È identificato con la causa del suo popolo, ma è stato anche molto di più. Passata per diverse fasi e approdata a un perfetto equilibrio tra prosa e poesia, e tra contemplazione lirica e narrazione epica, la sua opera ha un valore universale capace di illuminare anche il tragico presente
Ultimo aggiornamento: 15/03/2024 11:36:24
Seguire la traiettoria terrena di Mahmud Darwish (1941-2008) e il suo ininterrotto peregrinare di nazione in nazione ma sempre mantenendo i piedi saldamente ancorati al suolo di Palestina, permette di ricostruire la sua vita e, insieme, la storia del suo popolo. L’evolversi della sua poesia, invece, aiuta a comprendere nella sua interezza la parabola ascendente della coscienza di sé e della causa palestinese.
Nel 1948, quando al-Birwa – il paesino in cui è nato – viene raso al suolo e cancellato dalla carta geografica, Darwish diventa uno dei 750.000 profughi costretti ad abbandonare la propria terra in un esodo forzato. Poco più che bambino, però, torna clandestinamente nella Palestina divenuta Israele con alcuni parenti e cresce da presente-assente, “arabo d’Israele” senza cittadinanza. Frequenta, non riconosciuto, la scuola, dove segue i curricula locali, dai quali trarrà una profonda conoscenza della società, della psiche e della narrazione israeliane. La narrazione, soprattutto, gli rimarrà per sempre presente, tanto che negli anni non smetterà mai di opporle incessanti contronarrazioni. In alcune delle numerosissime interviste che verranno pubblicate durante la sua lunga carriera dichiarerà: «Abbiamo imparato l’ebraico insieme all’arabo. Vale a dire quattro anni prima di iniziare a studiare l’inglese. Perciò era normale che lo padroneggiassimo. […] Tutta la mia generazione padroneggia l’ebraico. Per noi era una finestra che dava su due mondi. Innanzitutto quello della Bibbia. Un libro essenziale malgrado tutto ciò che abbiamo subìto in suo nome. Ho letto anche i Salmi, il Cantico dei Cantici, il Libro dell’Esodo, il Libro della Genesi. Questi testi costituiscono un corpus indispensabile per chiunque aspiri a occuparsi di cultura. Poi [c’è stato il corpus] dei testi letterari tradotti da altre lingue. Il movimento di traduzione verso l’ebraico era allora assai vivace. La mia prima lettura di Federico Garcia Lorca fu in ebraico. Lo stesso per Neruda»[1]. E a proposito dei poeti israeliani inseriti nei programmi scolastici: «Naturalmente detestavo Bialik. Non mi piaceva la sua nostalgia primaria e ideologica. […] Bialik non ha un progetto estetico, la sua poesia è ideologica. Opera solo in una direzione: dare fondamento al sogno sionista. La sua nostalgia riguarda però un luogo ben preciso, la stessa terra dove sono venuto al mondo io. Il luogo è uno, i suoi lineamenti sono gli stessi. Ho ritrovato quest’ambiguità nel più grande poeta ebraico contemporaneo, Yehuda Amichai. Se si ignorasse l’identità dell’autore, i suoi poemi sul luogo potrebbero essere opera di un ebreo o di un arabo. Senza distinzione»[2].
Negli anni della giovinezza viene più volte incarcerato o condannato agli arresti domiciliari nella sua casa di Haifa e patisce nella propria carne le sofferenze della sua gente: il sopruso, la condizione di esiliato in patria, la sete di libertà, le miserie del vivere quotidiano, l’atroce dolore della disfatta del giugno 1967. «Quando ho cominciato a scrivere, – racconta nella prefazione a un’antologia poetica pubblicata in Francia – ero abitato dall’ossessione di dire la mia perdita, le mie sensazioni, i limiti imposti alla mia esistenza. In breve, il mio ‘io’ all’interno di un contesto determinato e di una geografia specifica» [3].
Nel 1964 inaugura la fase poetica che i critici[4] chiamano “rivoluzionaria e patriotica” nella quale, con una veemenza impeccabilmente circostanziata, denuncia in tutta la loro drammaticità le condizioni di vita dei palestinesi e le distorsioni del pensiero politico e ideologico sionista. E diventa il Poeta per antonomasia della causa e della resistenza con la pubblicazione di Carta d’identità, che scrive di getto dopo essere uscito da un umiliante confronto con un ufficiale dell’amministrazione israeliana: «Scrivi! / Sono un arabo / carta d’identità numero cinquantamila / […] spogliato delle vigne dei miei avi / e della terra che coltivavo / con tutti i miei figli / […] Scrivi / in cima alla prima pagina / Io non odio i miei simili / e non aggredisco nessuno. / Ma… se avessi fame / mangerei la carne del mio usurpatore. Attento… sta’ attento / alla mia fame / e alla mia rabbia!»[5].
Questa prima fase, che comprende sei raccolte poetiche, si conclude nel 1973, dopo un biennio di studio all’Università di Mosca, un lungo soggiorno al Cairo e l’approdo a Beirut, dove mette su casa e dove resterà per dieci anni. «Non ho mai vissuto dieci anni nello stesso posto – scriverà più tardi - Non mi era mai capitato di abituarmi all’odore delle verdure, alle grida dei venditori, al chiasso in armi dei bar e ai problemi con l’acqua e l’ascensore. E invece, qui, mi è successo»[6]. Quasi a sigillare il periodo, proprio nel 1973 consegna alle stampe un’opera in prosa, Diario di ordinaria tristezza[7], un testo eminentemente autobiografico che ripercorre i trent’anni della sua storia individuale e, al contempo, abbraccia le vicende palestinesi in decenni cruciali per l’intera regione. Via via che la stesura del testo procede, la scrittura si fa sempre più frammentata, polifonica e gravida di intertestualità adeguandosi – o forse preannunciando – l’evolversi della sua produzione.
Negli anni che seguono, pubblica altre sette raccolte. Ormai consacrato come il poeta più seguito e acclamato dell’intero mondo arabo, entra però in conflitto aperto con una porzione dei suoi lettori e subisce attacchi da parte dell’ala più militante della società palestinese che lo rimprovera di non presentarsi più esclusivamente come il cantore della lotta e della resistenza.
Fuoriuscito da Beirut come tutta la dirigenza palestinese, vive per qualche tempo a Tunisi e al Cairo, poi si trasferisce a Parigi. E nel 1987 pubblica di nuovo un’opera in prosa, ancora un testo autobiografico in cui, incentrandosi sull’assedio di Beirut del 1982, ripercorre nuovamente la sua vita. Memoria per l’oblio[8] di tutto questo lungo percorso, rende puntualmente conto nel corpo stesso dell’opera, nel modo in cui è accuratamente composto, nella sua organica polifonia che accosta discorsi diretti e indiretti, monologhi interiori, narrative contrapposte, sogni, descrizioni, poesie e articoli di giornale, citazioni delle sacre scritture, esegesi musulmana, storiografia araba e non-araba, lessicografia e letteratura europea, parafrasi che rimandano alla letteratura araba classica. E che richiama copiosamente i suoi propri versi, già editi o ancora da comporre.
Negli anni ‘90 torna a vivere tra Palestina (Ramallah) e Giordania (Amman). Saranno gli anni più fecondi della sua carriera poetica. Quelli in cui pubblicherà più di dieci raccolte destinate a diventare le più note e le più tradotte in innumerevoli lingue: Undici pianeti[9] nel 1992, Perché hai lasciato il cavallo alla sua solitudine?[10] nel 1995, Il letto della straniera[11] nel 1999, Murale[12] nel 2000 – un lungo poema, composto dopo aver subìto una prima operazione al cuore che lo ha lasciato in coma per più di qualche giorno, in cui mette in luce le due dualità fondamentali dell’esistenza: vita e morte, e morte e resurrezione – e Stato d’assedio[13] nel 2002.
In questa lunga fase che i critici chiamano “lirico-epica” e “dei temi indipendenti”, riannoda le fila con i brani lunghi, fortemente marcati dalle esperienze tragiche dell’umanità: le invasioni mongoliche, la perdita dell’Andalusia, il genocidio dei pellerossa. E mentre si interroga sul posto che
Nel 2006, due anni prima di morire durante un intervento a cuore aperto in un ospedale di Houston, pubblica un terzo testo in prosa a sfondo autobiografico, In presenza d’assenza[16], in cui la sua parabola umana e poetica trova un punto di ancoraggio. Ormai «si è quasi totalmente liberato della pressione politica che gli pesava addosso in quanto ‘poeta nazionale’. Il suo pubblico, sempre pronto a concedergli la propria fiducia, ha finito per convincersi che sia legittimo per un ‘poeta nazionale’ essere, in prima istanza, un poeta»[17].
Nel 2008, suo ultimo anno in vita, escono L’effetto della farfalla[18] – pagine di diario scritte tra l’estate del 2006 e l’estate del 2007 in cui, come In presenza d’assenza, dimostra che ha definitivamente raggiunto il perfetto equilibrio tra prosa e poesia – e ben quattro raccolte dei suoi versi.
Nel 2009, infine, vengono pubblicate tutte le poesie ritrovate tra i suoi effetti personali. Sei erano concluse – le aveva già recitate in pubblico o erano già uscite su riviste letterarie – le altre non erano ancora state definitivamente licenziate, cosa che ha suscitato qualche polemica, alla fine rientrata perché non sarebbe stato giusto tacerle al mondo. Così come nei tre testi in prosa a sfondo autobiografico di cui sopra, anche nella più lunga delle sei, Il giocatore d’azzardo[19], Darwish ripercorre la propria vita e, quasi in una sorta di premonizione, si rivolge alle generazioni a venire, parlando di sé e del suo universo interiore, personale e poetico. Rimbalzata sul web non appena si sono diffuse le prime e contraddittorie notizie sull’esito dell’operazione cui si era sottoposto, la poesia è ormai unanimemente riconosciuta come il testamento privato e pubblico di una delle menti più rappresentative della cultura palestinese. Ma è anche il grido di dolore di un uomo conscio del proprio valore ma spaventato da quanto il futuro potrebbe riservargli.
Sempre nel 2009 José Saramago, nei suoi quaderni online, dà conto della risonanza mondiale dell’intero canone poetico darwishano scrivendo: «Il prossimo 9 Agosto sarà passato un anno dalla morte di Mahmud Darwish, il grande poeta palestinese. Se il nostro mondo fosse un po’ più sensibile e intelligente, più attento alla grandezza quasi sublime di alcune delle vite che lo attraversano, il suo nome sarebbe oggi conosciuto e ammirato come, per esempio, lo fu in vita quello di Pablo Neruda»[20].
Negli anni a seguire le sue poesie continuano a essere tradotte e pubblicate in moltissime lingue, a volte mantenendo la composizione originale delle singole raccolte, a volte compiendo una scelta trasversale a tutta la sua opera, individuando temi, argomenti e assonanze. In italiano sono recentemente apparsi Inni universali di pace della Palestina. Elogio dell’ombra alta[21], La saggezza del condannato a morte e altre poesie[22]e finanche un albo illustrato per bambini che riporta i bellissimi versi di Pensa agli altri[23].
In questo tragico ultimo trimestre 2023, le poesie di Mahmud Darwish – “poeta e palestinese” come amava definirsi – sono prepotentemente tornate alla ribalta dei social. Spesso veicolando le parole più struggenti dedicate alla patria o le denunce più veementi delle prime fasi, quasi mai – giocoforza – riportando i riferimenti all’incontro con l’Altro, con il Nemico, con lo Straniero, forse l’aspetto meno approfondito dalla critica ma, comunque, la declinazione più pregnante delle dualità che hanno attraversato l’intera sua produzione poetica.
Eppure, con la dote quasi profetica che contraddistingue alcuni dei grandi autori contemporanei, spigolando tra i suoi scritti si trovano passaggi che rimandano inequivocabilmente all’oggi. «La vera pace è un dialogo tra due versioni. […] – diceva in un’intervista – Non imponetemi la vostra e io non vi imporrò la mia. Tutti devono avere il diritto di raccontare la propria storia. Tanto
Già nel lontano 1987 in alcuni suoi versi riecheggiava l’odierna, pressante richiesta di far sentire la voce di tutto un popolo. In Come gli altri viaggiamo scriveva: «Abbiamo un paese che è fatto di parole. / E tu parla, parla perché il mio cammino posi su pietra solida. / Abbiamo un paese fatto di parole. / E tu parla, parla perché noi si sappia dove finisce questo viaggio»[25] e ci consegnava una dolorosa constatazione valida ancora adesso: «E noi amiamo la vita / se troviamo la via per viverla. / Danziamo tra due martiri, / innalzando tra le viole / un minareto o delle palme»[26].
E nel 2002 concludeva: «Fermi qui. Seduti qui. Permanenti qui. / Eterni qui. Abbiamo un obiettivo soltanto: / essere»[27].
BIBLIOGRAFIA
أعمال محمود درويش
لا أريد لهذي القصيدة أن تنتهي، رياض الريس، بيروت 2009
آن لي أن أعود، دار العودة، بيروت 2008
أقول لكم، دار العودة، بيروت 2008
حيرة العائد- مقالات مختارة، رياض الريس، بيروت 2008
أثر الفراشة - يوميات، رياض الريس، بيروت 2008
في حضرة الغياب - نص، رياض الريس، بيروت 2006
كزهر اللوز او أبعد، رياض الريس، بيروت 2005
لا تعتذر عما فعلت، رياض الريس، بيروت 2004
حالة حصار، رياض الريس، بيروت 2002
جدارية، رياض الريس، بيروت 2000
سرير الغريبة، رياض الريس، بيروت 1999
لماذا تركت الحصان وحيداً، رياض الريس، بيروت 1995
أحد عشر كوكبا، رياض الريس، بيروت 1992
الرسائل، دار العودة، بيروت 1990
ذاكرة للنسيان- ذاكرة الحاض، المؤسسة العربية، بيروت 1987
ورد أقل، دار العودة، بيروت 1986
هي أغنية، هي أغنية، دار العودة، بيروت 1984
حصار المدائح البحر، دار الجديد، بيروت 1984
مديح الظل العالي، دار العودة، بيروت 1983
أعراس، دار العودة، بيروت 1977
تلك صورتها وهذا إنتحار العاشق، دار العودة، بيروت 1975
محاولة رقم ٧، دار العودة، بيروت 1973
يوميات الحزن العادي - نثر، المؤسسة العربية، بيروت 1973
أحبك او لا أحبك، دار العودة، بيروت 1972
حبيبتي تنهض من نومها، دار العودة، بيروت 1970
العصافير تموت في الجليل، دار العودة، بيروت 1970
آخر الليل، دار العودة، بيروت 1967
عاشق من فلسطين، دار الجديد، بيروت 1966
أوراق الزيتون، دار العودة، بيروت 1964
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