Dai manoscritti del Mar Morto alla bolla del Dot-com, George Kiraz ha fatto della promozione della cultura siriaca la missione della vita. Con implicazioni ecumeniche
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:59:51
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Intervista a cura di Martino Diez
Martino Diez - Nell'introduzione al tuo New Syriac Primer scrivi che «il siriaco può essere una passione (o una follia!), non solo una lingua» (p. XX). Da dove ti viene questa passione?
George Kiraz- Quando ero bambino a Betlemme, mio padre mi mandava a studiare siriaco con mia sorella dal prete locale. Ovvio, ai bambini non piace fare compiti extra in estate... Mio padre ci dava 2,50 qurūsh (piastre) come paghetta settimanale in cambio dello studio del siriaco: giusto il prezzo di un gelato! Poi però mi disse che il prete aveva chiesto se potevo entrare nel gudo, il coro liturgico. Questo richiedeva d’imparare meglio il siriaco ed è lì che è iniziata la passione. Naturalmente, tutti in chiesa mi dicevano che ero un “bravo ragazzo”, shātir, e forse anche questo ha avuto il suo peso all’inizio. Poi la passione si è trasformata in follia.
MD - Una follia che si manifesterà pienamente negli Stati Uniti...
GK - Ho terminato la scuola superiore a Beit Jala nel 1983. Subito dopo, mi sono trasferito a Los Angeles con mia madre, raggiungendo mia sorella che viveva già negli Stati Uniti. Lì ho frequentato l’università: ingegneria elettrica, proprio lo schema dei ragazzi mediorientali!
Nel 1984 ho seguito il mio primo corso di programmazione informatica. Al mio professore dissi che volevo creare un programma per scrivere in siriaco. «È difficile», mi rispose, ma alla fine, due anni dopo sono riuscito a sviluppare un font con Multi-lingual scholar, un programma DOS. Andavamo alla Società di Letteratura Biblica a mostrare il software per venderlo agli studiosi, perché funzionava con siriaco, arabo ed ebraico, e in una di queste occasioni sono stato invitato a presentare il programma al Symposium Syriacum di Lovanio, in Belgio. Era il 1988. Alla conferenza ho fatto un intervento, ma soprattutto, ho incontrato Sebastian Brock: ricordo di avergli parlato, spiegandogli che mi ero messo a fare siriaco per la Chiesa e per la conservazione della tradizione, ma che ora volevo occuparmene a livello accademico. Mi ha invitato a fare domanda per un programma a Oxford e sono stato accettato. In realtà ci fu un malinteso sulla tempistica, perché io volevo prima terminare la laurea triennale, ma alla fine mi sono trasferito a Oxford nel 1990 e ho iniziato il master. Il piano era fare solo un anno di pausa, prendere il master, tornare negli Stati Uniti e trovare lavoro come ingegnere. Ma dopo una settimana mi sono reso conto che sarei rimasto, mi piaceva. Quello è stato il momento in cui tutto è cambiato.
MD - Il profondo interesse per la conservazione del patrimonio non è nuovo alla tua famiglia. Se non mi sbaglio, i manoscritti del Mar Morto sono stati nella casa di tuo padre per alcune settimane subito dopo la loro scoperta...
GK - Sì, mio padre era amico del Vescovo Samuel[1] di Gerusalemme e nel 1947, quando i manoscritti erano appena stati scoperti, Samuel li acquistò. A un certo punto, ebbe bisogno di fondi e chiamò mio padre dicendogli che c’era un antiquario ebreo pronto a comprare i manoscritti. Secondo mio padre – ma la versione è disputata, come qualsiasi cosa che riguardi i manoscritti del Mar Morto – lui consigliò al Vescovo di non venderli e di capire quanto valessero. Alla fine mio padre fornì a Samuel i fondi che gli servivano, divennero soci e lui si portò i manoscritti a casa nostra.
Poco tempo prima, ancora durante il mandato britannico, mio padre aveva conosciuto Eleazar Sukenik, il famoso archeologo israeliano: mentre costruiva una casa a Gerusalemme, aveva trovato una grotta con alcuni resti, aveva chiamato il Dipartimento Palestinese delle Antichità per fare delle ricerche, loro avevano mandato Sukenik e in questo modo si erano conosciuti. Mio padre decise allora di portare i Manoscritti da Sukenik. I disordini erano già iniziati e i due s’incontrarono nella no man’s land, alla sede della YMCA. I manoscritti restarono a casa nostra per alcuni mesi, fino a quando il Vescovo Samuel decise di mostrarli a John Trever, dell’American School of Oriental Researches (ASOR). Il resto della storia è nelle memorie di mio padre, di cui ho curato l’edizione.
MD - Sembra che fossi predestinato a lavorare sui manoscritti... La tua famiglia era originaria di Betlemme?
GK - No, la mia famiglia viene da Harput, nel sud dell’Anatolia, una città tra Diyarbakir e Malatya. In seguito al genocidio del 1915, molti sopravvissuti siriaci ripararono ad Adana, che dopo la capitolazione dell’Impero Ottomano si trovava sotto il controllo francese. I francesi aprirono orfanotrofi e scuole per i sopravvissuti, ma vennero sconfitti dalle truppe kemaliste e nel 1922 furono costretti ad andarsene. I siriaci e gli armeni, che avevano appena subito il genocidio, non avevano alcuna intenzione di rimanere sotto il dominio turco e andarono al sud, in Libano. E nel nostro caso, a Betlemme.
MD - Tornando a te: tra le molte cose che hai realizzato, hai fondato una casa editrice, Gorgias Press, che si è fatta un nome per la qualità delle sue pubblicazioni. Era un progetto previsto fin dall’inizio?
GK - No, è stato uno sviluppo tardivo e casuale. Dopo aver terminato il dottorato, iniziai a lavorare per i Bell Labs: appartenevano alla AT&T e all’epoca erano il luogo della ricerca tecnologica in America; per dire, ai Bell Labs hanno scoperto il laser, hanno creato il sistema operativo UNIX, il linguaggio di programmazione C:… In media rilasciavano 1,5 nuovi brevetti al giorno! Erano una potenza scientifica che controllava tutte le telecomunicazioni negli Stati Uniti, prima che il governo smembrasse la società perché era diventata troppo grande. In ogni caso, io stavo all’interno del dipartimento di ricerca, il che era molto positivo perché facevo ricerca non orientata. Ero autorizzato a fare qualsiasi cosa volessi, proprio come avviene all’Istituto di Studi Avanzati [di Princeton]. E avevo uno stipendio di livello manageriale, anche questo era molto positivo. Il siriaco era sempre presente, ma come un aspetto secondario. Verso la fine degli anni ’90 però mi resi conto che volevo diventasse la cosa principale. In quel momento si era in piena bolla Dot-com[2], non so se ne hai sentito parlare. Mi confrontai con Christine, mia moglie, e le dissi che volevo lasciare i Bell Labs, unirmi a una delle nuove start-up, lavorare duramente per tre-quattro anni, fare qualche milione e usarlo per finanziare Beth Mardutho (“La casa della conoscenza”), l’Istituto di Studi Siriaci che mia moglie e io avevamo fondato. All’epoca infatti Beth Mardutho esisteva già, ma solo sulla carta: noi invece volevamo farne un posto reale.
Il logo dell'Istituto Siriaco Beth Mardutho
Così lasciai i Bell Labs e nel giro di un mese ricevetti cinque offerte di lavoro, una migliore dell’altra. Da ultimo, andai a finire in un’azienda di tecnologie vocali della Silicon Valley. Volevano qualcuno per aprire una sede a New York, trovai un ufficio a Wall Street e la cosa li impressionò molto. Assumemmo del personale e tutto sembrava molto promettente. Ci pagavano in stock options e le azioni salivano sempre di più. Almeno sulla carta iniziavamo a vedere le sei cifre... Mi immaginavo che in quattro anni avrei messo da parte il milione di dollari per finanziare Beth Mardutho.
Nove mesi dopo, nel marzo del 2000, ci fu il Dot-com crash. La maggior parte delle aziende non aveva alcun prodotto in mano, si trattava solo di idee e a un certo punto il mercato crollò. Le azioni precipitarono da circa 200 dollari l’una a 30 dollari, in un sol giorno. Delle cinque società che mi avevano offerto lavoro, quattro fallirono in meno di una settimana. Tutto era perduto, compreso il mio lavoro. Decisi che non volevo lavorare per un’altra società. Fu in quel momento che Christine e io pensammo di creare la casa editrice Gorgias Press. Da allora è venuta su un pezzo alla volta. Più avanti, abbiamo approfittato della crisi immobiliare del 2008 per comprare la proprietà in cui ci troviamo ora. Inizialmente era stata progettata come ufficio per Gorgias Press, ma quando vidi la stanza in cui siamo seduti adesso, mi resi conto che era perfetta per Beth Mardutho. Così relegammo la povera Gorgias nel seminterrato, riservando la zona migliore a Beth Mardutho. Portammo qui anche i miei libri personali, che costituiscono la stragrande maggioranza di quelli che vedi. E questo è il punto a cui siamo arrivati.
MD - A proposito, da dove viene il nome Gorgias? Da Gorgia il sofista? E perché questa scelta?
GK - Beh, eravamo convinti che se avessimo aperto una casa editrice incentrata solo sul Cristianesimo orientale, non avrebbe avuto mercato. Abbiamo pensato di lavorare anche sui classici. Ci siamo messi in cerca di nomi e mi sono imbattuto in Gorgias, che assomigliava al mio nome...
MD - Esatto!
GK - ...e sembrava anche classico. È per questo che lo abbiamo scelto. Ma per quanto riguarda i classici, devo dire che abbiamo completamente fallito, perché non è il nostro settore di specializzazione. Ci siamo fatti conoscere per il Cristianesimo orientale, per il siriaco, più recentemente per gli studi arabi, islamici, ebraici... tutto fuorché i classici.
MD - Quali sono i risultati di cui sei più orgoglioso, in termini di libri pubblicati da Gorgias?
GK - Ancora una volta, tutto è iniziato per caso! Quando abbiamo aperto Gorgias, ho contattato alcuni studiosi durante una conferenza sulla Peshitta [la traduzione siriaca della Bibbia] tenutasi a Leiden nel 2001 e molti di loro hanno accettato di scrivere dei libri per noi. Ma mi sono reso conto che prima che i libri fossero pronti sarebbero passati degli anni e nel frattempo dovevamo sopravvivere. Allora ho passato in rassegna la mia biblioteca e ho selezionato dodici libri antichi non coperti da copyright, che sapevo le persone avrebbero voluto avere sui loro scaffali. Bisogna tornare indietro nel tempo a un’epoca in cui non c’era archive.org né Google books. Le ristampe sono state un successo e abbiamo cominciato a ricevere gli ordini. E per i primi cinque anni il business è stato quello.
Questa esperienza mi ha dato l’idea di ristampare i cinque volumi dell’edizione di Bedjan delle omelie di Giacomo di Sarough. Successivamente, Sebastian Brock ha aggiunto un sesto volume. Secondo me, questo è uno dei nostri più grandi risultati, perché nessuno aveva la serie completa dei cinque volumi. Io ne avevo uno, Sebastian Brock due, ma nessuno li possedeva tutti tranne il Seminario Teologico di Princeton. Ma la biblioteca del Seminario aveva fatto una rilegatura così stretta dei volumi che era impossibile scansionarli. In ogni caso, alla fine siamo riusciti ad avere delle copie di tutti i volumi da diverse persone: è stato un vero sforzo cooperativo.
In arabo, il progetto che mi è piaciuto di più è stata la ristampa della storia universale di Tabarī, Tārīkh al-rusul wa-l-mulūk, nell’edizione di De Goeje, con il titolo sul dorso del libro, come si usa in Medio Oriente. E ora stiamo lavorando a un ambizioso progetto riguardante la Masora siriaca, cioè lo studio filologico della Bibbia siriaca.
MD - E Michele il Siro?
GK - Oh sì, anche questa è una storia interessante! Abbiamo un solo manoscritto siriaco che preserva la cronaca capolavoro di Michele: è un manoscritto del XVI secolo inizialmente custodito a Edessa e portato ad Aleppo dopo il genocidio. L’orientalista francese Jean-Baptiste Chabot, che fu il primo a pubblicare le cronache di Michele tra il 1899 e il 1910, era riuscito a farsene fare una copia, ma non fu mai in grado di acquisire l’originale. Io volevo pubblicare in un’unica opera la traduzione di Chabot, il riassunto armeno e le versioni in Garshuni [arabo scritto in caratteri siriaci], ma sfortunatamente il piatto principale, il testo siriaco, avrebbe dovuto essere solo una riproduzione della copia di Chabot, dal momento che la comunità siriaca di Aleppo non permetteva di fotografare il prezioso manoscritto. Lo conservavano in una cassaforte con tre chiavi differenti, una in mano al Vescovo e le altre due custodite da due laici: la cassaforte si apriva solamente se i tre si mettevano d’accordo.
La cronaca di Michele il Siro
Sapendo che lo avrebbe preso a cuore, presentai il progetto a S.E. Hanna Ibrahim, il Vescovo siriaco di Aleppo, spiegandogli quanto fosse spiacevole doversi basare sulla copia di Chabot. Il modo in cui glielo presentai e, forse, la possibilità di diventare un curatore del volume lo entusiasmarono e disse: «No, George, vedrai che un modo lo troveremo!». Parlò con la gente e riuscì a convincerla. La cosa richiese un’enorme quantità di fondi, che fui in grado di raccogliere grazie a un benefattore. Inizialmente pensavamo di assumere un fotografo locale, ma poi decidemmo di fare affidamento sul personale dell’HMML[3], che stava già lavorando a un progetto di digitalizzazione ad Aleppo. Tutti i tasselli andarono al loro posto e alla fine organizzammo una conferenza ad Aleppo per celebrare la digitalizzazione del manoscritto: fu appena due anni prima che iniziassero i problemi in Siria.
MD - Il nome del Vescovo Hanna Ibrahim riporta immediatamente a un tragico presente: è uno dei tre vescovi rapiti dall’ISIS. Dall’esterno potrebbe sembrare che gli studi siriaci siano rivolti al passato, ma in realtà dietro c’è una comunità vivente. Come vedi l’attuale situazione dei cristiani e, in particolare, della comunità siriaca in Medio Oriente? C'è un futuro per loro lì?
GK - La crisi siriana è stata un duro colpo per la comunità siriaca. Sarà il tempo a dirlo, ma potrebbe essere devastante come il genocidio del 1915. Ovviamente, non è possibile fare un paragone in termini di vittime, ma l’intensità del colpo potrebbe essere simile. Nel 1915 la comunità siriaca in Anatolia fu quasi annientata e i sopravvissuti si spostarono a sud, stabilendosi in diversi paesi arabi. Dal 1915 ad oggi, c’è stato il conflitto arabo-israeliano, che ha svuotato la maggior parte delle aree palestinesi, seguito dalla guerra civile libanese. Dal 2003 in avanti è stato il turno dell’Iraq e un gran numero di persone se ne è andato anche da lì. L’ultimo paese stabile era la Siria. Non metto in discussione il fatto che fosse un regime e una dittatura, ma la comunità cristiana lì prosperava. Con la guerra siriana, molti se ne sono andati e adesso, probabilmente, ci sono più siriaci nella diaspora che in Medio Oriente.
Il problema della diaspora è che le persone non restano culturalmente distinte dalla corrente maggioritaria per più di qualche generazione, questo è un dato di fatto. I migranti siriaci hanno cominciato ad arrivare negli Stati Uniti negli anni ’80 dell’Ottocento e poi dopo il 1915 in numeri molto più grandi. Solo pochi dei loro discendenti sono ancora membri della nostra comunità, gli altri sono diventati americani come tutti gli altri. Sono sicuro che siano ancora in giro, ma se non sono attivi nelle nostre parrocchie, non fanno più parte della comunità siriaca e potrebbero persino ignorare di appartenervi.
In Medio Oriente non devi andare in chiesa per essere suryānī (siriaco). Se non ti sposi, potresti entrare in chiesa solo due volte nella vita, per il battesimo e per il funerale! Eppure, saresti ancora un suryānī, tutti sanno che sei suryānī, tu sai di essere suryānī. Non è così negli Stati Uniti e in Europa. Se non pratichi, soprattutto se non hai una comunità attorno, scompari. A causa della natura dell’Europa e per il fatto che lì il melting pot è più lento rispetto agli Stati Uniti, le comunità potrebbero sopravvivere di più, forse per tre o quattro generazioni, ma l’esito finale è lo stesso. Negli Stati Uniti la nostra Chiesa, dagli anni ’80 dell’Ottocento fino ad oggi, è sempre stata una chiesa di immigrati. Ormai dovrebbe essere una Chiesa di americani siriaci, ma con l’arrivo di nuovi migranti, le vecchie generazioni sono, per così dire, buttate fuori e scompaiono. Ora però la sorgente da cui provengono i migranti sta per prosciugarsi. Che succederà allora? Stiamo parlando della scomparsa totale della cultura siriaca: potrebbero volerci cinquanta o cento anni, ma questa è la tendenza. Senza dimenticare che nel frattempo i problemi in Medio Oriente sono lungi dall’essere risolti.
MD - Questa triste constatazione mi porta alla prossima domanda. Al di là della tua attività professionale, sei diacono della Chiesa Ortodossa Siriaca. Come vedi la tua missione negli Stati Uniti? Si tratta solo di preservare il passato? È indirizzata a una comunità etnica o linguistica?
GK - Il mio lavoro ha due aspetti: lo studio del siriaco in sé, per cui ho a che fare principalmente con persone di tradizione non siriaca. È un po’ un peccato, ci piacerebbe avere più persone di tradizione siriaca negli studi siriaci, ma si sa, devono diventare tutti ingegneri... Questa parte del mio lavoro occupa più della metà del mio tempo. Dall’altro lato, ci sono le attività all’interno della comunità, nel tentativo di preservare la lingua e la cultura. Provo a fare delle cose che funzionino per entrambi gli aspetti e a volte le attività si sovrappongono, ma non sempre.
MD - Secondo lo studioso francese Olivier Roy, oggi molte persone sono alla ricerca di forme personalizzate di religiosità che sono disconnesse da un determinato patrimonio culturale. Questo, secondo lui, potrebbe anche aiutare a spiegare il successo del salafismo nell’Islam, perché è un movimento basato sulle Scritture che non presta attenzione alle tradizioni locali. La Chiesa siriaca è, per così dire, l’opposto: è indissolubilmente legata alla cultura, che ha modellato nei minimi dettagli. Questa tradizione, attraverso iniziative appropriate, può resistere alla tendenza alla semplificazione o semplicemente richiede troppo studio per la gente comune?
GK - È una grande sfida. Come è stato detto, in Medio Oriente si è suryānī da un punto di vista culturale. Non bisogna andare in chiesa.
MD - Ma l’altra faccia della medaglia è che in Medio Oriente, se non sei nato suryānī, non puoi diventarlo, soprattutto se non sei cristiano.
GK - Giusto. E anche se cambi, sei suryānī di riflesso. Ad ogni modo, il problema è la tendenza all'individualismo e il grande interrogativo per noi è come far rimanere i giovani nella comunità. La gente pensa che ci sia una formula magica, ma non è così. È una questione molto complessa, perché se cerchi di offrire quello che la maggior parte della gente vuole, non ha senso avere una chiesa siriaca, potrebbero benissimo andare nella chiesa evangelica più vicina.
Il nostro patrimonio è un triangolo con tre vertici: la Bibbia, i Padri della Chiesa e la Tradizione. La Bibbia da sola non funziona; non funzionano neppure i Padri della Chiesa o la Tradizione da soli. Per fare una chiesa siriaca, servono tutti e tre. Nelle nostre comunità americane assistiamo già a una concentrazione esclusiva sulla Bibbia: ora è diventata munzal (“rivelata senza intervento umano”), una nozione estranea alla nostra storia. Notiamo che ci sono più sermoni e meno liturgia, perché quest’ultima è troppo lunga ed è in siriaco. Se questa è la tendenza, allora basta andare nella chiesa evangelica della porta accanto, fanno meglio il loro lavoro. In fondo la domanda è semplice: vuoi il patrimonio siriaco o no? Molti tra noi non capiscono né apprezzano il patrimonio. E anche se cerchi di spiegarglielo, è difficile comprenderlo, se non ci sei cresciuto insieme. Il mio non è un giudizio etico: il tizio che entra nella Chiesa evangelica della porta accanto potrebbe essere un cristiano migliore di me, che pure sono un diacono. Ma il Cristianesimo siriaco è una religione di cultura. Togli la cultura, non c’è Cristianesimo siriaco.
MD - Questo mi porta all’ultimo punto. La Chiesa siriaca, come hai detto, è una chiesa basata sulla tradizione. Nel mondo esistono altre Chiese basate sulla tradizione, in particolare quella cattolica e quella ortodossa bizantina. La scissione ha notoriamente avuto origine nel Concilio di Calcedonia del 451 e, 1500 anni dopo, penso sia giusto riconoscere che quanti erano contrari a Calcedonia non credevano che la divinità di Cristo avesse assorbito la sua umanità e quanti erano a favore di Calcedonia non stavano smembrando Gesù in due realtà differenti. Questa crescente consapevolezza ha aperto la strada ad alcune dichiarazioni cristologiche comuni e a un lento percorso ecumenico. Pensi che, nel prossimo futuro, questo percorso possa portare da qualche parte? E soprattutto, potrebbe rispondere alla domanda sul come far rimanere i giovani all’interno della tradizione siriaca?
GK - Il percorso è molto lento, fastidiosamente lento. Ci sono pro e contro in ogni cosa. Il vantaggio dell’unità è che continueremo ad esistere nel futuro, perché altrimenti c’è troppa frammentazione. Lo svantaggio delle unioni, per la minoranza, è che si finisce facilmente per essere fagocitati. Immaginiamo un’unione completa tra la Chiesa Cattolica Romana e la Chiesa Ortodossa Siriaca: le dimensioni sono talmente incomparabili che per noi non ci sarebbe futuro, qualsiasi cosa restasse del patrimonio siriaco sarebbe consumata e assimilata. Forse la strada migliore, che è già stata in gran parte realizzata con la Chiesa Cattolica sebbene non completamente, è avere degli accordi che permettano il reciproco accesso ai sacramenti, ma mantenendo l’identità, la liturgia e le pratiche della Chiesa minoritaria.
La preghiera del Padre Nostro in siriaco
Nel mio caso, ogni domenica mi tocca fare un’ora di autostrada per andare in chiesa, nel nord del New Jersey. Il prossimo anno mia figlia andrà all’università nel Jersey del sud e chiederà all’amministrazione se può avere una macchina, perché qualche volta le piacerebbe andare in chiesa e le chiese più vicine per lei saranno a Philadelphia e nel Jersey settentrionale. Se avessimo un’unione totale, la gente direbbe: «C’è una chiesa cattolica qui vicino, perché dovrei farmi un’ora di macchina?». Questo ucciderebbe la chiesa minoritaria. È tutta questione di come fare un’unione che preservi la cultura della chiesa minoritaria. Ancora una volta, l’intero problema ruota attorno alla religione come cultura. Quando la religione diventa una cosa individualista, puoi andare da qualsiasi parte, non c’è differenza.
Per me, ciò che è estremamente fastidioso è l’atteggiamento degli ortodossi bizantini. Con la Chiesa Cattolica ci sono questi accordi, ma se entro in una chiesa greca, molto probabilmente mi daranno del monofisita.
MD - Tuttavia, un’unione completa sarebbe auspicabile, no?
GK - Se le due chiese avessero le stesse dimensioni e lo stesso potere, allora l’unione avrebbe assolutamente senso. Ma voglio raccontarti un aneddoto interessante su mia figlia e su come non avere un’unione totale permette di preservare l'identità della minoranza. Mia figlia e mio figlio sono entrambi andati in scuole cattoliche. Quando è arrivato il momento di fare la Comunione, sono stati esclusi, semplicemente perché il prete o la suora non sapevano che ci fossero degli accordi per l’accesso ai sacramenti. Ho esaminato la questione e ho scoperto che la Conferenza dei Vescovi Cattolici degli Stati Uniti ha dato delle precise istruzioni per le scuole cattoliche su come comportarsi con le altre denominazioni. Dal momento che mia figlia era turbata per il fatto di essere stata esclusa, le ho parlato e le ho detto che potevamo andare a parlare con il prete e mostrargli il documento. Ma lei ha replicato: «No, così non la voglio la Comunione». Era molto giovane all’epoca, stava frequentando la scuola elementare, ma l’esperienza di essere messa da parte le ha dato un senso più profondo di Suryoyutho, “siriacità”. Avere una lingua e dei riti differenti ci dà un senso di identità. Lo dico sempre: le minoranze a volte hanno bisogno di un po’ di persecuzione per conservarsi. Il problema in America è che non c’è proprio nessuna persecuzione.
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[1] Si tratta del Metropolita siro-ortodosso di Gerusalemme Athanasius Yeshue Samuel (1909-1995), una figura centrale nella scoperta dei manoscritti del Mar Morto (NdR).
[2] La bolla speculativa che ebbe luogo tra il 1997 e il 2000 riguardante le aziende informatiche e, in particolare, quelle che lavoravano nell’ambito di internet (NdR).
[3] HMML sono le iniziali di Hill Museum and Manuscript Library, un'iniziativa dei monaci benedettini per preservare i manoscritti a rischio in tutto il mondo: http://hmml.org, NdR