Una conversazione con padre Jihad Youssef, priore del monastero di Mar Musa

Ultimo aggiornamento: 18/12/2024 09:46:57

 

Padre Jihad Youssef è il priore di Deir Mar Musa, il monastero fondato in Siria da Padre Paolo Dall’Oglio. Gli abbiamo chiesto come ha vissuto la caduta del regime di Bashar al-Assad, che cosa si aspetta dalla nuova Siria e quale ruolo possano svolgervi i cristiani. Intervista a cura di Michele Brignone

 

Come sono stati vissuti dalla comunità di Mar Musa gli eventi che hanno portato alla caduta del regime di Bashar al-Assad?

 

I primi giorni, quando i rivoluzionari sono entrati ad Aleppo, eravamo nell’incertezza. Dovevamo capire chi fossero e che cosa volessero. Poi il modo in cui hanno trattato tutti, soprattutto i cristiani, le loro parole, le loro rassicurazioni sulla libertà di culto e sulle proprietà ci hanno tranquillizzati. La mia preoccupazione principale era che non scoppiasse una nuova guerra e che il regime e i russi non iniziassero a bombardare a tappeto, come abbiamo visto per esempio a Gaza o in precedenza nella crisi siriana. I bombardamenti infatti colpiscono la gente, i quartieri, le infrastrutture, gli ospedali, le scuole. Però, dalle notizie che ci arrivavano abbiamo capito che la Russia aveva fatto un accordo con la Turchia e forse con altri e non sarebbe intervenuta. E quando i rivoluzionari sono arrivati a Hama non abbiamo più temuto, perché hanno dimostrato di avere a cuore il futuro della Siria. Tra l’altro all’inizio erano solo siriani. Adesso ad Aleppo si vedono anche dei non siriani, ma quelli che hanno preso le città all’inizio erano tutti siriani. Non appena prendevano il controllo di un luogo andavano dalle minoranze, sia quelle musulmane, come gli ismailiti a Salamiyya, sia quelle cristiane, dai vescovi o dai parroci, per tranquillizzare tutti. Hanno invitato le persone a non uscire di casa, perché c’erano molti spari ed era meglio non rischiare, ma hanno garantito la piena libertà di praticare la fede. Quando sono arrivati a Damasco abbiano aspettato che il regime cadesse pacificamente per festeggiare la libertà tanto attesa.

 

A Mar Musa siete già entrati in contatto con il nuovo governo? È venuto qualcuno al monastero?

 

Non ancora, perché siamo distanti, nel deserto. Però sono entrati in contatto con l’Arcivescovo di Homs, Jacques Mourad, e con la comunità di al-Nebek.

 

Naturalmente in questo momento non si può non pensare a padre Paolo Dall’Oglio…

 

Come no! Stiamo aspettando che esca da qualche prigione, da qualche buco sottoterra, da qualche ufficio nascosto e preghiamo per questo. E non solo noi, tantissimi siriani di ogni confessione lo stanno aspettando e qualcuno lo sta persino cercando.

 

Al di là della persona fisica di Padre Paolo, possiamo dire che quello che è successo in questi giorni riflette quello che lui pensava e immaginava per la Siria?

 

Non solo quello che pensava, ma anche quello per cui lui ha lavorato e si è impegnato. È il frutto della sua preghiera, della nostra preghiera, del nostro impegno a Mar Musa, dei suoi scritti, delle sue amicizie e relazioni, della sua totale offerta di sé, del rischio che ha accettato quando ha deciso di stare dalla parte dei giovani che scendevano nelle piazze a torso nudo chiedendo libertà e riforme. Paolo, ovunque egli sia, ora è contento, sorride soddisfatto e continua a pregare affinché questo sia soltanto l'inizio, non il punto di arrivo.

 

In questi giorni in Europa si è parlato tanto delle minoranze e in particolare dei cristiani e del loro futuro. Lei però ha subito rilanciato, pubblicando su Facebook un appello in arabo e in francese (ripreso qui in italiano) per invitare a un nuovo tipo di presenza cristiana in Siria. Qual è la sua idea?

 

La mia idea è innanzitutto che i cristiani e soprattutto il clero cristiano dovrebbero cambiare mentalità nel loro rapporto con l’autorità dello Stato. Non essere sottomessi, aspettare che ci vengano assicurati i nostri diritti, essere soltanto protetti e chiedere il minimo. Questo è il sistema ereditato da secoli di controllo ottomano, che è durato fino all’altro ieri. In secondo luogo, dal punto di vista numerico siamo una presenza esigua. Però non siamo una minoranza dal punto di vista qualitativo. Siamo uno degli elementi che compongono il tessuto siriano da sempre, un elemento originale del posto. Nonostante il nostro numero ridotto non vogliamo solo chiedere diritti, ma proporre una visione. Una visione che ancora non c’è. Ci sono preoccupazioni comuni tra i cristiani: tanti vogliono uno Stato civile, uno Stato laico, non religioso. Non credo sia possibile uno Stato laico all’europea. Lo Stato siriano avrà per forza un colore marcatamente islamico. A me non dà fastidio se veniamo chiamati dhimmi, protetti, ma a condizione che non sia una pretesa per considerarci cittadini di seconda o terza classe. Siamo protetti perché siamo pochi, perché siamo preziosi, perché siamo significativi, perché il mondo musulmano ci vuole bene. Vogliamo essere riconosciuti per quello che siamo, dei partner nella vita politica, socio-economica, culturale. Nella nuova Siria i cristiani devono contribuire in tutti questi ambiti. E quello che auguro a noi lo auguro anche a curdi,  alawiti, drusi e ad ogni altra minoranza e ogni altra componente del tessuto siriano.

 

Ha speranza che tutto questo si realizzi?

 

Molti cristiani hanno paura e hanno poca fiducia. In effetti noi non abbiamo nessuna garanzia che questi rivoluzionari mantengano la propria parola. Continuano a tranquillizzarci, ma questo non è sufficiente. Tuttavia dobbiamo scegliere di dare loro un credito di fiducia e vedere che cosa ne faranno. In ogni caso non abbiamo un’altra opzione ragionevole. Non possiamo certo chiedere all’Occidente, agli Stati Uniti o a nessun altro di essere protetti contro i musulmani. Dobbiamo sperare nel cambiamento che viene dall’interno della comunità islamica e di quella cristiana. All’Occidente chiediamo però che almeno una volta si comporti onestamente con i siriani e faccia pressioni perché il nuovo governo non instauri un sistema islamista simile a quello iraniano o a quello afgano, ma offra garanzie per tutte le componenti etniche e religiose del Paese.

 

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