Viaggio nel più grande paese musulmano del mondo: tredicimila isole, trecento etnie, duecentoventi milioni di abitanti, uno su dieci cristiano. Movimenti indipendentisti e gruppi fondamentalisti rendono inquieto un mondo che si vuole tranquillo e amichevole
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:51:49
Viaggio nel più grande paese musulmano del mondo: tredicimila isole, trecento etnie, duecentoventi milioni di abitanti, uno su dieci cristiano. Movimenti indipendentisti e gruppi fondamentalisti rendono inquieto un mondo che si vuole tranquillo e amichevole. E che negli ultimi anni ha visto crescere tensioni interreligiose. Tanah air kita, la nostra terra e la nostra acqua: è questo il nome affettuoso e patriottico dell'immenso arcipelago. Isole e mari non sono separati, ma fanno un'unica cosa. E così le tante striature e stratificazioni della storia e della geografia formano un solo disegno ricco e complesso.
"Satu Jam, one hour". Ci si abitua in fretta a Jakarta a questa risposta dei tassisti. Alla domanda: "Quanto tempo ci vuole per arrivare?", rispondono quasi sempre così: "Un'ora", anche se il tratto da percorrere è di due chilometri. È la cifra del traffico di Jakarta, il primo dato che accoglie l'ospite. Anzi, più che accogliere, il traffico in questa città "sequestra" e non si sa bene quando lascerà liberi. La città, 15 milioni di presenze di giorno, 12 di notte, 21 milioni previsti per il 2015, è cresciuta così in fretta ed è di dimensioni tali che gli stessi tassisti spesso faticano a trovare la meta; così il viaggio si allunga in modo proporzionale alle fermate necessarie a chiedere indicazioni agli abitanti del posto. Ad ogni angolo, infatti, intorno al carretto di un venditore ambulante di frutta in pezzi o ravioli fritti, sta un capannello di jakartesi: conversano, si aggiornano sul campionato di calcio italiano, argomento caro alla stampa indonesiana, o stanno solo a guardare, in ciabatte, i passanti. Dai finestrini dei taxi Blu Bird, gli unici affidabili secondo fonti locali, si fa la prima conoscenza con la capitale di un paese in cui il 40% della popolazione vive sotto la soglia di povertà, cioè con meno di cento euro l'anno. Un pugno i molto ricchi, una moltitudine i molto poveri. In mezzo una sottile classe media.
Sono le contraddizioni estreme del terzo produttore mondiale di riso e caffè, ottavo di petrolio, che ha conosciuto uno straordinario sviluppo nel "regno" di Suharto (1967-1998), quando si arrivò a toccare la punta di una crescita annua del 7,5%, ma anche il crac economico del '97, da cui deve ancora rialzarsi, e dove il sistema democratico fatica a trovare la sua strada. Il traffico è così folle perché ci sono solo pochi viali centrali, larghi anche quattro corsie per senso di marcia, con ampie aiuole dalla vegetazione tropicale, mentre il resto della rete stradale consiste in vicoli stretti e fangosi che, ai primi acquazzoni, finiscono allagati, quindi paralizzati. "È molto più facile finire all'ospedale per un incidente d'auto, che per un attentato dei terroristi!": scherza così padre Magnis Suseno, gesuita docente di filosofia della Driyarkara School of Philosophy di Jakarta, uno dei massimi esperti della cultura giavanese, tedesco di nascita, indonesiano per cittadinanza, che in camicia elegante di batik sfida il traffico con la sua moto, e con una battuta introduce alla vita quotidiana di questa città, la capitale del più grande paese a maggioranza musulmana del mondo.
Sentire parlare di bombe e attentati terroristici, ormai, è norma per gli abitanti dell'arcipelago, abituati ai continui controlli di borse e bagagliai all'ingresso di ogni centro commerciale o luogo pubblico, da parte di polizia e guardie private. I 202 morti nell'attentato di Bali dell'ottobre 2002 e le 12 vittime delle bombe all'Hotel Mariott a Jakarta del 2003, attribuite dalle autorità al gruppo di terroristi di matrice islamica Jemaah Islamiyah, sono ferite ancora aperte per il Paese. Il Jakarta Post, il più diffuso quotidiano in lingua inglese, lancia molto spesso in prima pagina titoli allarmanti sul tema: dai nuovi sistemi di sicurezza contro eventuali attentati, al rischio rapimenti per gli stranieri da parte di gruppi armati. Ma non sono sempre notizie a senso unico: le agenzie internazionali, se parlano dell'allarme terrorismo per le chiese cristiane nel periodo natalizio, registrano anche la disponibilità di giovani musulmani a svolgere servizio volontario di custodia alle stesse chiese; se riferiscono la condanna a morte di tre cristiani a Sulawesi, ritenuti i fomentatori delle violenze del 2000, richiamano anche l'invito di due leader religiosi, uno cristiano e l'altro musulmano, a sospendere la stessa sentenza di morte e ad aprire nuove indagini sugli scontri.
Eppure la vita a Jakarta, agli occhi di chi dall'Europa atterra nel pieno di un inverno a trenta gradi all'ombra, appare tranquilla, scorre serena, come quel trenino locale che l'attraversa da nord a sud, e porta tutti i giorni un carico di varia umanità. È un treno senza porte, inutili per un trenino che si prende al volo, e che permette a chi sta seduto sulle panche addossate alle pareti laterali, di godere di un sistema alternativo di aria condizionata. Sul tetto stanno appollaiati ragazzini, dentro i posti a sedere sono pochi per la folla che sale e scende: donne coperte dalla testa ai piedi da veli e abiti delle sfumature più sgargianti del rosa e del giallo, coppie di fidanzati con lei in minigonna e tacchi alti e lui in jeans e maglietta; devoti musulmani che passano con la cassetta chiedendo offerte per la costruzione di una nuova moschea, e una band di sette ragazzi, che intrattiene i pendolari con gli ultimi successi della musica pop malese. Il brano che va per la maggiore è un pezzo un po' malinconico, anche se ritmato dalla batteria e dalle chitarre, che ricorda il famoso "Sarà quel che sarà": nella sua versione musulmana il ritornello suona così: "Succederà, succederà quello che deve succedere, secondo la volontà di Allah". C'è una signora sfregiata da chissà quale incidente che passa e tira le giacche per chiedere un soldo, mentre il corridoio centrale dal pavimento scassato è la corsia per giornalai e mercanti delle merci più disparate, dolci al peperoncino fatti in casa, asciugamani quadrati gialli, orologi di plastica, bottiglie di acqua fresca.
A bordo ci sono anche gli studenti cattolici che attraversano Jakarta, per raggiungere la parrocchia universitaria che sta a sud. Là ogni settimana circa 200 ragazzi e ragazze, dai 17 ai 23 anni, si incontrano per discutere, per partecipare a tornei di basket o anche semplicemente per raccontarsi com'è, per esempio, frequentare università in cui certi gruppi di studenti musulmani fondamentalisti, soprattutto nel Ramadan, usano linguaggi più estremisti dei loro padri, odiano Bush e tutti gli "occidentali", per loro sinonimo di "cristiani". Nello studio di padre Ismartono, responsabile dell'Ufficio per il Dialogo Interreligioso della Conferenza episcopale indonesiana, c'è una mappa che al primo sguardo rivela la drammaticità della realtà attuale dell'Indonesia: è la carta completa dell'arcipelago, su varie province c'è una serie di foglietti attaccati con uno spillo. Su ognuno è riportato un numero: è il totale sempre aggiornato dei morti negli scontri violenti, che da anni insanguinano queste terre. Sulla città di Aceh, l'estrema punta settentrionale di Sumatra, dove da anni è fortissima la contrapposizione tra il governo centrale e il Gam, movimento indipendentista locale, solo per citarne una, si legge: 2963 morti, conteggio dal 4 maggio 1999 al 19 giugno 2005.
Cristiani e musulmani che si ammazzano reciprocamente per motivi religiosi?
Troppo semplice e riduttiva questa lettura secondo lo stesso padre Ismartono, per una nazione giovanissima, nata dall'incrocio tra una storia a strati diversi e una geografia molto particolare, la cui Costituzione del 1945 prevede la libertà religiosa e in cui un decreto del 1991 ha introdotto la legge islamica per la sola popolazione musulmana, allo scopo di garantire maggiore uniformità di giudizio da parte dei tribunali coranici. Gli indonesiani chiamano la loro patria Tanah air Kita, la nostra terra e la nostra acqua, oltre 13 mila isole che si estendono per 5 mila chilometri nel senso della longitudine, con una popolazione di 220 milioni di abitanti circa, di oltre 300 etnie con 250 lingue diverse, dall'indipendenza in poi scavalcate dall'imposizione del Bahasa Indonesia, oggi la sesta lingua più parlata nel mondo. Poco più di un decimo del territorio è coltivato, mentre quasi il 60% è coperto da foreste. Le isole principali e più popolate sono Sumatra e Giava, circondate da varie isole satelliti. Nell'arcipelago la popolazione è per l'85% musulmana, per il 10% cristiana. Di questo 10%, due terzi sono protestanti, un terzo cattolici. L'1,5% è indù, mentre il 3,5% si riconosce nel buddismo e in varie religioni indigene. I musulmani sono oltre 174 milioni, numero pari quasi al totale di tutti i paesi arabi messi insieme. Le percentuali, comunque, variano da ovest a est: man mano che ci si sposta verso Oriente, cresce il numero dei cristiani, tanto che in isole come Sulawesi e Papua ci sono zone in cui la popolazione si divide quasi a metà, tra cristiani, soprattutto protestanti, e musulmani.
L'Islam arrivò qui, quando già erano diffuse pratiche religiose buddiste, induiste e animiste, sulla rotta dei traffici dei mercanti e dell'opera missionaria dei sufi, che partivano dalla Persia, dal subcontinente indiano e più tardi anche dall'Arabia. Già nel 1292 Marco Polo documenta la presenza di una comunità musulmana a Pasai, a nord di Sumatra. Tra il XVI e il XIX secolo, poi, l'affermarsi della supremazia economica e politica dell'Europa in Asia, in certo modo stimolò il consolidamento di comunità e regimi musulmani, come espressione di una propria identità culturale e resistenza politica. Nel XIX secolo, in particolare, grazie al crescere dei viaggi per mare, molti indonesiani andarono in pellegrinaggio alla Mecca, da dove tornavano, spesso come insegnanti, con una più approfondita conoscenza dell'ortodossia. Infine, la cronaca degli ultimi decenni ha registrato l'arrivo dal Medio Oriente di cellule wahabite. È un po' come se alla terra d'Indonesia fosse accaduto quello che avviene al tessuto decorato con l'antica arte locale del batik: dal grezzo iniziale, grazie a una serie di colate di cera in strati e tempi diversi, e di successive immersioni nei colori, si arriva alla fine alle stoffe più creative, con decori floreali o geometrici, regolari o asimmetrici, sfumati o decisi.
Un esempio chiaro di questa originalità e della storia articolata dell'Islam indonesiano si incontra a Yogyakarta, situata al centro dell'isola di Giava. Città universitaria per eccellenza, sede di decine di migliaia di studenti di tutto l'arcipelago, Yogyakarta gode di uno statuto speciale, riconosciutole dal presidente Sukarno, per i meriti acquisiti durante gli anni della lotta per l'indipendenza dall'Olanda, ottenuta nel 1945. È governata dal sultano, autorità civile per tutti e religiosa per la comunità islamica, che vive nel kraton, un palazzo del 1700, le cui decorazioni sono l'espressione artistica di una fittissima mescolanza di stili religiosi diversi. Lo stesso sultano, oltre al rigoroso appuntamento con la preghiera 5 volte al giorno in moschea, è solito presentare offerte, come prevede la tradizione induista, e praticare la meditazione, come i buddisti. "Yogya, come la chiamano qui, spiega padre Budi Subanarm, gesuita che insegna all'Università cattolica Sanata Dharma, tredicimila studenti, la maggior parte ragazze è meta ogni anno di milioni di pellegrini e rende tangibile ancora oggi quello che è accaduto in queste terre, dove nei secoli si sono stabilite e incontrate religioni diverse, ma in grado di convivere. Il Borobudur, il più grande tempio buddista del mondo risalente all'VIII secolo d.C., quello induista del Prambanan, i santuari cattolici, tutti a pochi chilometri di distanza, insieme al palazzo del sultano, raccontano, non solo il desiderio degli uomini, coltivato fin dai tempi più remoti, di guardare al cielo e di costruire monumenti nel tentativo di raggiungerlo, ma anche come comunità diverse possano vivere nel rispetto e scambio, l'una vicino all'altra. Questa è la vera capitale del Javanese spirit".
L'Arte della Danza
A questo "spirito" giavanese così speciale, padre Suseno ha dedicato studi approfonditi, che tenta di sintetizzare così:
I giavanesi, il 40 % di tutta la popolazione, sono sempre stati il gruppo culturalmente e politicamente dominante in Indonesia. Il loro Islam è estremamente multiforme: se molti di loro, infatti, si sentono musulmani in modo convinto, è anche vero che altrettanti si ritengono prima di tutto giavanesi. Considerano le religioni mezzi, non fini, e si adoperano per l'armonia interna ed esterna.
Secondo il loro stile di vita sociale, spiega ancora padre Suseno, i conflitti sono governati attraverso la ricerca del consenso e con il tentativo di porre gli interessi del singolo in secondo piano rispetto a ciò che domanda la comunità. I giavanesi perseguono l'armonia interiore cercando di contenere le loro emozioni, raffinare i sentimenti interiori, e fanno esperienza del potere interiore attraverso la meditazione. La maturità nei comportamenti morali è connessa alla coltivazione di un ambiente esteticamente piacevole, di cui il gioco delle ombre, le danze giavanesi e l'arte batik sono alcune delle espressioni più note. "I giavanesi conclude padre Suseno sono propensi ad essere tolleranti. La loro urbanità civilizzata, la loro saggezza e la loro cordialità, vanno di pari passo con il distacco che tengono da tutti, eccetto i familiari più stretti. La loro è certamente una delle culture più grandi dell'umanità".
Se nei manuali di Suseno può sembrare solo teoria, il Javanese spirit è vita pratica di tutti i giorni per le suore di San Carlo Borromeo, che gestiscono l'ospedale che porta il nome dello stesso santo, nel quartiere centrale di Jakarta. Articolato in padiglioni diversi, da quello per i benestanti a quello per i più poveri, tutti con esposta un'immagine o statua della Madonna, l'ospedale conta su un personale composto per il 75% da cattolici, per il resto da musulmani, e accoglie pazienti musulmani nel 60% dei casi. "Non abbiamo mai avuto problemi di "conflitti religiosi" racconta suor Rosalia Isti, responsabile delle infermiere perché ognuno di noi ha chiaro in testa chi è e qual è la sua identità, quindi incontra il diverso senza difficoltà". È il rispetto della vita, per le suore, il cemento di questa collaborazione, che portò per esempio i capi delle cinque principali religioni indonesiane a sottoscrivere insieme, nel 2002, un documento contro l'aborto. Quasi a fatica ripesca dalla memoria un lontano ricordo: una volta si trovò a discutere con una paziente che non voleva in camera un crocifisso. La spaventava. Ma fu molto semplice risolvere il caso: suor Rosalia infatti, le spiegò con grande schiettezza: "Non posso togliere quel crocifisso, perché io sono qui in forza di quello. Se tolgono quello, devono togliere anche me". Così si accordarono, spostarono il letto quel tanto da evitare la vista inquietante per la paziente e la questione si risolse in fretta. Tra le corsie si incappa in una nota curiosa: la tabella ai piedi del letto con i vari dati e diagnosi del paziente, riporta tra le voci anche agama, religione: "Così osservano le suore sappiamo a chi chiedere se desidera ricevere la comunione. Ogni giorno, infatti, il cappellano fa il giro e distribuisce centinaia di comunioni ai nostri malati".
In quell'ospedale, nell'anticamera dell'ufficio delle suore, campeggia una foto di qualche tempo fa: è l'inquadratura di un incontro di preghiera per la pace, al tempo dell'ultima guerra in Iraq, che vide insieme l'arcivescovo di Jakarta, il capo della comunità dei protestanti, quello dei buddisti, degli induisti e delle due principali organizzazioni musulmane, la Nadlatul Ulama (NU) e la Muhammadiah. Sono fotografati mentre siedono, insieme, in raccoglimento, sullo stesso tappeto. Il cardinale indossa una camicia di batik. È una foto che si trova affissa anche in altri luoghi di Jakarta, quasi un manifesto per questa città. "Tempo fa ho incontrato dei giornalisti europei racconta il cardinale Julius Darmaatmadja, Arcivescovo di Jakarta che mi volevano indurre a spiegare i conflitti che avvengono in Indonesia come scontri di origine religiosa. Ma non è così. Non si può semplificare la mappa dell'Islam in Indonesia. Soprattutto non si può parlare di un solo Islam per il nostro paese, perché io stesso continuamente verifico che ci sono diverse attitudini, diverse interpretazioni del Corano, e da parte della maggioranza dei musulmani c'è la volontà di stringere rapporti di amicizia con i cristiani". "Se io considero la persona musulmana, prima un amico e poi un musulmano, spiega il cardinale Darmaatmadja cresce la stima, e poi l'amicizia. Per smontare ogni tesi giornalistica secondo la quale qui ci sarebbe un conflitto di religione, mi basta citare quel giorno tremendo in cui un giovane musulmano, nel tentativo di portare fuori una bomba da una chiesa cristiana, perse la vita in una terribile esplosione. Non siamo nemici, qui in Indonesia, cristiani e musulmani".
Certo, ammette l'Arcivescovo di Jakarta, ci sono dei gruppi violenti di musulmani radicali, che organizzano attentati, ma sono piccoli gruppi esasperati, che non riescono secondo lui a intaccare l'apertura al dialogo della maggioranza. "Il problema reale sottolinea il Cardinale è che cristiani e musulmani hanno in comune una preoccupazione: a Giava, come in tutta l'Indonesia, corriamo il rischio di intrusioni di gruppi minoritari esterni, che non hanno nulla a che vedere con la cultura locale, ma che cercano di importare elementi estranei. E mi riferisco sia a gruppi estremisti islamici che arrivano dal Medio Oriente, sia a gruppi di sette cristiane, per lo più americane, che praticano qui un proselitismo esasperato. Arrivano a bussare addirittura alle porte di responsabili di organizzazioni musulmane, come mi ha raccontato un caro amico". "Diversamente da quello che accade in Europa conclude la maggiore autorità della Chiesa Cattolica nell'arcipelago dove l'Islam è importato dagli immigrati che arrivano dai paesi arabi, quindi risulta quale cultura estranea, qui siamo tutti, cristiani e musulmani, legati a questa terra che accoglie da sempre musulmani, buddisti, induisti e cristiani. Siamo tutti indonesiani. Io stesso sono un cardinale cattolico, ma tutta la mia famiglia, eccetto mio padre, è musulmana. Addirittura molti vescovi indonesiani sono musulmani convertiti, figli quindi di genitori musulmani, con tutta una tradizione alle spalle di cultura e religione non cristiana. È inscritto nel nostro Dna: nell'altro prima di tutto vedo un amico. Se sapremo restare fedeli a questa tradizione, sapremo superare questa stagione di conflitti indotti dall'esterno".
Quella che per Suseno è forse la ricchezza principale dell'isola, il Javanese spirit, è dunque minacciata? È a rischio la sua sopravvivenza? Se agli agenti esterni, descritti dal Cardinale, si aggiunge la pesante crisi della fine del secolo scorso, che ha lasciato quasi metà della popolazione senza lavoro fisso, e il tentativo dell'esercito di mantenere il suo potere a qualsiasi prezzo, secondo Raymond Toruan, giornalista cattolico del Jakarta Post, si ottiene la miscela che sta rendendo l'Indonesia di questi anni esplosiva.
Chiese da Costruire
Toruan e padre Greg Soetomo, caporedattore del settimanale cattolico Hidup (centomila copie solo a Jakarta, numero in uscita a dicembre con il poster di un vescovo) promuovono periodicamente l'incontro di una sorta di associazione informale di un centinaio di giornalisti cattolici di varie testate, che si riuniscono per cercare insieme chiavi di lettura sempre aggiornate della cronaca che si svolge sotto i loro occhi. "Il potere della tv spiega Toruan è immenso. Si leggono pochi giornali nell'arcipelago, mentre la tv spopola. Ora, se deve raccontare il fatto di tre ragazze decapitate a Sulawesi, un servizio di un minuto per un telegiornale non riuscirà ad approfondire quella notizia, ma la semplificherà al massimo, con il rischio di mistificarla riducendola a scontro religioso. Cosa che non è. Pochi sono i media che vanno a fondo, che si chiedono come mai proprio prima che accadessero quei fatti, fossero state stanziate nuove milizie sull'isola. Scontri simili a questi appaiono fomentati proprio dai militari, che vedendo ridursi il loro potere con il crescere della democrazia, sperano in tensioni e violenze che giustifichino la loro presenza come garanzia di sicurezza. C'è bisogno di approfondire, di non fermarsi all'apparenza".
Fa eco ai giornalisti cattolici, Amanda D. Suharto, un'elegante signora musulmana, capelli corvini, presidente di Madia, un'organizzazione non governativa che promuove il dialogo interreligioso. L'ufficio di Amanda ha sede proprio presso la Conferenza episcopale indonesiana e all'ingresso espone tra gli altri un manifesto antimilitarista: "Non vogliamo inventarci una super-religione, spiega Amanda, sposata con due figlie, alle spalle un curriculum di studi in America per dirigente d'azienda, all'attivo varie minacce telefoniche da parte di chi è disturbato dal suo lavoro non dobbiamo convincere l'altro a credere in quello che crediamo noi, ma praticare il dialogo, capire le ragioni dell'altro. Tutti hanno gli stessi diritti davanti a Dio. Ognuno ha diritto di praticare la sua religione". In forza di questa convinzione lei e il suo vice-presidente, buddista, sono impegnati in questo periodo in particolare sulla questione della costruzione delle chiese, oggi sempre più difficile. Si sta infatti applicando in modo sempre più rigoroso il regolamento per cui, per costruire un edificio sacro, ci vuole il consenso di tutti i vicini, impresa quasi impossibile là dove i fondamentalisti musulmani sono più forti.
E in certi quartieri, lo sanno tutti che c'è chi ti paga, se vai in moschea. Come quello in cui sta padre Sandyawan Sumardi, gesuita, ufficio con foto di madre Teresa di Calcutta e poster di Che Guevara, che da anni condivide tutto con gli abitanti musulmani di uno dei posti più miseri della terra. Un budello di fango, che sta quasi nascosto, proprio svoltato l'angolo, tra una strada in cui corrono anche BMW e il fiume che attraversa Jakarta, che è nello stesso tempo per tutti wc a cielo aperto, lavastoviglie e lavatoio. Le persone qui sono in situazioni talmente assurde che potrebbero sembrare le comparse di un documentario sulla povertà nel mondo. Solo che ci vivono veramente in queste sottospecie di case di lamiera, senza lavoro e senza scarpe, bambini mezzi nudi che attraversano la via, sotto lo sguardo di chi si rade il viso seduto per terra, tra tacchini spelacchiati e la puzza del cherosene da vendere al mercato. La questione della costruzione delle chiese, motivo di dibattiti accesi nella capitale, è semplice per Salhuddin Wahid, già presidente della NU, la più grande organizzazione musulmana del mondo nella quale si riconosce la metà dei musulmani indonesiani. Per lui, noto e stimato nel paese, architetto con una casa elegante nella sua essenzialità, che interrompe la lunga conversazione all'ora della preghiera, i cristiani devono godere della libertà di culto e quindi devono poter costruirsi le chiese. Solamente non dappertutto.
Il fatto è che sono minoranza e quindi devono comportarsi come tali. Per Wahid la miccia delle tensioni attuali sta da una parte in chi vuole importare nei modi e nella vita indonesiana elementi che non le appartengono, come forme di Islam mediorientale che non sono proprie della tradizione sviluppatasi in queste terre, e dall'altra nella lenta, ma inesorabile separazione tra chi ha conosciuto e coltiva la fede islamica sui libri e chi nella tradizione orale, e tra chi pensa che si possa interpretare il Corano alla luce del tempo presente e chi no. "Temo osserva Wahid che tra una ventina d'anni assisteremo a una divisione. Da parte mia sono convinto che si possa leggere il Corano tenendo presente che oggi esiste uno sviluppo della conoscenza che non esisteva nel VII secolo, ma che adesso fa parte della nostra vita. C'è spazio per un lavoro comune. Anche in politica: un musulmano non vota un candidato solo perché è un musulmano, ma perché presenta progetti realistici di lotta alla corruzione, di onestà, di progetti per lo sviluppo economico".
"C'è spazio per un lavoro comune": l'idea di Wahid è quasi il criterio guida di Azyumardi Azra, nel suo lavoro di Rettore dell'Università statale islamica di Jakarta, oltre ventimila studenti, musulmani e cristiani, che seguono facoltà di islamologia, ma anche di medicina, economia, tecnologia. Ha studiato negli Usa, nella stessa Università e negli stessi anni di padre Alex Wijoyo, segretario dell'Arcivescovo di Jakarta, suo amico da allora, ed è convinto che l'università debba essere luogo di incontro e scambio continuo, dove si possano ascoltare i più moderni pensatori musulmani, ma anche i cardinali cattolici, come l'Arcivescovo di Vienna, Cristoph Schonborn, suo ospite di recente. Gli studenti, come anche i docenti, scelgono questa università perché aperta a quello che il rettore definisce come multi-interculturalismo: "La religione non può essere confinata in uno spazio personale e privato, ma ciascuno deve poter portare la propria proposta a partire dalla sua identità in uno spazio comune di dibattito tra maggioranze e minoranze nel rispetto reciproco. Allora si trovano le vie da percorrere". Da questa università, sostiene orgoglioso il rettore, che gira il mondo per stringere contatti e collaborazioni anche con università cattoliche, escono ogni anno migliaia di giovani professionisti, avvocati, giornalisti, leader politici, ulama... Una possibilità in più per il Javanese Spirit?
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
Per citare questo articolo
Riferimento al formato cartaceo:
Maria Laura Conte, Mille civiltà e mille interrogativi. Un mosaico chiamato Indonesia, «Oasis», anno II, n. 3, marzo 2006, pp. 82-88.
Riferimento al formato digitale:
Maria Laura Conte, Mille civiltà e mille interrogativi. Un mosaico chiamato Indonesia, «Oasis» [online], pubblicato il 1 marzo 2006, URL: https://www.oasiscenter.eu/it/mille-civilta-e-mille-interrogativi-un-mosaico-chiamato-indonesia.