Una conversazione con Hasan ‘Abd Allah, mufti sciita di Tiro e del Jabal ‘Amel, sulla situazione del Libano, tra guerra di Gaza e crisi interna
Ultimo aggiornamento: 14/03/2024 14:51:56
Lo Shaykh Hasan ‘Abd Allah è mufti di Tiro e della regione del Jabal ‘Amel in Libano per la scuola giuridica sciita jafaarita ed è responsabile culturale centrale del movimento Amal, il secondo maggiore partito sciita libanese, con 13 seggi in Parlamento (Hezbollah ne ha 15). A Milano per una serie di incontri, lo riceviamo nella sede di Oasis il 30 novembre, accompagnato dal console generale libanese dott. Khalil Mohamad, dall’imam ‘Ali ‘Abd Allah, da Mons. Luca Bressan, vicario episcopale per la cultura, la carità, la missione e l’azione sociale, e da don Asaad Saad, parroco della comunità maronita di Milano.
Dalla guerra tra Israele e Hamas allo stallo politico libanese, fino al ruolo delle comunità musulmane in Europa, lo Shaykh non si sottrae alle domande. Richiamandosi alla lezione di Musa al-Sadr e Muhammad Mahdi Shamseddine, auspica la creazione di uno Stato senza religione per cittadini religiosi, così da consentire al Libano di uscire dalla crisi che lo ha precipitato in una condizione medievale. La vera lotta oggi si consuma tra chi accetta il dato del pluralismo e chi vorrebbe cancellarlo.
Intervista a cura di Martino Diez
Il Libano e soprattutto il Sud del Libano, è interessato direttamente dalla guerra in corso a Gaza.
Parlare della situazione al Sud in questo momento è doloroso. La regione che si trova lungo la frontiera è quasi completamente deserta. A Tiro sono arrivate migliaia di sfollati, che al momento si trovano nei rifugi per i profughi nelle scuole o nelle case private. Tiro ha accolto 18mila profughi e della loro assistenza si sono fatte carico fondazioni private. Al momento non c’è nessuna promessa reale di porre fine alla guerra e agli scontri.
Chi presidia la frontiera? L’esercito libanese o le milizie?
L’Esercito libanese è presente, le forze di pace sono presenti, ma vediamo una cosa nuova, l’azione di gruppi armati, per effetto di quanto avviene a Gaza. Di qui i bombardamenti e i contro-bombardamenti. Per questo il Paese vive una condizione di precarietà. L’esercito libanese è dispiegato sul terreno, così come le forze di pace, ma la regione di confine rimane disabitata.
C’è il rischio di una escalation?
La questione fondamentale è quella dei palestinesi nella regione. Finché non viene risolta, la regione sarà sempre instabile e il Libano è uno degli elementi di questa instabilità. Lo ripeto, nessuno può prevedere che cosa succederà ma la preoccupazione è continua.
In questo contesto così complicato si registra un vuoto clamoroso delle istituzioni in Libano. Lo Stato è molto debole, non si riesce a eleggere un Presidente, il Comandante in Capo dell’Esercito è in scadenza[1]. In una dichiarazione ufficiale Lei ha sottolineato la necessità di «abbassare i toni del discorso politico ed evitare tutto ciò che potrebbe perturbare e ostacolare l’unità nazionale, la convivenza e la pace civile». Che cosa significa questo a livello pratico? Le sembra che il Suo auspicio si sia realizzato finora?
La leadership politica deve assumersi le proprie responsabilità, svolgere le funzioni richieste. Se c’è un Parlamento, deve eleggere il Presidente della Repubblica. Se c’è un governo, deve rispondere ai bisogni della gente. Se ci sono posizioni vacanti nelle istituzioni statali, vanno riempite, a prescindere dal calcolo politico. Purtroppo, il Parlamento attualmente è incapace di riunirsi o se si riunisce non riesce a eleggere il Presidente della Repubblica. Ogni fazione – ce ne sono due o tre – è in grado di bloccare l’elezione del Presidente, ma nessuna di esse è in grado di eleggerlo da solo. Al centro ci dovrebbero stare i bisogni quotidiani della gente, servono soluzioni per la difficile situazione economica, per i servizi e questo necessita dell’attenzione del governo, anche se è in carica solo per gli affari correnti. È scaduto il mandato per il comandante dell’esercito, ma non è l’unica carica a mancare all’appello: c’è lo stesso problema per la banca centrale, per la sicurezza nazionale e i vuoti continuano ad aumentare giorno dopo giorno. Una parte del governo sostiene che non si possono assegnare i posti scoperti finché non c’è un nuovo Presidente. Ma altri ribattono che il Parlamento può legiferare anche in assenza del Presidente. Ora si è aperta la questione del prolungamento del mandato per il Comandante dell’Esercito. Non ci possono essere due pesi e due misure. O il Parlamento è in grado di legiferare o non è in grado di legiferare.
Il Comandante dell’Esercito è una questione essenzialmente interna ai cristiani[2], ai musulmani non importa se si prolunga l’esistente o si elegge un nome nuovo. Naturalmente c’è un gruppo cristiano sostenuto da alcuni musulmani e un altro gruppo cristiano sostenuto da altri musulmani. Spetta a entrambi trovare una via d’uscita. Personalmente ho parlato con il Patriarca Rai e gli ho chiesto se fosse riuscito a trovare un accordo tra i deputati cristiani per accettare di prolungare il Capo dell’Esercito. Mi ha risposto che la maggioranza era a favore. Poi gli ho fatto una seconda domanda, se era riuscito a convincere il ministro Gebran Bassil al riguardo e mi ha risposto che non aveva ancora preso una decisione. C’è bisogno di negoziati, non si può risolvere la questione con comunicati mediatici. Da tempo dico che i comunicati mediatici che spuntano di qua e di là sono un dialogo tra sordi, tutti parlano e nessuno ascolta. Oggi abbiamo bisogno invece di un dialogo che ascolti la voce dell’altro. Purtroppo, fino a oggi un dialogo di questo tipo non c’è stato, a livello della leadership politica. Invece, per quanto riguarda la leadership religiosa, qualche giorno fa una delegazione del Consiglio Supremo sciita si è recata dal Patriarca Rai per organizzare un vertice spirituale di tutte le comunità religiose presenti in Libano e cercare di elaborare un discorso che rappresenti un punto d’incontro tra le leadership politiche e una via d’uscita dall’attuale vicolo cieco. Personalmente ritengo che la leadership politica dovrebbe cogliere quest’occasione. Oggi il vertice spirituale potrebbe rappresentare un punto di svolta per la stabilizzazione interna in Libano e la risoluzione delle crisi politiche. Dal vuoto politico hanno perso tutti e proprio per questo può farsi strada una visione diversa.
Nel marzo scorso come Fondazione Oasis abbiamo organizzato una conferenza all’Università Saint-Joseph di Beirut sulla cittadinanza come quadro condiviso per una convivenza pacifica. Potrebbe essere questa la via d’uscita?
Bisogna distinguere tra persone d’influenza e persone di visione. Ci sono idee che restano lettera morta, senza produrre alcun passo avanti. Sono speculazioni per il futuro, non sono una soluzione per il presente. La cittadinanza, nel nostro mondo arabo e islamico, resta oggetto di disputa: che limiti abbia, come si realizzi, chi vi possa partecipare…. ci sono divergenze reali e anche le scuole di pensiero religiose hanno posizioni diverse sul tema: bay‘a[3] o democrazia, chi abbia titolo per prendere le decisioni e via dicendo.
A livello di regime politico la cittadinanza esiste, ma purtroppo nella maggior parte dei casi non c’è appartenenza nazionale, non si vede la patria come il fondamento. Nel nostro mondo arabo islamico ci sono cittadini che hanno interessi e cercano protezioni disparate, ma non c’è la preoccupazione per ciò che è comune. Abbiamo bisogno di una visione capace di produrre un cambiamento e questa non può che venire dall’ambito religioso. Anche se a volte si cerca di oscurarne il peso, le istituzioni religiose hanno ancora un’influenza sulla gente. I partiti stessi, anche quando assumono una dimensione laica, nella loro essenza sono religiosi. Prenda qualsiasi partito in Libano, anche ufficialmente laico: si può sempre sapere qual è l’appartenenza religiosa. Questa ipocrisia politica è fonte di ritardo ed è chiaro che i partiti laici non sono riusciti a creare un’alternativa ai tribalismi religiosi e alle posizioni regressive.
Insomma, se capisco bene, non serve teorizzare, ma influenzare…
Esatto, non teorizzare, ma influenzare. Una volta sono stato invitato a una conferenza in Indonesia sull’Iraq. Molti invitati da tutto il mondo, Iran, Malesia, Siria, Libano, peccato che non ci fosse nessun iracheno salvo un console o un ambasciatore. Come si può pensare di risolvere la contrapposizione tra le comunità irachene senza una presenza irachena? Oggi in Libano e nel mondo arabo non si può discutere di cittadinanza con gli apparati statali, perché sono loro ad aver creato i problemi, non si può discuterne con i pensatori teorici, che non sono presenti sul campo. Bisogna trovare il modo di parlare con le realtà che sono in grado di influenzare la vita quotidiana della gente.
Ma la cittadinanza non è sinonimo di laicismo.
La cittadinanza è un concetto dell’Islam politico, che è quello che ha creato i problemi al riguardo. L’Islam politico crede in una cittadinanza unitaria e rifiuta i nazionalismi. Noi, io personalmente come sciita, crediamo invece nell’integrazione della dimensione religiosa e politica: posso dire di essere arabo e musulmano sciita, mentre un altro diverso da me sarà iraniano e sciita. Un arabo musulmano non è per forza identico a un musulmano non arabo. Chi dice il contrario sogna il ritorno al sultanato ottomano. Ora però le cose sono cambiate e non è possibile riportare indietro le lancette della storia, con buona pace dell’Islam politico.
I partiti laici, d’altra parte, vogliono rimuovere completamente l’elemento religioso, per arrivare a quello che chiamo “l’estremismo laico” e ciò rischia di generare uno scontro nella società. A conti fatti, che cosa ci impedisce di creare uno Stato laico a livello di funzionamento delle istituzioni e religioso a livello delle convinzioni dei suoi membri? L’imam Musa al-Sadr[4] e un gruppo di persone intorno a lui operarono a partire da questa visione teorica: uno Stato unico, che protegga i diritti delle persone, e che lasci a ciascuno le proprie convinzioni religiose. Di qui il detto famoso di Musa al-Sadr: «Le comunità sono una risorsa, il comunitarismo una rovina». Il pluralismo delle comunità costituisce una ricchezza culturale, ma il tribalismo comunitarista rappresenta una fonte di arretratezza.
A questo riguardo, mi fa piacere ritrovare qui nella vostra sede di Oasis alcune opere dell’imam Muhammad Mahdi Shamseddine. Anch’egli ha riflettuto molto sul tema: ha proposto uno Stato senza religione per cittadini religiosi, secondo la sua celebre espressione, e ha incoraggiato gli sciiti a prendere parte attiva allo Stato libanese, a non isolarsi. Anche nel suo testamento ha raccomandato agli sciiti libanesi di non agire come componenti di uno Stato a sé o di un altro Stato. È lui ad avere sostenuto che gli sciiti non hanno bisogno di un proprio progetto di Stato islamico. Lo shaykh Shamseddine non credeva nella natura sciita dello Stato finché il Mahdī resta in Occultamento[5], tanto da coniare la nota espressione wilāyat al-umma…
‘alā nafsi-hā, la tutela della umma su sé stessa. Su Oasis abbiamo tradotto alcuni suoi estratti in italiano, proprio perché è un pensatore che merita di essere meglio conosciuto. Shamseddine si è anche speso nel movimento di avvicinamento (taqrīb) tra sunniti e sciiti. A che punto è la situazione oggi a questo riguardo? Per dire, il governo iracheno ha invitato lo Shaykh di al-Azhar a visitare il Paese e forse anche a incontrare l’Ayatollah al-Sistani. Se ne è parlato più volte forse si realizzerà…
un giorno…
il prossimo gennaio, dicono. Nel novembre 2022 c’è stata anche una conferenza in Bahrain. Da qui mi nasce una domanda a due facce. Da un lato: la situazione attuale, in Libano o nel mondo arabo, favorisce o no queste iniziative di riavvicinamento, queste iniziative ecumeniche, per usare il termine cristiano? E d’altra parte qual è l’obbiettivo finale del riavvicinamento sunnita-sciita?
Il conflitto settario, nella nostra regione araba, è emerso dopo l’invasione americana dell’Iraq nel 2003. Allora si è manifestata chiaramente una contrapposizione tra sunniti e sciiti. I sunniti iracheni ritennero che gli sciiti avessero cospirato con gli americani e li avessero fatti entrare in Iraq. Le cose sono ulteriormente peggiorate con la comparsa Daesh. Lo Stato Islamico ha diffuso tra alcuni ambienti sciiti la paura di talune realtà sunnite e viceversa. In risposta si sono tenuti alcuni incontri, ma personalmente ritengo che siano arrivati molto in ritardo. Al-Azhar avrebbe dovuto avere più coraggio nel condannare il terrorismo nel nome della religione o della setta. E ritengo anche che alcuni leader sciiti, con il loro discorso estremista, abbiano fornito una giustificazione alle posizioni devianti tra i sunniti. Qualsiasi incontro tra le autorità religiose, musulmane e cristiane, sciite e sunnite, è comunque benvenuto, rafforza la tranquillità psicologica tra i moderati e gli illuminati (mutanawwirūn). Oggi, infatti, la vera lotta è tra illuminati[6] e oscurantisti, tra illuminati che vogliono vivere in una condizione di stabilità e in comunicazione con l’altro, e oscurantisti che rifiutano l’altro. Noi dobbiamo sostenere il pensiero illuminato, che parla la lingua dell’accettazione dell’altro, soprattutto considerando che, come musulmani, crediamo che alla fine del tempo le religioni celesti[7] adotteranno tutte la lingua della giustizia e della pace. Musulmani e cristiani, religioni celesti e non, ci muoviamo tutti verso un obbiettivo unico, che è rafforzare la pace e la giustizia.
Vale anche per le religioni “non celesti”?
Non abbiamo problema con nessuno, a livello umano abbiamo le capacità per convivere. L’imam ‘Alī, la pace di Dio sia su di lui, espresse questo principio fondamentale nel suo documento di nomina di Mālik al-Ashtar come governatore d’Egitto, uno dei primi testi religioso-politici prodotti dall’Islam. Di regola, il detentore del potere chiedeva al governatore due cose: il giuramento di fedeltà e i tributi. Per la prima volta nella nostra storia islamica, ‘Alī chiese al suo governatore tre cose: il giuramento di fedeltà; i tributi; e infine, l’ordine politico, cioè stabilire un rapporto tra i sudditi e il governante e tra il governante e i sudditi, e distribuire i poteri all’interno dell’unico Stato. Se si legge la nomina di Mālik al-Ashtar, si può vedere come l’imam ‘Alī abbia regolamentato le funzioni giurisdizionali, militari, di sicurezza, sociali, il tesoro… Da ultimo volle riassumere tutto in una frase famosa che sintetizzasse il modo con cui Mālik al-Ashtar avrebbe dovuto rapportarsi ai sudditi. E scrisse: «Sappi che gli uomini sono di due tipi: o fratelli con te nella religione o uguali a te per il fatto di essere stati creati». Qui «fratelli nella religione» non significa soltanto “fratelli con te nella religione islamica”, l’espressione abbraccia le religioni celesti, Ebraismo, Cristianesimo, Islam. «Uguali a te per il fatto di essere stati creati», d’altra parte, significa che ogni uomo è identico a te in questo aspetto. Il nostro compito è di trattare con l’uomo in quanto uomo, a prescindere dalla sua appartenenza religiosa, che aderisca a una religione celeste o meno.
Del resto, anche lo Stato dalle appartenenze religiose multiple è apparso con il Profeta Muhammad, con la Carta di Medina. Allora per la prima volta si creò una società unica che viveva il pluralismo religioso all’interno di un sistema politico unitario. La portata del detto dell’imam ‘Alī, peraltro, è più ampia, essendo più ampio il contesto rispetto a quello di Medina. E tra le realizzazioni più importanti del governo dell’imam ‘Alī ci fu l’abbandono della discriminazione nella distribuzione delle cariche. Prima di lui infatti si distingueva tra musulmano e non musulmano e, all’interno dei musulmani, tra qurayshiti[8] e non qurayshiti, e all’interno dei qurayshiti, tra i vari clan. L’imam ‘Alī invece fu perfettamente equo nella distribuzione dei beni. Una volta s’imbatté in un mendicante e chiese «Che cos’è questo?». Gli risposero: «È un mendicante cristiano». Ribatté: «Non ti ho chiesto “chi è questo”, ma “che cos’è questo”». Perché non è bene per lo Stato che ci sia un mendicante, anche se non è musulmano.
Qui io trovo le radici della teoria della cittadinanza. Non si può creare un regime statale giusto se c’è discriminazione. La crisi del sistema politico libanese è dovuta alla discriminazione settaria. Nel Medioevo, come sappiamo, la società aveva una struttura gerarchica, i diritti dipendevano dalla posizione nella scala sociale: re, emiro, ufficiale, commerciante, soldato, schiavo… Oggi, lo ripeto sempre, in Libano siamo tornati a questo classismo da Medio Evo. Finché ci sono persone che hanno più prestigio e influenza di altri, non possiamo guardare al futuro. Oggi sono gli sciiti o i sunniti? Non cambia. La via d’uscita è credere che la patria è una, patria finale per tutti i suoi figli, come diceva l’imam Musa al-Sadr, e come afferma la Costituzione libanese dopo gli emendamenti di Taef.
Lei è alla guida di una comunità numericamente consistente, perché la maggior parte degli abitanti di Tiro e del Jabal ‘Amel sono di fede sciita. Quali sono le domande che le vengono rivolte più spesso? Sono questioni che riguardano il culto o le relazioni sociali?
Prima di tutto, io sono multi-dimensionale… nel senso che da più di 30 anni sono in contatto con le diaspore libanesi, non solo sciite, in Europa, Canada, Africa. La mia comunicazione con loro si basa su tre costanti. La prima è la valorizzazione dell’esperienza libanese di pluralismo culturale e religioso. Nelle società europee noi proponiamo una visione religiosa nuova. Voglio dire, gli europei praticamente non conoscono l’Islam sciita, non ne hanno avuto esperienza nella loro storia. La diaspora sciita perciò arricchisce le società europee di un nuovo componente culturale religiosa. Lo stesso vale per la lingua, portiamo con noi l’arabo. Terzo elemento, la relazione di appartenenza alle nostre patrie d’origine. Riflettiamo la civiltà libanese – quella vera, non quella della guerra civile – e al tempo stesso arricchiamo l’esperienza libanese in patria, anzi questo scambio è il modo più rapido per produrre un cambiamento. Su questa base abbiamo creato un rapporto di fiducia con quanti vivono all’estero, che spesso appartengono alle classi più specializzate e più formate.
Per quanto riguarda le domande che ci fa la gente, il nostro ruolo non è soltanto religioso o spirituale, nel senso che sono anche il presidente del tribunale sciaraitico di Tiro per la scuola sciita jafaarita, quindi devo pronunciare sentenze di matrimonio, divorzio, custodia dei figli etc. Poi ci occupiamo anche di offrire servizi sociali, medici e caritativi. Questo è nello spirito originario del “Movimento dei diseredati” dell’imam Musa al-Sadr. Quando è cominciata l’aggressione israeliana diretta nel sud del Libano, l’imam Musa al-Sadr andava a pregare sui luoghi bombardati insieme al Patriarca maronita, il Cardinal Khoraiche, allo Shaykh al-‘Aql[9] dei Drusi, e a diversi shaykh sunniti come Ahmad al-Zein, per mandare un messaggio chiaro, e cioè che l’aggressione toccava tutti. E questo resta vero anche oggi.
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
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