Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:39:40
Modus vivendi. Così si chiamava l’accordo raggiunto tra Bourguiba e il Vaticano nel 1964. Con quell’atto il primo presidente della Tunisia indipendente si proponeva di chiudere una volta per tutte la questione dei rapporti con i cattolici, dopo che la stragrande maggioranza di essi (in prevalenza francesi, italiani e maltesi) aveva abbandonato il Paese a causa delle nazionalizzazioni. Bourguiba legava la presenza cristiana agli anni del colonialismo e la vedeva come un fatto del passato, non da nascondere (la Cattedrale cattolica fa ancora bella mostra di sé nella via principale di Tunisi), ma definitivamente tramontato. Un po’ come i resti romani raccolti al Museo del Bardo.
Il trauma per la Chiesa di Tunisia fu enorme. Restarono solo pochi fedeli e diversi religiosi (ad esempio i Padri Bianchi dell’IBLA). Dopo qualche anno però la presenza cristiana ricominciò a crescere, soprattutto per l’arrivo di funzionari africani e altri espatriati. Fu Giovanni Paolo II a volere il primo Vescovo arabo (Mons. Twal, ora Patriarca di Gerusalemme), una scelta che è continuata con il suo successore Mons. Lahham e ora con il Vescovo neo-eletto, Mons. Antoniazzi, di origini venete, ma ordinato sacerdote a Gerusalemme. Era un segnale importante per dire che la chiesa cattolica in Tunisia non si considera semplicemente ospite.
Con realismo Mons. Lahham ha più volte dichiarato che il ruolo dei cristiani nella rivoluzione del 2010-2011 è stato «nullo» sul piano pratico. Ma – aggiungeva nella sua Lettera Pastorale di poco successiva alla rivoluzione – è viva nella Chiesa tunisina la consapevolezza di condividere le stesse sfide della società musulmana in cui essa vive. Un giudizio ribadito dall’attuale Vicario Generale, P. Nicolas Lhernould.
Tra queste sfide, la principale è oggi portare a termine con successo la transizione democratica. Inizialmente ben impostata sul piano istituzionale, essa ha dovuto fare i conti con la persistente crisi economica, la crescita dei salafiti e l’ambiguo atteggiamento del partito islamista di maggioranza relativa, an-Nahdha, percorso da tentazioni egemoniche. L’assassinio del leader dell’opposizione di sinistra Chokri Belaid ha riportato il Paese sotto i riflettori della stampa internazionale, aprendo una crisi politica tuttora irrisolta.
Dopo la rivoluzione si è vissuta una stagione di “parola liberata” e i tunisini hanno potuto discutere di ogni argomento. A differenza dell’Egitto però, la questione della presenza cattolica non è stata quasi mai all’ordine del giorno. Probabilmente è troppo piccola per impensierire. La libertà di coscienza però è uno dei grandi temi della stagione post-rivoluzionaria. Non nel senso della possibilità di conversione (tema non particolarmente sentito nella società se si escludono le attività di alcuni missionari
evangelical), ma in quello molto più concreto della legittimità del pluralismo
dentro l’Islam (in questi mesi i salafiti hanno attaccato molte tombe di “santi” sufi) e, all’interno della società tunisina, tra credenti e non credenti. La presenza laica infatti è consistente e agguerrita, soprattutto nella capitale.
Appare così evidente che la lotta per la libertà di coscienza in Tunisia non è oggi la questione solitaria dei 20.000-25.000 cristiani che vivono nel Paese. Autentica cartina di tornasole di tutte le altre libertà, essa significa la possibilità o meno di costruire una società realmente plurale. Perché essere democratici, come mostrano le rivoluzioni arabe, non vuol dire soltanto fare la conta dei voti.