico per il quale la religione è di primaria importanza e che è in cerca di cooperazione religiosa e aiuti umanitari, ciò che costituisce una leva di influenza per la Turchia[12].
A ben vedere, l’islam è presente sin dall’inizio nella politica turca di penetrazione nell’Africa subsahariana. Come accennato in precedenza, anche i pionieri della presenza turca nell’Africa subsahariana provenivano dalla componente islamica della società turca. Il movimento di Fethullah Gülen, un’organizzazione che univa religione, imprenditoria, nazionalismo turco e buone relazioni con il governo di Erdoğan, ha svolto un ruolo cruciale nel radicamento del soft power turco[13]. Le sue reti di scuole e fondazioni benefiche, sviluppate inizialmente in Turchia e nel blocco dell’Est, nei Balcani, nel Caucaso e in Asia centrale, si sono diffuse in Africa nei primi anni 2000. Da partner privilegiato, esso sarebbe però diventato un acerrimo nemico del governo turco. Dopo aver lavorato fianco a fianco con Erdoğan, a vantaggio del soft power turco nel mondo, il movimento ha rotto i rapporti con Erdoǧan a causa di profonde divergenze politiche. Cacciati e repressi in Turchia, dove le loro fondazioni sono state sistematicamente confiscate dalle autorità, i gülenisti sono stati combattuti e pressoché eliminati anche in Africa. Benché nella maggior parte dei Paesi la loro presenza sia oggi minima, per non dire insignificante, il loro contributo è stato essenziale nella creazione iniziale di legami forti tra la Turchia e l’Africa. Per compensare la scomparsa della rete gülenista, lo Stato turco ha istituito la fondazione educativa Maarif. Sebbene questa nasca in opposizione al movimento di Gülen, essa ne segue in realtà le orme, portando avanti la politica di influenza dei gülenisti fondata sui valori islamici, per formare delle nuove élite in questi Paesi e assicurare la loro fedeltà spirituale alla Turchia.
Altri due attori islamici privati meritano di essere menzionati per il loro ruolo nella diffusione dell’islam turco in Africa. Il primo è la comunità di Süleyman Hilmi Tunahan, un movimento espressione della confraternita sufi Naqshbandiyya[14]. In Turchia come in altre parti del mondo, essa si occupa essenzialmente della creazione di piccole madrase e studentati, per sostenere i giovani nei loro studi in un ambiente religioso. Con i suoi centri in Turchia e le decine di madrase e organizzazioni umanitarie che gestisce in Africa, questa comunità sta creando una nuova classe di giovani africani che parlano il turco e contribuiscono a consolidare i legami tra i loro Paesi e la Turchia. A differenza dei gülenisti, che cercavano di infiltrarsi nelle strutture del potere per influenzarle, i süleymanci si concentrano soprattutto sulla predicazione. Anche l’altro attore è d’ispirazioe naqshbandi, ma la sua attuale direzione è legata alla fondazione Aziz Mahmut Hüdayi Vakfi, il cui capo spirituale è Osman Nur Tobpas[15]. In modo simile ai süleymanci, anche questo gruppo gestisce importanti attività caritative ed educative in Africa. I fondi raccolti in Turchia vengono distribuiti in Africa, dove la gioventù che beneficia degli aiuti sviluppa un’indubbia attrazione per la Turchia.
Le mie ricerche sul campo, così come altri studi sulla presenza turca in Africa, mostrano che l’influenza culturale turca è aumentata notevolmente negli ultimi anni. La ragione principale del successo di questa politica è l’attivismo dello Stato turco e degli attori non governativi, ma hanno svolto un ruolo significativo anche i cambiamenti sopravvenuti in Africa e gli stravolgimenti dell’ordine internazionale, che mettono in discussione la supremazia post-coloniale dell’Occidente in Africa.
Il declino dell’Occidente e l’anti-neocolonialismo
Da una decina di anni a questa parte, in Africa sono in atto due processi strettamente interconnessi: il declino delle potenze tradizionali e la nascita di una forte corrente sovranista[16]. Il mondo occidentale vede arretrare i suoi valori e la sua supremazia economica, e assiste sconcertato alle rivendicazioni panafricane, che chiedono di farla finita una volta per tutte con uno spirito coloniale “malcelato sotto le sembianze della cooperazione”, come dicono molti critici africani. I casi del Niger, del Mali e del Burkina Faso, dimostrano che il grave deterioramento delle relazioni con la Francia, incarnazione agli occhi degli africani dell’Occidente ex-coloniale e decadente, contribuisce indirettamente a lasciare il campo libero alle potenze emergenti. La Russia cerca di farsi strada con un metodo incentrato sulla difesa e la sicurezza, mentre altri attori come la Turchia prediligono un approccio multisettoriale. La Turchia non può certamente sostituire la Francia nei settori in cui quest’ultima è in declino, ma il suo arretramento rende molto più facile l’insediamento di Ankara.
Inoltre, la globalizzazione, a cui l’Africa partecipa sempre di più, aiuta le élite africane e le società civili ad aprirsi a nuovi orizzonti. La compagnia aerea Turkish Airlines, per esempio, sviluppando linee aeree dirette con diverse capitali africane e permettendo di viaggiare in Turchia contribuisce ad ampliare il campo delle possibilità e a far percepire che il partenariato con l’Occidente non è un orizzonte insuperabile. La Turchia trae quindi beneficio da questa disaffezione per consolidare la propria influenza.
Quali prospettive per l’influenza turca in Africa?
Esistono tuttavia dei dubbi, o almeno degli interrogativi circa la durata e la sostenibilità di questo opportunismo diplomatico, economico e culturale turco in Africa. Inizialmente, la crisi economica e il grave terremoto che ha colpito la Turchia il 6 febbraio 2023 hanno rischiato di frenare l’apertura del Paese verso l’Africa. A un anno e mezzo da questa catastrofe, tuttavia, la questione non si pone più. La priorità assegnata alla ricostruzione delle diverse città distrutte dal sisma da parte di istituzioni e ONG turche ha interrotto solo parzialmente le iniziative rivolte all’Africa. Peraltro, i legami creatisi tra Ankara e il continente africano, già abbastanza solidi e diversificati, incoraggiano alcuni turchi colpiti dalla crisi economica a tentare la propria fortuna in Africa.
Infine, la politica turca in Africa è perlopiù il risultato della volontà di un solo uomo, Erdoğan, al punto che nei circoli turco-africani egli è ormai soprannominato “Erdoğan l’Africano”. Il fatto che la strategia si fondi su un solo individuo solleva però la questione della continuità del progetto al di là della persona di Erdoğan. Anche in questo caso, però, l’impulso impresso da quest’ultimo ha permesso di creare legami stretti e solidi, soprattutto all’interno delle organizzazioni private, e dovrebbe consentire alle relazioni turco-africane di persistere e prosperare, indipendentemente dal rinnovamento delle élite politiche. Inoltre, le migliaia di studenti africani formatisi in Turchia stanno iniziando a entrare nel mondo del lavoro, oltre che nelle sfere decisionali economiche e politiche, contribuendo così a rafforzare i legami tra la Turchia e l’Africa. In termini di volume e valore l’influenza turca può sembrare ancora marginale e modesta, ma il suo approccio multisettoriale e l’adozione del soft power le assicurano nel lungo periodo un radicamento solido e resistente al tempo, che vale la pena tenere d’occhio. Chi va piano, va sano e va lontano.
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