La coltivazione di oppio genera profitti per i talebani ma è al tempo stesso fonte di sussistenza per moltissimi afghani
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:39:32
Beige. È questo il colore prevalente dell’Afghanistan. Sorvolando il Paese in elicottero, al seguito delle Forze armate italiane, si assiste allo spettacolo di una natura primordiale. Al deserto infinito, si intervallano le increspature di montagne antiche. I corsi d’acqua sono rari. Ancor meno le tracce di vita umana.
Poi, improvvise, appaiono agli occhi chiazze di verde intenso. È una vegetazione luminosa, che sprigiona una voluttà contrastante con il nulla che vi è intorno. «Quelle sono tutte coltivazioni di oppio», urla nell’interfono l’ufficiale che mi sta a fianco. «Non c’è piantagione o piccolo appezzamento dove non siano coltivati i papaveri».
L’Afghanistan è un narco-Stato. Sono ormai in tanti a definirlo così. L’Unodc, l’agenzia Onu per il controllo della droga e la prevenzione del crimine, è arrivata alla stessa conclusione. Il regno dei talebani, il rifugio di al-Qaeda, il ring degli scontri tra l’Occidente e le correnti più fanatiche dell’Islam – tutto questo a giudizio dei più e forse in maniera approssimativa – oggi sta cambiando identità. È una deriva lontana dalle ideologie quella presa dal Paese degli aquiloni. Non è più lo scontro fra religioni e civiltà a fare da base esplicativa della sua condizione di guerra costante. Sono al contrario le centinaia di milioni di dollari, che costituiscono il volume di affari del traffico internazionale di eroina, all’origine dell’instabilità.
Erano 700 milioni di dollari due anni fa. Per il 2013, si prevede un utile di un miliardo per i narcotrafficanti che gestiscono la produzione di oppio in Afghanistan. Lo scorso anno, il Paese ha sopperito al 75% della domanda mondiale di eroina. Si calcola un balzo in avanti al 90% per la fine del 2013. Cifre di queste dimensioni inducono a parlare del settore in maniera strettamente economica. Come se si trattasse di un qualsiasi prodotto commerciale.
Ma il papavero da oppio uccide. In Occidente come nello stesso Afghanistan. Secondo il Dipartimento di Stato Usa, l’utilizzo di stupefacenti coinvolge almeno 1,3 milioni di cittadini afgani.
L’oppio è alla base della raffinazione dell’eroina e di tutti i suoi derivati da laboratorio. Droghe sintetiche spacciate nei parchi e nelle discoteche delle città occidentali. Stupefacenti che mietono vittime nelle generazioni più giovani delle nostre società. È tutto vero. Ma è altrettanto vero che sempre l’oppio resta la fonte di sopravvivenza di una grossa fetta della comunità rurale afgana. Nel Paese degli aquiloni si calcolano tra i 100 e i 154mila gli ettari coltivati e controllati dai signori della droga. Dai grandi latifondi agli appezzamenti monofamiliari, dove i papaveri crescono a fianco di ortaggi comuni.
La pianta non ha bisogno di grandi attenzioni, né di una tecnologia specializzata. La semina è veloce. La crescita dei germogli inizia con l’avvento della primavera. In questi mesi, il paesaggio del Paese muta radicalmente. Le sue valli, poco prima innevate, e le rive dei suoi magri fiumi si tinteggiano di verde scintillante. Il primo raccolto si ha dopo circa tre mesi. Poche nozioni di agronomia, che un qualsiasi contadino conosce, poca acqua – quindi nemmeno la necessità di realizzare sistemi di irrigazione importanti – e il guadagno è assicurato. Prima che il fiore sbocci, il bulbo viene inciso con un coltello. La ferita, nei giorni successivi, secerne una resina che viene prelevata a mano. La raccolta dell’oppio grezzo coinvolge intere famiglie di agricoltori: anziani, donne, bambini. Alla stregua di una vendemmia.
Difficile biasimare i coltivatori. In passato si era provato a sostituire l’oppio con altri prodotti: mais e patate, fino al pregiatissimo zafferano. Le Nazioni Unite, rappresentate in Afghanistan dall’Unodc e dalla missione Unama, si erano fatte carico di costosi progetti per la riqualificazione dell’economia nazionale. Erano convinte che i bulldozer, utilizzati per sradicare l’oppio dai campi, avrebbero estirpato anche il fanatismo talebano.
L’operazione era sensata sulla carta. Gli “studenti coranici” hanno sempre manifestato un interesse utilitaristico verso il narcotraffico. Vendere oppio grezzo significa ricavare moneta contante per l’acquisto di armi e la prosecuzione della loro propaganda. Chiudere questo rubinetto economico sarebbe stato ancora più efficace dell’intervento armato.
Ma il piano si è scontrato con la condizione sociale del Paese. Dei 31 milioni di cittadini afgani appena il 28% sa leggere e scrivere. Difficile auspicare una conversione economica in questo contesto. Difficile sperare che il contadino medio afgano disponga del know how professionale per rinunciare all’oppio e passare allo zafferano, le cui esigenze agronomiche sono altissime. O più semplicemente alla coltivazione della patata, per la quale è richiesto un terreno ad alta umidità e non le sabbie dell’Asia centrale. Ma è sufficiente un confronto di prezzi per capire il motivo per cui il destino dell’Afghanistan è quello di essere un narco-Stato. Ai mercati di Kabul, Farah, Kandahar, 4 chili di mais si vendono a 2 dollari. Su 4 chili di oppio grezzo, invece, il guadagno è di 100 dollari.
Il narcotraffico non è solo una questione talebana. Certo, signori della guerra, tribù ribelli, criminali comuni e comunque anche i talebani dall’oppio ricavano la loro fonte di conflitto. Previa coercizione, impongono a molte famiglie contadine la coltivazione del papavero. Corrompendo inoltre l’establishment politico di Kabul dimostrano un controllo capillare del Paese. Tuttavia, il problema non si limita al loro arricchimento. L’Afghanistan è un narco-Stato perché la sopravvivenza economica dei contadini afgani risiede nel narcotraffico.
Le operazioni di contrasto non mancano. La polizia afgana è impegnata su tutto il territorio nazionale per sradicare le piante, che proprio in queste settimane iniziano a germogliare. A Herat e Farah, dov’è dispiegato il contingente militare italiano, gli interventi hanno portato a risultati concreti. Qui si prevede un arresto della produzione per l’anno in corso. In controtendenza con l’aumento calcolabile per il resto del Paese. Tuttavia i circa 10mila ettari di colture distrutti nel 2012 non bastano per esporsi in previsioni ottimistiche.