Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 29/11/2024 16:52:26

Tra le notizie più commentate dalla stampa araba questa settimana c’è sicuramente l’accordo per il cessate il fuoco tra il Libano e Israele. Vittoria di Tel Aviv o di Hezbollah? Questa è la grande domanda. Al-Akhbar, quotidiano filo-Hezbollah, non ha dubbi e titola il dossier dedicato alla tregua “Saldi e trionfanti”. In generale, gli articoli che compongono il dossier presentano l’accordo come il frutto di un atto di responsabilità del Partito di Dio verso il Libano da un lato, e della sua caparbietà dall’altro, «che ha costretto il nemico a fermare la sua aggressione e gli ha reso impossibile la vittoria». Facendosi interprete dello spirito della Resistenza islamica, Mohammad Raad, membro del Partito di Dio e capo del blocco parlamentare “Lealtà alla resistenza”, ha ricordato che Hezbollah «è aperto a qualsiasi formula o proposta che garantisca la protezione del Libano dalle minacce del nemico e dai suoi pericoli esistenziali e strategici».

 

La Resistenza, scrive ancora Raad in un altro articolo, «ha mandato in confusione e vanificato gli obiettivi più importanti del nemico, e ha sgretolato le sue priorità costringendolo a un cessate il fuoco». Ma nonostante tutto, prosegue l’editoriale, la vittoria è «amara» per diverse ragioni, in particolare per il clima mediatico che ha generato e che ha visto una grande contrapposizione tra i giornali della Resistenza e i «media della contro-Resistenza, accusati di promuovere «la prepotenza delle forze internazionali, difendere il nemico sionista e sostenere le sue azioni aggressive e brutali». Raad ammette con rammarico la maggiore incisività dei secondi, che avendo più risorse e sostegno riescono a veicolare con maggiore efficacia la loro versione dei fatti.

 

Sul quotidiano libanese al-Nahar la giornalista Rumana Bumonsef sostiene che questa narrazione della vittoria «contraddice la realtà percepita dai libanesi e dall’estero», ed è funzionale a «compattare l’ambiente sciita ed evitare che cada nella frustrazione». Essa è inoltre «un messaggio rivolto all’interno del Partito, per evitare che si indebolisca o venga “giudicato” per la sua avventura militare e le disastrose ripercussioni a tutti i livelli».

 

“Che cosa succede dopo aver ingoiato l’accordo avvelenato americano?”, domanda Wail Qandil su al-‘Arabi al-Jadid. Per il giornalista egiziano la tregua è una sconfitta per gli arabi e una vittoria per l’America: «Quello che Washington vuole e impone a tutti è Gaza senza la resistenza (Hamas e le sue sorelle) e il Libano senza Hezbollah, questa è la pace israelo-americana di cui ha parlato Anthony Blinken». In questo caso, a lasciare l’amaro in bocca è la «nota a margine americana, che dà all’entità sionista ciò che cercava fin dall’inizio, la libertà cioè di operare all’interno del Libano, per via aerea e terrestre, qualora si senta minacciata dalla Resistenza libanese rappresentata da Hezbollah». Dopo tutto «il diavolo si nasconde nei dettagli», commenta ancora Qandil; firmando l’accordo il governo libanese ha dato «la licenza legale a Israele di muoversi liberamente all’interno del Libano». Il giornalista prova inoltre rammarico all’idea che l’accordo rappresenti la fine di Hezbollah, il quale «ha rappresentato quella copertura etica, umanitaria e nazionalista dell’intera nazione libanese in un momento in cui l’intero campo arabo faceva a gara a chi avrebbe deluso di più il popolo palestinese, combattuto più ferocemente il principio della Resistenza e servito con maggiore devozione la velenosa pace americana (israeliana)».

 

La tregua in Libano «non sarà una vittoria divina», scrive il politologo libanese Gilbert Achcar su al-Quds al-‘Arabi, riprendendo lo slogan con cui nel 2006 Hezbollah aveva annunciato la fine delle ostilità con Israele. All’epoca il Partito di Dio aveva tappezzato le vie delle città e dei villaggi libanesi con manifesti raffiguranti il volto di Hasan Nasrallah sormontato dalla scritta Nasr Allah, ovvero «vittoria di Dio», creando un gioco di parole con il nome del Segretario generale del Partito. Se nel 2006 per Hezbollah la tregua aveva avuto il sapore della vittoria – perché «l’aggressione non era riuscita a infliggere un colpo decisivo al Partito […] e lo Stato sionista era stato costretto a fermare la sua guerra affidandosi a una risoluzione internazionale» – oggi il Partito di Dio è molto più fragile dopo che l’intelligence e l’esercito israeliani ne hanno decimato quasi l’intera leadership, prosegue l’editoriale. Peraltro, questa volta la capacità di Hezbollah di «curare le ferite del suo elettorato popolare» è più debole, perché le ferite di oggi sono maggiori di quelle del 2006 (il numero di morti è tre volte superiore, quello dei feriti quattro volte e il livello di distruzione maggiore), ma anche perché le capacità finanziarie di Teheran oggi sono minori rispetto a vent’anni fa.

 

Secondo il ricercatore Mahmoud Allouch di al-Jazeera, per Israele l’accordo raggiunto «è una vittoria politica che rafforza i guadagni militari e gli obiettivi che si era posto nella guerra», in particolare allontanare Hezbollah dal confine e separare il fronte meridionale del Libano da Gaza, mentre per Hezbollah è «un’opportunità per prendere fiato, limitare gli enormi danni che la guerra gli ha inflitto e pensare a come riprendersi da questi danni». L’accordo però, spiega Allouch, «è fragile, e i rischi di collasso superano le possibilità di successo».

 

Dalle pagine della stampa filo-saudita emerge uno spiccato senso di soddisfazione per la tregua e il significato che porta con sé. «Il 27 novembre 2024 Israele può dire di aver distrutto le capacità umane e militari di Hezbollah», scrive il giornalista libanese Hanna Saleh su al-Sharq al-Awsat (quotidiano panarabo di proprietà saudita). «Parallelamente, continua l’editoriale, sono cadute le narrazioni che Hezbollah ha diffuso quando ha lanciato la guerra di “distrazione”: è caduto lo slogan dell’unità delle arene, Hezbollah si è disimpegnato da Gaza e non è riuscito a impedire la vittoria a Israele, ha dovuto accettare di sgomberare l’area a sud del fiume Litani e smantellare la propria struttura militare». In sé l’accordo, prosegue il giornalista, soddisfa il popolo libanese, ma «viola la sovranità» del Paese e «i confini sanciti dall’Armistizio nel 1949». Questo problema è stato sollevato da parecchi altri giornalisti di testate diverse, tra cui la piattaforma d’informazione libanese Asas Media, dove la giornalista Malak Akil parla di «un difetto che macchia l’accordo».

 

Il quotidiano filo-emiratino al-‘Arab ha pubblicato alcuni articoli abbastanza pessimisti sul futuro del Libano dopo l’accordo. Il giornalista libanese Khairallah Khairallah pensa che Hezbollah, al di là della retorica, «non sia affatto pronto a rinunciare alle armi per il bene dello Stato libanese» e che anzi, il cessate il fuoco dia la possibilità al Partito di Dio di «rifiatare e consolidare la propria posizione» all’interno del Paese dei cedri. Secondo la sua previsione, Hezbollah continuerà a sfruttare la debolezza degli altri partiti e delle istituzioni libanesi, oltre che dei sunniti, dei cristiani e dei drusi che si trovano «in uno stato di disorientamento».

 

Tutti soddisfatti per il mandato di arresto di Netanyahu [a cura di Chiara Pellegrino]

 

Un altro tra i temi più commentati della settimana è il mandato di arresto emesso la settimana scorsa dalla Corte penale internazionale nei confronti di Netanyahu e dell’ex ministro della Difesa israeliano Gallant. La decisione è stata accolta con un certo entusiasmo da tutti i media arabi, a prescindere dai loro orientamenti e dalle loro linee editoriali, cosa che accade abbastanza raramente. Per Saeed Shehabi, penna di al-Quds al-‘Arabi, si tratta di una buona notizia, anche se «un conto è emettere una sentenza, un altro è attuarla». La sua attuazione non è per nulla scontata, spiega Shehabi, anche perché non sarebbe la prima volta che il mondo occidentale delude le aspettative. Come l’America ha posto il veto quando si trattava di votare una Risoluzione «di buon senso» come il cessate il fuoco a Gaza, così potrebbe esercitare delle pressioni politiche affinché la Corte revochi la sentenza. I primi segnali di questa tendenza si sono già avvertiti, prosegue l’editoriale: «Gli Stati Uniti, il principale sostenitore diplomatico di Israele, senza essere neppure membri della Corte penale internazionale, si sono già espressi contro la decisione della Corte». Washington, conclude Shehabi, «è disposta a sacrificare l’ordine internazionale e la pace nel mondo per proteggere un leader accusato di genocidio e omicidio di massa su larga scala».

 

Soddisfazione per il mandato d’arresto traspare anche nell’editoriale firmato dallo scrittore siriano Omar Kouch, che su al-‘Arabi al-Jadid definisce la decisione «storica». La risoluzione, scrive, «contribuisce a svelare la verità sul volto democratico che Israele cerca di presentare al mondo, e rivela come esso sia in realtà uno Stato guidato da un criminale di guerra arrogante e razzista». La decisione dell’Aja è considerata positiva perché contribuisce «a far crescere la rabbia internazionale per la guerra di sterminio che Netanyahu sta conducendo da più di un anno contro i palestinesi nella Striscia di Gaza», oltre ad avere effetti molto concreti, come impedire a Bibi di tenere in futuro qualsiasi discorso alle Nazioni Unite – «così non potrà più attaccare le Nazioni Unite dal suo pulpito, come ha fatto il 27 settembre scorso davanti all’Assemblea generale». Kouch riflette inoltre sulle ripercussioni politiche, sicuritarie ed economiche del mandato d’arresto soffermandosi in particolare sulle conseguenze nefaste per i contratti di compravendita di armi che Israele è solito stipulare con i Paesi occidentali. Le leggi dei Paesi europei, conclude Kouch, impediscono loro di fare accordi commerciali con Paesi i cui politici commettono crimini di guerra e contro l’umanità.

 

Anche lo scrittore iracheno Adham Ibrahim sul quotidiano filo-emiratino al-‘Arab parla di «un passo storico per la giustizia della causa palestinese». La sentenza dell’Aja «conferma al mondo la legittimità della causa palestinese e fa sperare nella fine dell’occupazione israeliana che va avanti da decenni, durante i quali i palestinesi hanno dovuto affrontare sfollamenti e violenze all’ombra delle brutali politiche israeliane».

 

Il mandato d’arresto per Netanyahu e Gallant «potrebbe essere un primo passo, anche se formale, per rendere giustizia alle vittime», commenta su al-Sharq al-Awsat il professore libico Jebril Elabidi. Il mandato «è in sé un salto di qualità nel perseguimento dei criminali di guerra e dei responsabili delle guerre e dei genocidi, e ha smosso le acque stagnanti nel dossier di condanna dei leader israeliani, rendendoli addirittura semi-isolati a livello internazionale». Le persone, prosegue l’editoriale, «sono contente della decisione e non la considerano affatto una pagina nera nella storia dei popoli», come Netanyahu da definito la decisione della Corte. Elabidi accusa inoltre Joe Biden di continuare ad alimentare «l’arroganza» del Primo ministro israeliano opponendo il suo rifiuto alla decisione dell’Aja, ciò che peraltro contribuisce anche ad alimentare l’idea israeliana che il mandato sia una «decisione anti-semita». Il mandato d’arresto, conclude l’articolo, è un segnale anche per i generali che hanno preso parte alla guerra, una sorta di monito a scendere a più miti consigli per timore di «ritrovarsi in cella con Netanyahu».

 

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