Il movimento islamista palestinese ha pubblicato un documento in arabo e in inglese per giustificare l’operazione del 7 ottobre e proiettare un’immagine di sé moderata e rassicurante. Ma negli anni i suoi obiettivi non sembrano veramente cambiati e rimangono un ostacolo a una soluzione del conflitto
Ultimo aggiornamento: 20/03/2024 16:18:17
Da tempo, esperti e commentatori si dividono sulla natura di Hamas. Per alcuni è un gruppo terrorista, il cui programma rimane la cancellazione dello Stato d’Israele nonostante gli accorgimenti tattici e retorici adottati nel corso degli anni. Per altri si tratta di un’organizzazione pragmatica e in costante evoluzione, il cui modus operandi non deriva tanto dalla sua identità profonda quanto dalle circostanze, e in particolare dal regime di occupazione cui i palestinesi sono sottoposti da decenni. L’attacco del 7 ottobre ha probabilmente fornito ulteriori argomenti al primo gruppo, ma non ha modificato i termini del dibattito, rendendolo semmai più urgente. Nel momento in cui Hamas mira ad accreditarsi come capofila del movimento di liberazione nazionale palestinese è infatti importante interrogarsi sulla sua visione e sulle sue rivendicazioni.
Alcuni documenti e alcune dichiarazioni rilasciati recentemente dall’organizzazione e dalla sua leadership offrono alcuni spunti in proposito, facendo allo stesso tempo trasparire le due facce del movimento islamista palestinese, quella più pragmatica e moderata e quella ideologico-identitaria.
Il 21 gennaio scorso l’ufficio stampa di Hamas ha pubblicato in arabo e in inglese un testo di 18 pagine, intitolato “Questo è il nostro racconto. Perché il Diluvio di al-Aqsa”, con lo scopo di esporre ragioni e obiettivi dell’attacco del 7 ottobre. Il documento è suddiviso in cinque capitoli e apre elencando le sofferenze e i soprusi di cui i palestinesi sono vittime da decenni con la complicità dei Paesi occidentali. In un paragrafo evidenziato in grassetto nella versione araba si legge che «l’operazione Diluvio di al-Aqsa del 7 ottobre 2023 è stato un passo necessario e una risposta naturale alle trame israeliane di liquidazione della questione palestinese e di dominio e giudaizzazione della terra». Il secondo capitolo intende far luce sulle brutalità imputate ai militanti del movimento. Hamas riconosce che durante l’attacco possono essere stati commessi degli errori, dovuti «al crollo totale e repentino del sistema militare e di sicurezza d’Israele» e al «caos» che ne è seguito. Nega però di aver deliberatamente preso di mira i civili, attribuendone l’uccisione all’esercito israeliano, e respinge le accuse di stupro, due pretese che si scontrano in realtà con le numerose prove raccolte finora. Per far chiarezza su questi aspetti, il quarto capitolo propone un’indagine internazionale trasparente. Nel quinto capitolo, il gruppo islamista si definisce «un movimento di liberazione nazionale dal pensiero islamico moderato, che rifiuta l’estremismo e crede nei valori del diritto, della giustizia e della libertà, così come nella libertà religiosa e nella convivenza umana e tra civiltà». Dichiara inoltre che la sua lotta è rivolta contro «il progetto sionista» e non contro «gli ebrei in quanto tali». Nell’ultimo capitolo, intitolato “che cosa chiediamo”, Hamas ribadisce la necessità della «resistenza» per far fronte all’occupazione e invoca la fine immediata «dell’aggressione israeliana contro la Striscia di Gaza», appellandosi in particolare «agli Stati e ai popoli che sono stati colonizzati o occupati, e in particolare quelli del Sud del mondo, che capiscono la sofferenza del popolo palestinese».
Il documento colpisce innanzitutto per il suo linguaggio e le sue strategie argomentative. Il testo è ricco di rimandi al diritto internazionale ed elenca tra le sue fonti due giornali israeliani, Yedioth Ahronoth e Haaretz, citati per dimostrare la responsabilità israeliana nella morte di molti civili ebrei, e il sito Mondoweiss, espressione dell’ebraismo progressista americano.
Non si tratta di una novità. Negli anni, il linguaggio di Hamas ha conosciuto una significativa evoluzione. La famigerata Carta del 1988 era incentrata sulla necessità del jihad, considerava la Palestina un territorio islamico indivisibile «fino al giorno della resurrezione» e traboccava di espressioni antisemite. La versione del 2017 fa invece leva sulla nozione più profana e inclusiva di “resistenza”, distingue tra ebrei e sionisti, quasi non menziona il jihad e richiama abbondantemente diritti umani e norme internazionali, due elementi che si ritrovano anche nel comunicato con cui l’ala militare di Hamas aveva lanciato l’aggressione del 7 ottobre. Diffondendo la sua versione dei fatti, il movimento ha ulteriormente puntato sulla dimensione politica e giuridica delle proprie rivendicazioni, probabilmente avendo fatto tesoro del consenso generato dal ricorso intentato dal Sudafrica contro Israele alla Corte Internazionale di Giustizia.
Quello della liberazione nazionale e della conformità alla legalità internazionale non è tuttavia l’unico lessico utilizzato da Hamas. Solo qualche giorno prima della pubblicazione del documento del 21 gennaio, il capo dell’Ufficio politico del movimento Ismail Haniyeh era intervenuto alla conferenza “Il Diluvio di al-Aqsa e il ruolo della Umma”, organizzato dall’Unione Mondiale degli Ulema di Doha. Anche in quell’occasione il leader islamista aveva voluto spiegare davanti a una delle istituzioni di riferimento dell’Islam politico le ragioni dell’operazione del 7 ottobre. Se alcuni temi evocati da Haniyeh si ritrovano anche nel “racconto” successivo (la marginalizzazione della questione palestinese, i tentativi di giudaizzazione della Palestina), il suo linguaggio riflette molto più chiaramente l’identità islamica di Hamas.
Per giustificare l’eccezionalità dell’operazione “Diluvio di al-Aqsa”, ad esempio, Haniyeh ricorre a un passo coranico: «entrate contro di loro passando per la porta e quando voi sarete entrati per questa porta avrete vinto, e in Dio solo confidate, se siete credenti» (Cor. 5,23), un versetto che invita a non indugiare di fronte ai piani divini e che curiosamente si riferisce all’ingresso degli ebrei nella Terra promessa dopo l’esodo dall’Egitto. Una volta esposti ragioni e risultati dell’attacco, Haniyeh esclama poi che è giunto il tempo del “jihad con la punta delle lance” – un’espressione che in arabo gioca sull’assonanza tra jihad al-sinān (il jihad con le lance, appunto, e quindi armato) e jihād al-lisān (il jihad della lingua, combattuto cioè attraverso scritti e parole) – e specifica che quella in corso è «la battaglia di Gerusalemme (al-Quds) e al-Aqsa» e non la battaglia di Gaza o del popolo palestinese, dal momento che Gaza è «il fronte avanzato della difesa e dell’attacco della umma».
Come interpretare il divario tra questo discorso e il testo pubblicato meno di due settimane più tardi? Normalmente, gli studiosi si dividono tra chi interpreta Hamas attraverso i suoi discorsi, privilegiandone quindi la dimensione ideologica, e chi invece si concentra sulle azioni del movimento, e dunque sul suo presunto pragmatismo. Qui ci troviamo invece di fronte a due narrazioni divergenti. Da un lato non è strano, se si considerano i loro diversi destinatari: un’assemblea di esperti religiosi da un lato e l’opinione pubblica araba e internazionale dall’altra. Dall’altro non possono non saltare agli occhi palesi incoerenze. In nome di chi Hamas sta combattendo a Gaza? Dei diritti legittimi del popolo palestinese, come dichiara il testo del 21 gennaio? O del riscatto della umma islamica, come invece lascia intendere Haniyeh?
Queste contraddizioni non stupiscono del tutto. L’oscillazione tra retorica religiosa e retorica secolare è un tratto distintivo della Fratellanza musulmana, l’organizzazione da cui si è sviluppato Hamas. Durante la campagna per le elezioni presidenziali egiziane del 2012, per esempio, il candidato dei Fratelli musulmani e futuro presidente Muhammad Morsi veniva presentato allo stesso tempo come l’interprete fedele della rivoluzione dell’anno prima e come il nuovo Abu Bakr, primo califfo “ben guidato” della storia islamica. La seppur breve esperienza di governo dei Fratelli musulmani egiziani ha poi mostrato che i loro progetti di islamizzazione dello Stato non erano soltanto slogan elettorale.
Nel caso di Hamas è difficile formulare previsioni sulla base delle sue dichiarazioni pubbliche, tanto più che il futuro dell’organizzazione dipenderà anche dalle decisioni israeliane, ma si possono fare alcune considerazioni. Il documento del 21 gennaio, ad esempio, ambisce evidentemente a suscitare un’ampia legittimazione della resistenza palestinese che Hamas pretende d’incarnare, ma i suoi richiami alla legalità internazionale risultano selettivi e confermano tra le righe la visione consolidata del movimento islamista. In particolare, che cosa intende il testo con i termini liberazione e occupazione? Quali sono i territori palestinesi occupati da liberare? Quelli definiti dalla risoluzione n. 242 del 1967 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, dunque la Cisgiordania, con Gerusalemme Est, e la Striscia di Gaza, o l’intera Palestina mandataria? E in che misura Hamas sarebbe pronto a riconoscere l’esistenza di uno Stato d’Israele? Il movimento non ha mai approvato gli accordi di Oslo. Ha però di fatto accettato un loro effetto, e cioè la nascita di un’Autorità Nazionale Palestinese, al punto da aver partecipato alle elezioni legislative del 2006. Per conciliare le due posizioni, il gruppo ha adottato una linea che distingue tra un obiettivo temporaneo, rappresentato dall’instaurazione di uno Stato palestinese a Gaza e in Cisgiordania, e un obiettivo di lungo periodo, la liberazione di tutta la Palestina. La Carta dei principi del 2017 va in questa direzione: ammette che la «costituzione di uno Stato palestinese indipendente e sovrano, entro i confini del 4 giugno 1967 e con Gerusalemme Est come capitale» è una «formula nazionale condivisa» e allo stesso tempo definisce il territorio palestinese come compreso tra «il Giordano a Est e il Mar Mediterraneo a Ovest» e tra «Ras al-Naqura [Rosh Hanikra] a Nord e Umm al-Rashrash [Eilat] a Sud» e rifiuta qualsiasi riconoscimento «della legittimità dell’entità sionista».
Se davvero Hamas si è evoluto, la sua trasformazione è a dir poco incompiuta. Non solo il suo linguaggio delle origini riaffiora in modo non troppo velato, ma anche il suo obiettivo di liberazione dell’intera Palestina appare in fondo inalterato. Questo progetto si scontra con quello speculare di Netanyahu, il quale si è vantato anni fa di aver sabotato gli accordi di Oslo e recentemente ha rivendicato di aver sempre impedito la nascita di uno Stato palestinese. Anche in questo caso si tratta di un’opposizione radicata. Già la piattaforma programmatica del Likud, il partito del primo ministro israeliano, parlava nel 1977 di un «diritto eterno e indiscutibile del popolo ebraico alla terra d’Israele», e dichiarava che tra il «Giordano e il mare l’unica sovranità è quella israeliana». In passato, Netanyahu ha occasionalmente aperto alla possibilità di uno Stato palestinese, ma la sua avversione profonda verso questo tipo di soluzione, esplicitamente ribadita dopo il 7 ottobre, è rimasta invariata.
Sarà difficile porre fine alla tragedia in corso finché resteranno in scena i suoi protagonisti.
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