Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba
Ultimo aggiornamento: 19/03/2024 10:58:11
Il 3 maggio il presidente della repubblica islamica iraniana Ibrahim Raisi si è recato in visita a Damasco –primo viaggio ufficiale di un premier iraniano in Siria dallo scoppio della guerra nel 2011 – rafforzando la storica alleanza tra i due Paesi, mentre nel frattempo prosegue il processo di normalizzazione (di cui abbiamo parlato nelle scorse rassegne) delle relazioni tra il regime di Bashar Assad e gli Stati mediorientali. Muhammad Faraj, direttore del sito panarabo (ma filo-iraniano) al-Mayadeen – che ha intervistato Raisi – sostiene come il legame tra Damasco e Teheran vada oltre la “diplomazia del vicinato”, assumendo una connotazione di stampo quasi ideologico, fondata sul concetto di “Asse della Resistenza” all’Occidente e alla «presenza sionista», ossia Israele. Per al-Mayadeen esistono tre punti che rendono la relazione siro-iraniana speciale: in primo luogo, l’interesse di Teheran per la ricostruzione della Siria, in particolar modo per quanto riguarda il settore energetico; in secondo luogo, l’obiettivo di espellere dal Paese arabo le presenze militari straniere, segnatamente americani e turchi (ma evidentemente non gli iraniani); in terzo luogo, la presenza di «molte finestre che sono state aperte in Siria da numerosi Stati arabi e Paesi del Golfo per alleviare la crisi economica». Questi nuovi partner offrono infatti un sostegno diverso dalla «dollarizzazione», ossia la sostituzione della valuta nazionale con quella di un altro Stato. L’“andare oltre” che compare nel titolo dell’articolo sottolinea proprio questo obiettivo: non solo ricostruire l’economia del Paese levantino, ma integrarla anche in network e organizzazioni non occidentali, come il gruppo dei BRICS (Brasile, Russia, Cina, Sudafrica) e l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (Cina, Russia, India, Pakistan, Iran, Kazakistan, Kirghizistan, Tajikistan, Uzbekistan).
Il giornale del regime siriano, al-Ba‘th, apre l’edizione del 4 maggio con una foto a tutto campo di Raisi a colloquio con Bashar al-Assad, accompagnata da due titoli in rosso in stile “captatio benevolentiae”: «Assad: le nostre relazioni sono salde e solide malgrado le tempeste che hanno colpito la regione; Raisi: siamo amici nei giorni duri e difficili, e il mondo intero loda la vostra resistenza». Dopo un lungo reportage e album fotografico dell’incontro, a pagina 14 compare un’analisi sull’importanza dell’alleanza, definita «lontana dalle false rappresentazioni fornite da alcuni che hanno tentato senza successo di seminare zizzania», perché «la realtà […] indica la solidità di questa alleanza, una solidità di fondamenti condivisi e l’accordo di difendersi sulla stessa trincea […] Gli ultimi sviluppi regionali, in primo luogo l’accordo saudita-iraniano, registrano un punto di svolta strategico i cui effetti influiranno uno dopo l’altro sui Paesi mediorientali».
Al-‘Arabi al-Jadid, testata finanziata dal Qatar, contesta questa visione armonica e solidale, sottolineando al contrario le debolezze e le incognite insite all’interno del processo di riabilitazione della Siria nel Medio Oriente. Per cominciare, la visita era programmata da tempo, ma «è stata posticipata diverse volte a causa delle divergenze fra i due regimi sulle dimensioni del debito» da concordare. Inoltre, il rapprochement tra Damasco e Riyad «non è progredito più di tanto», così come anche le relazioni con Egitto e Giordania non hanno registrato miglioramenti, per non parlare di «Qatar, Kuwait e Marocco che non gradiscono per niente la normalizzazione». In definitiva, l’iniziativa saudita di reintegrazione della Siria nel consesso arabo non sarebbe dettata tanto da una sincera simpatia verso Assad, quanto dal desiderio di controbilanciare l’influenza iraniana nel Levante. Tutto questo senza considerare il ruolo degli Stati Uniti, di cui il giornale annuncia (ma sarebbe più corretto dire auspica) il ritorno delle forze nella regione: «ci sono dei report che confermano come sia gli Usa che Israele si stiano preparando a una guerra lampo contro il regime iraniano. Ammettiamo che entrambi la stiano soltanto predisponendo; anche così la politica iraniana, come detto nelle righe precedenti, e la mancata visita a Riyad sono un fallimento completo».
Anche al-Quds al-‘Arabi si mostra a dir poco scettico sulla riabilitazione di Assad. Il politologo libanese Gilbert Achcar scrive indignato che questo «scenario strappalacrime sta in effetti superando la realtà delle bombe destinate alla repressione delle manifestazioni, uno scenario che per pathos ha superato le serie televisive egiziane, turche e indiane messe insieme». Ciononostante, esistono alcune resistenze al processo di normalizzazione anche tra gli amici fraterni della Siria, che pongono una condizione al suo ritorno nella Lega Araba. «Non pensate che la condizione sia la caduta di Assad e l’istituzione di un suo processo per gli orrendi crimini» commenta sarcastico Achcar, perché il vero problema è un altro e riguarda il traffico della droga. Sull’argomento il giornale ha dedicato un articolo ad hoc, dal titolo «diplomazia del captagon», alludendo al fatto che il Paese è diventato uno dei più importanti centri mondiali di produzione e diffusione di sostanze stupefacenti: «non ci stupiremmo se, in futuro, venissimo a sapere che i servizi dell’intelligence siriano siano la fonte di informazioni che ha portato a sventare il contrabbando di due carichi di captagon e anfetamine nel porto di Jedda e alla frontiera con la Giordania». Infatti «il traffico di droghe siriane, che tutto il mondo ormai sa essere opera del regime di Assad, si è trasformato in un problema regionale e internazionale». Gli accordi di cooperazione avviati con iracheni e giordani sarebbero quindi delle finzioni: «con questo grande successo (!) il piano giordano del “passo dopo passo” potrebbe venire applicato in maniera scientifica. In che modo? Ogni volta che gli Stati arabi coinvolti rispondono alle richieste del regime siriano, quest’ultimo fornisce loro informazioni sui nuovi carichi (di droga) attraverso i comitati di cooperazione, “sventando” così il traffico illegale. In questo modo entrambe le parti risultano vincitrici! Come eccelle in furbizia il regime di Assad quando si tratta di restituire un diritto ai suoi alleati in cambio di guadagni!».
Al-‘Arab apre la prima pagina del 4 maggio con un titolo eloquente: «la visita di Raisi a Damasco si trasforma in una festa per la vittoria di Assad», mentre in un altro articolo considera la visita del presidente iraniano come un segno di debolezza della Russia, molto impegnata nella guerra con l’Ucraina, ma “assente” dal teatro mediorientale: «la visita del presidente iraniano mostra uno sviluppo nelle relazioni tra Damasco e Teheran […], in particolar modo il fatto che la “repubblica islamica” sa bene che il merito per la sopravvivenza del regime è soltanto suo. In parole più chiare, l’Iran non ha più bisogno della Russia in Siria […] sembra che la presenza iraniana sia più forte che mai, mentre la debolezza dell’influenza russa è più grave che mai. Quello che oggi vediamo in Siria è uno dei risultati della guerra in Ucraina», tanto che «Vladimir Putin si rifiuta di riconoscere di esserne uscito perdente».
Emirati e Arabia Saudita si contendono la pace in Sudan [A cura di Chiara Pellegrino]
Anche questa settimana, il conflitto in Sudan ha avuto molto spazio su buona parte della stampa panaraba, in particolare quella dei quotidiani che gravitano nell’orbita dell’Arabia Saudita e degli Emirati. Mercoledì la prima e la terza pagina di al-‘Arab (quotidiano vicino ad Abu Dhabi) erano riservate a questo tema, e lo stesso giorno al-Sharq al-Awsat (finanziato dai sauditi) ha dedicato al conflitto ben sette editoriali su nove. Questo interesse si spiega evidentemente anche alla luce dello spazio che i due Stati del Golfo stanno cercando di ritagliarsi come mediatori tra i due generali sudanesi.
Su al-‘Arab il giornalista egiziano Muhammad Abu al-Fadl ha riflettuto sul crescente ruolo giocato da Egitto, Arabia Saudita ed Emirati nella risoluzione del conflitto, a cui corrisponde un minore coinvolgimento del Consiglio di pace e sicurezza dell’Unione africana e dell’Autorità Intergovernativa per lo Sviluppo (IGAD nell’acronimo inglese), incapaci in questa fase di esercitare pressioni sui due generali. Questo attivismo arabo, secondo l’autore, è abbastanza inedito visto che «il Sudan è un Paese africano prima di essere arabo» e per questo ha sempre guardato verso l’Africa più che verso il mondo arabo. Tant’è vero che dopo la caduta di Omar al-Bashir sono stati il Consiglio di pace e sicurezza e l’IGAD a svolgere un ruolo di primo piano durante la transizione. L’editorialista ritiene che gli sforzi congiunti tra i tre Paesi arabi potrebbero avere un effetto positivo, proprio come ricorda «l’esperienza del Quartetto arabo nei rapporti con il Qatar», in riferimento alla crisi del Golfo innescata nel 2017 quando l’Egitto, l’Arabia Saudita, gli Emirati e il Bahrein hanno imposto l’embargo contro il piccolo emirato del Golfo. «Il successo del ruolo arabo, rappresentato dai tre Paesi o da uno solo di essi, potrebbe dare la possibilità di riprendere l’attività politica nell’affrontare gli sviluppi in Sudan, rimasto monopolio quasi esclusivo della cerchia africana, nonostante l’incapacità dei suoi organismi di mettere rapidamente fine a vecchi conflitti nel continente».
Lo stesso quotidiano ha inoltre posto l’accento sul ruolo preponderante giocato da Riyad sull’altra sponda del Mar Rosso e ha titolato: “Le operazioni di evacuazione hanno conferito all’Arabia Saudita un ruolo centrale nel conflitto sudanese”, in riferimento alle oltre 5000 persone evacuate dalla marina saudita. Riyad, ha scritto il quotidiano, nelle ultime settimane ha lanciato una grande campagna mediatica sul suo impegno in Sudan – «le stazioni televisive saudite riprendono i migranti che sbarcano dalle navi nella città portuale di Gedda, spesso con la bandiera saudita in mano, e intervistano i diplomatici, i quali lodano la mobilitazione rapida della marina saudita» –finalizzata a «mostrare la sua buona volontà, proprio come ha fatto il Qatar due anni fa quando ha accolto decine di migliaia di civili in fuga dai talebani in Afghanistan».
Il quotidiano emiratino al-‘Ayn ha invece esaltato il ruolo degli Emirati nella mediazione, definendo la piccola monarchia del Golfo come il candidato più adeguato a svolgere questo compito: «Quando la situazione peggiora ed è in gioco la situazione umanitaria di un intero popolo, gli Emirati sono uno dei candidati forti, se non l’unico a poter affrontare questo compito arduo e decisivo non solo per il Sudan, ma per tutta la regione e il mondo intero». In un processo di mediazione «l’elemento più importante è la natura della parte mediatrice e il grado di accettabilità e di fiducia di cui essa gode presso le due parti [che hanno innescato] la crisi e presso le altre parti regionali e internazionali». Da questo punto di vista, afferma l’articolo, gli Emirati hanno ciò che manca agli altri mediatori: il riconoscimento da parte di entrambe le parti del conflitto, la capacità di adempiere agli obblighi, una statura internazionale e una visione per la transizione.
Di mediazioni, questa volta cinese, ha parlato anche al-Sharq al-Awsat, secondo il quale Pechino è «un mediatore affidabile per fermare il conflitto essendo guidato dal desiderio di proteggere i suoi interessi in loco». Khartum è il terzo partner economico di Pechino in Africa dopo l’Angola e il Sudafrica; la Cina importa petrolio dal Sudan e, con le sue 130 aziende che operano nei settori delle infrastrutture, dei trasporti, dell’elettricità e dell’agricoltura, è uno dei maggiori investitori nel Paese africano. Come ha spiegato l’autrice dell’articolo, Maha Mohammad al-Sharif, «la relazione con la Cina ha superato i legami che uniscono Khartoum all’Occidente». Se Pechino scende in campo, quella sudanese «sarà la terza crisi internazionale in cui la Cina esercita il suo nuovo ruolo di ‘mediatore internazionale’ dopo la crisi saudita-iraniana e quella ucraina».
Al-Sharq al-Awsat ha pubblicato anche un’intervista a Hemedti, il comandante delle Forze di Supporto Rapido. Nessuna domanda scomoda, nessun accenno ai crimini commessi nel Darfur negli anni scorsi dalle FSR, nessuna pressione sul generale, che a tutte le domande ha risposto in maniera molto vaga attribuendo continuamente la responsabilità del conflitto in corso al suo avversario, accusandolo di «non aver rispettato i termini della tregua violandola ripetutamente e di aver commesso grandi atrocità contro i cittadini innocenti, che sono stati esposti alle bombe aeree e ai colpi di artiglieria». Hemedti ha inoltre ringraziato gli Stati Uniti, l’Arabia Saudita e gli Emirati per la loro mediazione.
Su al-‘Arabi al-Jadid, Jawad al-‘Anani, ex viceministro dell’Economia giordano ha riflettuto sulle implicazioni per il mondo arabo di un’eventuale «somalizzazione del Sudan». Tra gli effetti catastrofici, i flussi migratori negli Stati limitrofi e l’interruzione nell’esportazione di cereali e carne verso i Paesi arabi. Al-‘Anani si domanda se, qualora si riesca a fermare il conflitto, sia possibile «trasformare le spade in vomeri» e se gli arabi saranno capaci di elaborare «un programma per far uscire il Sudan dal suo calvario sviluppando un piano di investimenti al quale contribuiscano il settore privato arabo e straniero, completando le infrastrutture necessarie, coltivando terreni agricoli e consentendo al Sudan di trarre beneficio dalle sue risorse naturali». «I Paesi più grandi – ha scritto l’editorialista – devono simpatizzare con i Paesi più piccoli per dimensioni, popolazione o ricchezza. Devono mostrare al mondo la loro compattezza. Questa non è un’esortazione, ma è l’unica via rimasta se vogliamo la salvezza di questa nazione. Il crollo del Sudan, come è avvenuto per la Somalia, porterà alla perdita della Palestina, alla disintegrazione della Siria e dell’Iraq, e costituirà una minaccia per l’economia dell’Egitto e della Tunisia».
Sullo stesso quotidiano, il giornalista giordano ‘Issa al-Shu‘aybi ha celebrato il ricordo della Khartoum degli anni ’50 cantata da Umm Kulthum – «la stella d’Oriente», come viene definita la celebre cantante egiziana. Al-Shu‘aybi ricorda «lo splendore di cui la capitale sudanese fu testimone nel 1955. Uno splendore destinato a scomparire dalla memoria collettiva e artistica se non fosse stato per Umm Kulthum, che l’ha immortalato in una poesia cantata le cui parole furono scritte dal poeta Ahmed Rami quell’anno, quando in cui i due Paesi del Nilo formavano il Regno d’Egitto e del Sudan».
L’Iraq visto da al-‘Arab: il rimpasto di governo, il problema dei media, l’effervescenza culturale [A cura di Mauro Primavera]
Al-‘Arab è probabilmente il quotidiano panarabo che segue maggiormente le vicende della politica irachena, caratterizzata dalla fragilità dell’attuale governo del premier sciita Muhammad al-Sudani. Formatosi lo scorso ottobre, l’esecutivo ha posto formalmente fine alla prolungata crisi causata dalle tensioni intra-sciite tra le forze parlamentari del leader Muqtada al-Sadr, vincitore di fatto delle elezioni del 2021, e quelle di Nuri al-Maliki, segretario del partito Da’wa, considerato vicino all’Iran. Al-Sudani, figura di sintesi tra i due poli sciiti, promise al momento della nomina che avrebbe valutato l’operato dei suoi ministri, riservandosi di procedere con un rimpasto di governo qualora si fosse rivelato necessario. Dopo sei mesi, infatti, la possibilità (sempre più concreta) di un cambio dei vertici sta generando nuove tensioni, soprattutto sul rapporto tra al-Sudani e al-Maliki, considerato il “padrino” dell’attuale esecutivo. Al-‘Arab prova a valutare il presunto piano del premier che vorrebbe ribellarsi al suo creatore al-Maliki. Per cominciare, al-Sudani non ha mostrato doti governative: «una volta ottenuta la presidenza del governo, si è ingraziato le milizie, guadagnandosi il loro appoggio e corrompendo i loro capi […] ha riempito il suo ufficio con personaggi di mediocre levatura culturale, ancor prima che politica, per il mero fatto che appartenevano a fazioni paramilitari». Inoltre, prosegue l’articolo, uno strappo del genere «al momento sembra una barzelletta» o al massimo una «avventura senza precedenti», perché al-Sudani non gode (ancora) di un proprio seguito popolare, nonostante l’ampia risonanza data dai media nazionali.
A proposito di informazione irachena, sempre al-‘Arab analizza in un altro articolo il complesso rapporto tra media e politica. Sorprende in effetti come, nonostante siano moltissimi gli esperti e analisti iracheni che vengono invitati come ospiti nei più prestigiosi e seguiti canali satellitari arabi e internazionali, i media di Baghdad siano quasi irrilevanti nel vasto e variegato panorama del giornalismo arabo. Il perché è presto detto: «la prima causa dell’arretratezza che affligge i canali satellitari in Iraq è il caos della situazione politica, securitaria ed economica, il nepotismo, la partigianeria, l’immobilismo, la debolezza del sentimento nazionale». Il giudizio è a dir poco impietoso: «ad eccezione dei conduttori di programmi di talk show che si contano sulle dita di una mano […] gli altri – che, diventati delle star, controllano interamente l’opinione pubblica irachena – sono analfabeti, ignoranti, indolenti, opportunisti e mercenari».
Eppure spiragli di luce nella vita culturale del Paese non mancano: la città di Mosul ha inaugurato il “festival della primavera” dopo 23 anni di assenza, mentre il poeta iracheno ‘Ali Ja‘far al-‘Alaq ha appena vinto il premio Sheikh Zayed Book Award grazie alla sua opera “Dove sei, poesia?”.
Il Frankenstein tunisino fa paura [A cura di Chiara Pellegrino]
Mentre i generali sudanesi si combattono, in Tunisia ha fatto discutere il caso del libro di Kamal Riahi, Il Frankenstein tunisino, che le autorità tunisine hanno confiscato dalla Fiera internazionale del libro di Tunisi in corso in questi giorni. La decisione di ritirare il volume, che raccoglie una serie di riflessioni sulle vicende politiche dell’era Saied, e la cui copertina ritrae una caricatura del presidente, disegnato con le sembianze del mostro creato da Mary Shelley, ha fatto scattare l’allarme censura, come ha spiegato al-‘Arabi al-Jadid.
Il presidente tunisino ha replicato la sera stessa con la sua solita retorica cospirazionista, dicendo che «le libertà in Tunisia sono garantite e non sono minacciate» e che «la libertà di pensiero è più importante della presunta libertà di espressione» dal momento che la seconda implica la prima. «Chiunque voglia attentare allo Stato tunisino o mettere in dubbio le libertà nel Paese o all’estero è un agente o una persona afflitta da un profondo coma intellettuale dal quale non si risveglierà mai» – ha dichiarato Saied. Mercoledì i giornalisti tunisini hanno risposto al presidente organizzando una protesta davanti la sede del sindacato dei giornalisti, nel centro della capitale.
La vicenda è stata commentata sempre su al-‘Arabi al-Jadid dal giornalista giordano Ma‘an al-Biyari, secondo il quale «leggere il libro Il Frankenstein tunisino alcune ore dopo che è stato ritirato dalla Fiera internazionale del libro di Tunisi significa prendersi gioco dell’autorità [tunisina] e della sua stupidità. Leggere questo libro dopo che il padiglione della sua casa editrice tunisina è stato chiuso alla fiera […] significa mostrare il proprio disprezzo per il sistema di governo in carica nel Paese».
In Marocco, il riconoscimento dell’identità berbera è uno sgarbo all’Algeria [A cura di Chiara Pellegrino]
Nel frattempo, in Marocco re Muhammad VI ha istituito una nuova festività nazionale: il Capodanno amazigh. Su al-‘Arab, l’editorialista marocchino Muhammad Mamouni al-Alawi ha commentato questa decisione a partire dalla tradizionale rivalità tra il suo Paese e la vicina Algeria. «I berberi del Marocco sono diversi passi avanti rispetto i vicini», «la mossa marocchina di approvare una vacanza berbera annuale smuoverà le acque stagnanti in Algeria e spingerà [i berberi algerini] a rinnovare le richieste di un trattamento equo con le altre componenti [della società]». Secondo il politologo marocchino Hisham Amiri citato dal giornalista, questa decisione «aumenterà la coesione tra le componenti del popolo marocchino e contribuirà a limitare l’emergere di alcuni fronti di opposizione. Fronti di cui soffrono molti Paesi arabi, che non si sono riconciliati a livello politico, sociale e identitario con le loro diverse componenti».