Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba
Ultimo aggiornamento: 19/03/2024 09:49:52
Complice l’arrivo del nuovo anno, nel Golfo si respira un’aria di ottimismo: l’organizzazione dei Mondiali di calcio in Qatar, il vertice GCC-Cina, gli investimenti del principe ereditario saudita Mohammad bin Salman, gli ambiziosi progetti degli Emirati che vanno dalle energie rinnovabili alle missioni nello spazio rappresentano un’indubbia iniezione di fiducia per l’avvenire. Intanto Al Jazeera ritorna sulla querelle del bisht, il tradizionale soprabito qatariota che l’emiro Al Thani ha fatto indossare a Lionel Messi durante la cerimonia di premiazione della Coppa del Mondo: bollato da qualcuno come appropriazione culturale, l’omaggio del bisht rappresenterebbe invece un segno «di onore, rispetto e accoglienza», tratti distintivi della cultura araba che grazie alla manifestazione sportiva sono stati diffusi in tutto il mondo al fine di eliminare i pregiudizi negativi sul mondo arabo-islamico.
Al-Sharq al-Awsat si diverte a giocare con le previsioni politiche del 2023 che però, lo si ammette già nel titolo, hanno lo stesso valore delle predizioni astrologiche: «l’arte della profezia è ben radicata in tutto il mondo, persino nella tradizione arabo-islamica, anche se questa è chiaramente indirizzata verso il razionalismo», come testimonia il detto «gli astrologi mentono anche quando sono nel giusto»; tuttavia «il desiderio latente di conoscere il futuro ha spinto molti politici antichi e moderni a leggere ciò che accadrà», spesso non prendendoci quasi mai. L’autore nota compiaciuto come a inizio 2022 gli analisti occidentali avessero sostenuto che «Putin non avrebbe invaso l’Ucraina» e che le eventuali operazioni militari della Russia si sarebbero limitate al Donbass. Si aspettavano, invece, una grave crisi tra la Cina e Taiwan, che «però non è avvenuta». A proposito di Pechino, «si pensava che avrebbe ottenuto grandi benefici dalla ripresa post Covid, ma oggi sta affrontando una forte ondata» di contagi, anche se i dati forniti non sono attendibili a riguardo. Per quanto riguarda gli affari mediorientali, gli esperti ritenevano che l’amministrazione Biden avrebbe tenuto fermo il punto sul dossier nucleare e sulle decisioni dell’OPEC. La conclusione è sferzante: «oggi gli analisti occidentali e non dovrebbero stare attenti a dare rappresentazioni e analisi razionali di un mondo che si appresta a ballare nel teatro dell’assurdo». A proposito di previsioni, su Twitter è tornato a circolare questo vecchio intervento di Mohammad bin Salman al Future Investment Initiative forum di Riyad del 2018, in cui il principe ereditario saudita (pre)diceva che «nel giro di cinque anni il Medio Oriente sarebbe diventato la nuova Europa» e il suo Paese «sarebbe stato completamente diverso». Anche se mancano ancora alcuni mesi al compimento dei cinque anni, per i giornali arabi non c’è dubbio: la scommessa è stata già vinta.
Quasi amici. Il riavvicinamento tra Erdoğan e Assad tra velato scetticismo e profonda rassegnazione
La notizia più rilevante di questo inizio 2023 è il riavvicinamento tra il governo turco e quello siriano a dodici anni dall’interruzione dei canali diplomatici tra i due Paesi. In realtà Ankara e Damasco hanno avviato la fase preparatoria parecchi mesi fa; tuttavia, la mediazione della Russia ha accelerato il processo, culminato il 28 dicembre con l’incontro a Mosca tra i ministri della difesa russo, Sergej Shoigu, turco, Hulusi Akar, e siriano, Ali Mahmoud Abbas. Un passaggio preliminare che potrebbe portare all’organizzazione di un vertice bilaterale oppure – non è da escluderlo – a un clamoroso faccia a faccia tra i presidenti Erdoğan e Assad, in cordiali rapporti all’inizio delle loro carriere nei primi anni Duemila e divenuti “nemici giurati” dalle Primavere Arabe in avanti.
Al Jazeera analizza interessi e ostacoli del “rapprochement”. Per Assad si tratterebbe senz’altro di una importante vittoria, in quanto la riconciliazione col principale – e ormai unico – avversario nel Levante, rafforzerebbe ulteriormente la sua posizione a livello regionale e internazionale. Anche Erdoğan ricaverebbe benefici dalla “stretta di mano” con il suo omologo siriano: un possibile accordo sulla questione dei migranti e sulla sovranità del Rojava, il territorio sotto controllo delle sigle curde, due temi caldi che giocheranno un ruolo importante nelle elezioni presidenziali prevista per il prossimo 18 giugno. Non che manchino gli ostacoli: «non è facile riprendere i contatti dopo dieci anni di attacchi (in)diretti e guerre per procura». In effetti l’emittente di Doha si dimostra piuttosto cauta sulla buona riuscita dei colloqui: «siamo di fronte a uno sviluppo importante nell’approccio della Turchia alla questione siriana e nelle sue relazioni con il regime. È l’inizio di una fase nuova e diversa, ma ciò non implica un cambiamento radicale e veloce della sua posizione», che ora è «più incline a interfacciarsi con la realtà dei fatti nel rispetto degli attuali equilibri di forza, degli sviluppi degli ultimi anni e della cooperazione con il regime su dossier selezionati. Al contempo Ankara non è intenzionata a tagliare i ponti con l’opposizione siriana né a screditarla come movimento terrorista, né tantomeno a ritirarsi dalla Siria prima di una soluzione duratura, del [ritorno alla] stabilità e di un governo forte».
Decisamente pessimista la visione di al-‘Arabi al-Jadid sui negoziati. La testata panaraba londinese dedica al tema diversi articoli corredati da tetre vignette in cui tutti gli oggetti sono rappresentati a “forma di Siria”: una foglia secca, una colomba morta, un campo da calcio dove dei carri armati giocano a tirarsi una bomba al posto del pallone, un lucchetto che blocca una chiave su cui vi è la scritta “soluzione politica”. L’articolo della foglia è una amara e toccante riflessione, dal sapore quasi nichilista, che ben esprime il profondo senso di vuoto presente nella popolazione e tra gli intellettuali del Paese: «Noi siriani – esordisce il ricercatore e politico Moudar al-Debis – ci incamminiamo al funerale della realtà, perché la realtà è morta in Siria, e di questa non ha senso parlare se non attraverso il ricordo. È morto il regime ed è morta l’opposizione e se ogni fazione vuole rendere omaggio al proprio defunto, allora che lo seppellisca: è la cosa più onorevole per lui e per noi». La causa di questo “decesso” è da ricondurre al duplice fallimento della politica siriana, quello delle opposizioni democratiche nate durante i primi giorni della Primavera Araba e quello del regime, che ha represso il dissenso nel sangue. Per l’autore, chi oggi proclama la sua lealtà al governo centrale non lo fa per ragioni ideologiche e nemmeno per questioni identitarie o confessionali: semplicemente si sostiene Assad per convenienza, spesso per necessità, ma soprattutto per inerzia. Il prolungarsi delle violenze ha creato un clima surreale sempre uguale a sé stesso: il Paese è sospeso in un «non-tempo» e in un «non-nuovo» dove si vive nella spasmodica attesa della fine del conflitto. «“Fino a quanto?” la risposta teorica a questa domanda è molto semplice: finché non nascerà una realtà nuova». La frase è volutamente fumosa, perché se è vero, come assicura al-Debis, che rifondare la realtà è sulla carta sempre possibile, è altrettanto certo che l’assenza dei presupposti materiali trasforma il cambiamento in qualcosa di evanescente e di sfuggevole. L’articolo del lucchetto, invece, ricorre a un esempio storico e paragona il governo di Assad a quello dei califfi abbasidi che nel Basso Medioevo persero gradualmente il controllo del loro impero rimanendo autocrati solo di nome, mentre nei fatti il governo e l’amministrazione passavano nelle mani di turchi e mongoli. Allo stesso modo «Bashar Assad oggi è solo il presidente formale di un’autorità che sarebbe durata solo qualche mese dopo la rivoluzione siriana della primavera del 2011, se non fossero intervenuti al suo fianco sia l’Iran che la Russia». Lungi da essere un punto di svolta, i colloqui tra Ankara e Damasco segnano piuttosto il proseguimento dello status quo e la sopravvivenza del regime, ormai ombra di sé stesso.
Due ritratti di “Binidiktus” XVI tra Hans Küng e Rashid Rida…
Nel mondo arabo la notizia della morte del papa emerito non è andata tanto oltre le veline delle agenzie stampa, anche se non sono mancate alcune analisi più articolate, stranamente non incentrate sul discorso di Ratisbona. È il caso di al-Quds al-‘Arabi, che in un lungo articolo (“Benedetto XVI e il futuro dei cattolici”) accosta la sua figura a quella di un altro teologo del Novecento, lo svizzero Hans Küng, scomparso il 21 aprile 2021, profondamente critico sul pontificato di Benedetto e amato nel mondo arabo-musulmano per le sue aperture nei confronti della missione profetica di Muhammad. Malgrado le loro divergenze dottrinali, i loro studi sul rapporto tra fede e ragione rimangono centrali per la Chiesa: «con la loro dipartita – scrive il giornalista libanese Wisam Sa‘ada – si è creata una barriera simbolica tra la teologia cattolica del XX secolo e quella che può spiegare le ansie, le preoccupazioni e le aspirazioni dei cattolici figli di questo secolo». Al-‘Arabi al-Jadid si sofferma sull’eredità intellettuale e spirituale di Benedetto, senza però andare al di là dei cliché circolati sulla stampa occidentale e accennando all’ “animo conservatore” che ne avrebbe caratterizzato il pontificato, in contrasto con gli anni del Concilio Vaticano II, quando il teologo Ratzinger era invece considerato un progressista: «in parecchi casi di riforme religiose fondate sulla contemporaneità e mosse dai quesiti della logica moderna si osservano brusche regressioni che hanno portato all’esatto contrario. Il papa ne è stato un chiaro esempio». L’autore dell’articolo, il giornalista iracheno ‘Ammar al-Sawad, si avventura in comparazioni azzardate – per non dire improponibili –, scrivendo che papa «Binidiktus» non fu l’unico a intraprendere un percorso del genere: anche nel mondo islamico si ritrovano figure simili. Per esempio, il libanese Muhammad Rashid Rida, uno dei più importanti giuristi e pensatori islamici vissuti a cavallo tra XIX e XX secolo, iniziò la sua carriera «come riformatore, ma diventò salafita» a seguito delle «forti emozioni» suscitate dalle conseguenze della Prima guerra mondiale: creazione del sistema coloniale in Medio Oriente, collasso finale dell’impero ottomano e abolizione del califfato. Allo stesso modo, l’egiziano Sayyd al-Qutb, figura di spicco della Fratellanza Musulmana, si “radicalizzò” durante il suo soggiorno di studio negli Stati Uniti, così come il filosofo iracheno Muhammad Baqir al-Sadr «si spostò dalla razionalità alla follia dell’affiliazione ideologica di fronte alla prova della rivoluzione iraniana». Secondo l’autore, la differenza tra gli intellettuali musulmani e il teologo tedesco starebbe proprio nel diverso atteggiamento adottato: Ratzinger, una volta compreso che le sue posizioni non erano più in linea con gran parte della Chiesa, ha preferito fare un passo indietro per proteggere l’istituzione; al contrario, altre figure religiose hanno deciso di proseguire con le loro esternazioni, «mettendo a repentaglio i movimenti» di cui erano a capo.