Quale risposta può dare il pensare cristiano all’irragionevolezza della guerra e della violenza?
Ultimo aggiornamento: 28/06/2024 10:42:24
Quale risposta può dare il pensare cristiano all’irragionevolezza della guerra e della violenza? Ogni volta che ci si confronta con l’assurdità della distruzione messa in atto dall’uomo, parrebbe opportuno tacere, dal momento che ciascuno si scopre implicato nella volontà di annichilimento perseguita in ultima analisi contro sé medesimo.
Eppure, nemmeno il silenzio rende ragione, perché tacere sarebbe solo l’estremo sottrarsi al coinvolgimento implicato dal mondo globale e prima ancora dalla comune appartenenza all’umanità. Lo sguardo sapiente invece sa cogliere, nella desolazione, lo spiraglio di luce perché si possa ancora dire, come Francesco in terra d’Albania, che «il Signore sa come portare avanti la storia».
L’affermazione non è la delega di chi si riconosce limitato e si arrende al fideismo, ma la salda percezione della propria misura. Per questo motivo si rendono necessarie le precisazioni compiute da Romano Guardini: se dalle conseguenze distruttive del potere l’uomo deducesse la necessità di rinunciarvi non farebbe altro che abdicare alla sua natura, misconoscendo nello stesso istante anche quella del Creatore.
Significativamente Guardini stende la propria meditazione a partire da due riferimenti capitali: la narrazione delle origini del creato offerta da Genesi e l’umiltà del Figlio di Dio espressa in Fil 2,5-8. Non è accessoria la rinuncia dell’uomo ad adeguarsi all’uso indiscriminato della forza, ma risiede nella forma propria affidatagli dal suo creatore, che per primo l’ha vissuta secondo l’umiltà. Diversamente
è turbato il rapporto fondamentale dell’esistenza. L’uomo ha ancora, come prima, potere e possibilità di dominio. Ma è infranto l’ordine in cui il potere accordato non era disgiunto dalla responsabilità di fronte al vero Signore.
Che vi sia un ordine ci fa sostare nuovamente sull’interrogativo iniziale, circa il senso di una risposta che metta in gioco la ragione contro il caos provocato dall’azione violenta. Spesso l’umanità si è ingannata sulle possibilità risolutive che sarebbero derivate dall’uso della forza, senza riconoscervi una prima mistificazione. In quei casi si presume che l’ordine raggiunto sia definitivo; in realtà è solo presunto, perché tende a eliminare la complessità irriducibile che costituisce singoli e popoli, inviolabili nella loro pluralità.
L’accostamento dei testi qui presentati ci pone un’ulteriore questione. Se il pericolo maggiore prospettato da Guardini, finito il secondo conflitto mondiale, derivava dalla sofisticazione tecnica dell’arma atomica, ci troviamo a settant’anni di distanza a commemorare la Grande guerra e a confrontarci con episodi che richiamano da vicino forme primitive di violenza. Così l’uomo contemporaneo, capace di interrogarsi sugli esiti del suo potere solo qualora questo non gli assicuri i benefici inizialmente prospettati a scapito di altri, è obbligato a rivederne fin dalla radice il senso, scoprendolo virtuoso qualora sia strumento che favorisca il riconoscimento dell’alterità e della sua dignità irrevocabile.
Non si tratta di ritrarsi pavidamente dalla dialettica mondana, piuttosto di far risuonare il fragile appello ricordato dal Papa: «a me che importa?»; solo rispondendo a questa domanda sarà compiuto il primo atto di responsabilità verso il grido di ogni debole.
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