La gestione della crisi migratoria e la diversa risposta alle guerre in corso in Ucraina e a Gaza hanno messo in luce le contraddizioni dell’Occidente e innescato le critiche del cosiddetto “Sud globale”

Ultimo aggiornamento: 23/07/2024 15:15:40

Questo contributo è un estratto del libro: Damiano Palano (a cura di), Il futuro della democrazia italiana. Politica e società al tempo del governo Meloni, Educatt, Milano 2024, realizzato da Polidemos, Centro per lo studio della democrazia e dei mutamenti politici dell’Università Cattolica di Milano. Il volume è scaricabile a questo link.

 

Fin dai primi momenti di diffusione della pandemia è stato evidente che le conseguenze del Coronavirus avrebbero investito la sfera sanitaria ma anche quella economica, sociale e politica. Henry Kissinger (2020) scriveva sul Wall Street Journal nell’aprile 2020 che anche in una situazione emergenziale i sistemi democratici sono chiamati a salvaguardare i principi dell’ordine liberale. Se non vogliono che si disintegri il contratto sociale su cui si reggono, proseguiva l’ex Segretario di Stato americano, le democrazie non devono dare per scontata la propria legittimità. Per quanto le etichette comprendano al loro interno approcci e modelli differenti, durante la gestione pandemica si è fatta strada la distinzione tra un modello “cinese-autoritario” e uno “occidentale-democratico” (si veda Fontana, 2020). Tale suddivisione non ha riguardato solamente l’organizzazione interna del rapporto tra Stato e cittadino, ma ha informato sempre più anche lo svolgimento della politica internazionale. Tanto la crisi pandemica quanto quelle degli anni seguenti sono state interpretate e spiegate anche (e in alcuni casi soprattutto) nei termini di una contrapposizione tra sistemi autoritari irrispettosi dei diritti umani, e sistemi democratici che al contrario fanno del rispetto dei diritti umani una loro caratteristica sia nell’impostazione degli affari domestici che di quelli esteri. In Occidente, tale distinzione è stata rafforzata dalla percezione che le democrazie vivono una fase in cui sono minacciate dall’avanzata degli autoritarismi, con questi ultimi che beneficerebbero dell’ascesa dei movimenti populisti di destra tanto negli Stati Uniti, nonostante l’elezione di Joe Biden, quanto nei Paesi dell’Unione Europea. In un’intervista concessa al settimanale francese Le Journal du Dimanche (Clemenceau, 2020), l’Alto Rappresentante per la Politica Estera dell’Unione Europea, Joseph Borrell, ha sottolineato che anche nella fase storica che attraversiamo la competizione con gli altri attori del sistema internazionale non è soltanto economica. Al contrario, essa è caratterizzata dalla presenza di un «rivale sistemico», la Cina, «che cerca di promuovere un modello alternativo di governance» (corsivo nostro). Anche i vertici politici italiani hanno assunto tale separazione tra democrazie-rispettose dei diritti e autoritarismi-irrispettosi. Lo dimostra per esempio il fatto che nel 2021 l’allora presidente del Consiglio Mario Draghi scelse questo argomento per criticare il comportamento di Recep Tayyip Erdoğan, reo di aver umiliato Ursula von der Leyen in occasione del cosiddetto Sofagate (De La Baume, 2021): l’ex presidente della Banca Centrale europea commentò definendo il presidente turco un «dittatore» (Colarusso, 2021). Una posizione poi ribadita da Manfred Weber, leader del principale partito europeo, secondo il quale la Turchia «non è un Paese libero per tutti i suoi cittadini» (Ansa 2021).

 

Lo spettro di uno scontro tra i sistemi democratici e quelli autoritari si è materializzato quando a fine febbraio del 2022 la Federazione russa ha invaso l’Ucraina. Tanto la retorica politica quanto le concrete azioni dei governi europei e occidentali hanno raffigurato il conflitto in corso come l’ennesimo episodio in cui un sistema autoritario e irrispettoso dei diritti umani – la Russia – aggredisce un sistema democratico basato al contrario proprio sul rispetto di tali diritti – l’Ucraina. In questo frangente, il passaggio dal governo Draghi a quello guidato da Giorgia Meloni aveva suscitato interrogativi in merito alla politica estera dell’Italia, che si sono risolti nell’osservazione di una sostanziale continuità tra i due esecutivi, quantomeno osservando le posizioni ufficiali assunte da Roma. La crisi migratoria del 2023 e soprattutto la guerra a Gaza hanno tuttavia evidenziato come aver scelto la lente dello scontro tra sistemi democratici che tutelano i diritti umani e sistemi autoritari che non lo fanno ha probabilmente funzionato nei confronti dell’opinione pubblica interna, ma è stata controproducente per quanto riguarda i rapporti tra l’Occidente e il resto del mondo, in particolare quello arabo-islamico. È assumendo la prospettiva di questa regione, come faremo in questo breve contributo, che possiamo cogliere la problematicità di aver descritto la vita politica internazionale come uno scontro democrazie-autoritarismi.

 

Vista dalle sponde sud ed est del Mediterraneo la gestione della crisi migratoria da parte dell’Italia e delle autorità europee ha evidenziato almeno due sostanziali incoerenze, messe in luce proprio dalla differente risposta occidentale all’invasione russa dell’Ucraina. La prima contraddizione riguarda la disparità di trattamento riservata dai Paesi europei ai migranti in fuga dal conflitto nell’est Europa: mentre l’apertura delle porte del continente europeo a questi ultimi destava cori di elogi per la solidarietà mostrata, non è difficile immaginare come lo stesso fenomeno, osservato da un migrante africano o asiatico, abbia provocato sentimenti opposti. Ciò è più facilmente intuibile ricordando i trattamenti riservati ai richiedenti asilo dalla guardia costiera greca e da quella libica, o il modo con cui le autorità europee hanno «deumanizzato […] i richiedenti asilo non europei intrappolati nelle gelide foreste al confine tra Polonia e Bielorussia […] usati come pedine politiche dal leader bielorusso Aljaksandr Lukašėnka» (Euronews, 2021). Come hanno scritto Venturi e Vallianatou (2022), le autorità europee si sono riferite a questo caso descrivendolo come un «attacco ibrido» e non una crisi migratoria. Le dichiarazioni e le politiche attuate dalle autorità europee e dai Paesi confinanti con la Bielorussia hanno mostrato quanto il loro approccio alla questione migratoria sia ispirato dalla paura delle ondate di migranti e delle loro conseguenze sulla politica interna europea, ciò che non ha fatto altro che fornire a Minsk (e non solo) uno strumento sempre più potente per influenzare le azioni europee. Così, Bruxelles ha definito una minaccia alla sicurezza dell’Unione europea la presenza al confine bielorusso di circa 3.000 migranti provenienti per la maggior parte da Iraq e Siria, mentre nel caso della guerra in Ucraina i Paesi dell’UE hanno accolto più di 4 milioni di rifugiati (European Council, 2023). Oltre a motivazioni (parzialmente comprensibili) di tipo culturale e di prossimità, la differenza tra i numeri indica che la capacità di accoglienza dell’Unione e dei suoi membri è influenzata da valutazioni di tipo geopolitico. Pur senza ignorare l’effettivo uso politico dei migranti compiuto dai regimi bielorusso e russo, è evidente che il cosiddetto Sud Globale può facilmente accusare l’Europa di incoerenza e di doppiopesismo. A maggior ragione considerando che nel 2023 la risposta ai flussi migratori nel Mediterraneo ha replicato uno schema utilizzato in precedenza: come nel caso degli accordi con la Turchia o di quelli con la guardia costiera libica, l’UE, con l’Italia a svolgere un ruolo da protagonista, ha gestito la crisi esternalizzando il controllo delle frontiere. In questo caso ci si è rivolti alla Tunisia del presidente Kais Saied, il quale si è ampiamente distinto per la sua retorica antidemocratica, razzista, antisemita e complottista (Brown, 2023). Non si tratta di affermare che gli accordi politici internazionali vadano fatti solamente con partner con gli stessi standard democratici che caratterizzano i Paesi europei, ma di comprendere quale tipo di approccio, anche comunicativo, renda più credibile la posizione delle democrazie europee agli occhi del resto del mondo.

 

È tuttavia con la guerra a Gaza seguita agli attentati del 7 ottobre in Israele che la frattura tra Europa e mondo arabo-islamico si è approfondita in maniera eclatante. Le posizioni diplomatiche statunitensi, con i ripetuti veti imposti al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, sono divenute insostenibili per gli alleati europei, che si sono espressi in maniera più sfumata in sede ONU. Ciononostante, anche la maggior parte dei Paesi del Vecchio Continente e le istituzioni comunitarie hanno dimostrato in maniera piuttosto inequivocabile il sostegno allo Stato ebraico, fatte salve timide richieste di rispetto del diritto internazionale umanitario. La credibilità della posizione espressa dall’Unione europea è stata messa in discussione in primo luogo dalle contraddizioni dei suoi stessi vertici: all’indomani degli attacchi il presidente della Commissione Ursula von der Leyen si è recata in Israele insieme a Roberta Metsola, presidente del Parlamento Europeo, suscitando le ire di diverse capitali europee (Vinocur  et al., 2023) non solo per aver espresso una linea probabilmente più filo-israeliana di quanto concordato, ma soprattutto per l’“invasione” nel campo della politica estera. Tanto che l’Alto Rappresentante per la politica estera Joseph Borrell ha ricordato pubblicamente che questa materia non rientra nelle competenze della Commissione (Staunton, 2023). La confusione e il conflitto interno all’Unione hanno indebolito la posizione europea nei confronti dei partner di Medio Oriente e Nord Africa. È soprattutto a livello di opinioni pubbliche, però, che si è consumata la rottura tra Occidente ed Europa, e il cosiddetto Sud Globale (tra cui i Paesi arabo-islamici) che accusa di ipocrisia gli Stati Uniti (Stuenkel 2023) e i Paesi europei. La critica nei confronti delle posizioni occidentali sul conflitto israelo-palestinese è una costante anche della stampa araba. Ciò si avverte in maniera più esplicita sui media vicini all’Islam politico e alla causa palestinese, ma a mano a mano che il conflitto si aggrava, anche su quotidiani generalmente più morbidi nei confronti di Israele, come quelli sauditi ed emiratini, sono emerse posizioni di forte condanna. Nel primo gruppo rientra al-‘Arabi al-Jadid, dove si legge che «i sionisti non sono gli unici a condurre la guerra di annientamento contro Gaza, ma in questo sono preceduti dall’Occidente razzista, rappresentato dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea, i quali fanno a gara per vedere chi contribuisce maggiormente all’annientamento del popolo palestinese, sia tagliando gli aiuti finanziari e materiali, sia spostando le Marine militari per sostenere l’occupazione nel [suo progetto di] rimozione di Gaza dalla cartina del mondo»[1]. Del secondo gruppo fa parte invece un quotidiano degli Emirati Arabi Uniti, Paese che ha firmato gli Accordi di Abramo con Israele e che non ha alcuna simpatia per Hamas: al-Ittihad. Questo giornale ha evidenziato che «non si può giustificare la punizione collettiva per la Striscia»[2] di Gaza. Anche Al-Sharq al-Awsat, quotidiano panarabo di proprietà saudita (Paese che secondo quanto affermato dal suo Primo Ministro[3] stava per firmare un accordo di normalizzazione con lo Stato ebraico), ha sottolineato in uno dei suoi articoli che «l’occupazione, l’insediamento dei coloni, l’umiliazione, l’indifferenza, l’aver scommesso sul fatto che la causa palestinese, col passare del tempo, sarebbe stata dimenticata non hanno risolto i problemi esistenti»[4].

 

La guerra a Gaza e la risposta occidentale alle azioni israeliane, paragonata alla retorica su democrazia e rispetto dei diritti umani, sta scavando un fossato tra l’Occidente e il mondo arabo-islamico. Un fossato in progressivo allargamento. Nelle prime fasi della guerra, infatti, si poteva cogliere in una parte del mondo arabo-islamico una certa empatia con Israele. Tuttavia, tale sentimento è venuto meno anche tra le élite di queste società. È paradigmatico il caso del principe Turki al-Faisal, ex ambasciatore saudita a Washington e per 21 anni direttore dei servizi di informazione del Regno. In un suo discorso[5] del 17 ottobre 2023 il principe aveva inequivocabilmente condannato le azioni di Hamas, pur senza risparmiare critiche al governo israeliano di estrema destra. Alla fine di dicembre del 2023 il tono delle dichiarazioni di Turki al-Faisal è decisamente cambiato e la netta condanna di Hamas ha lasciato il posto al riconoscimento che l’azione dell’organizzazione terrorista palestinese ha avuto il “merito” di far crollare l’immagine di invincibilità di Israele e di ravvivare la causa palestinese[6].

 

Come messo in luce da un’indagine condotta da Arab Barometer (Robbins et al. 2023), il sostegno incondizionato che Washington garantisce a Israele si è tradotto in una diminuzione del grado di approvazione degli Stati Uniti nella regione mediorientale, accompagnata dal contestuale aumento dell’apprezzamento nei confronti di Paesi come Cina e Iran. Dal canto suo, Pechino è ben consapevole delle preferenze e delle opinioni del mondo arabo-islamico e del Sud Globale, e utilizza le contraddizioni della politica estera americana a suo vantaggio, utile dimostrazione che «il tanto decantato ordine basato sulle regole è sempre stato una messinscena. Mentre gli Stati Uniti sono stati rapidi nel condannare i crimini di guerra russi in Ucraina e il trattamento riservato dalla Cina agli uiguri, [Washington] è rimasta in silenzio di fronte a quello che il resto del mondo considera un comportamento identico da parte di Israele (a prescindere dal fatto che tale concezione sia fondata o meno)» (Leonard, 2024). Tuttavia, ha scritto il sociologo Amro Ali, anche un Paese tradizionalmente ben visto dal mondo arabo come la Germania sta perdendo consensi e alleati nella regione a causa del sostegno a Israele: «la reazione occidentale alla guerra israeliana nella Striscia di Gaza è un regalo immeritato al sovrano russo Vladimir Putin, e nessuno nel Sud Globale ascolterà più i politici occidentali quando insisteranno sul diritto internazionale» (Alì, 2024). Non a caso, quando Israele ha decretato lo stato di assedio alla Striscia di Gaza, con il taglio di tutte le forniture, è diventato virale un video del 2022 di Ursula von der Leyen (2022): gli attacchi «contro le infrastrutture civili, in particolare l’elettricità, sono crimini di guerra. Privare uomini, donne e bambini dell’acqua, dell’elettricità e del riscaldamento con l’arrivo dell’inverno: questi sono atti di puro terrore». Il presidente della Commissione si riferiva alle azioni di Vladimir Putin in Ucraina. Parole ineccepibili che tuttavia stridono se paragonate al silenzio nei confronti di pratiche simili da parte di Israele. La percezione del doppiopesismo europeo si è poi acuita quando diversi Paesi dell’Unione hanno imposto divieti alle manifestazioni di solidarietà nei confronti della popolazione palestinese. È altamente probabile che i musulmani nel mondo abbiano reagito a tali divieti ricordando con amarezza tutte le volte che in Europa si è invocata la libertà di espressione per difendere anche il diritto dei vignettisti di fare satira offensiva nei confronti della religione islamica.

 

Sono stati profusi grandi sforzi per portare i Paesi arabi, e in particolare le monarchie del Golfo produttrici di idrocarburi, ad assumere una posizione in linea con gli interessi occidentali. La collaborazione dei Paesi arabo-islamici è stata richiesta tanto per la gestione della crisi energetica seguita all’invasione russa, quanto per l’implementazione delle sanzioni economiche nei confronti di Mosca. Anche durante la fase della guerra al terrore seguita agli attacchi dell’11 settembre abbiamo assistito a un’iniziativa diplomatica a differenti livelli per allontanare i Paesi e le società arabo-islamiche dall’estremismo di al-Qaida. In quel caso questi Stati non hanno esitato a riconoscersi in un noi contrapposto all’estremismo dei gruppi terroristici, che minacciavano le loro stesse società. Al contrario, oggi, avendo definito il noi come il “campo democratico”, l’Occidente e l’Europa hanno di fatto chiuso la porta alla maggior parte dei Paesi arabi, che non può riconoscersi nel sistema democratico occidentale. Anzi, con ogni probabilità non solo non può farlo, trattandosi di Paesi autoritari, ma nemmeno vuole: vengono in mente le parole scritte dal giornalista egiziano Dia Rashwan sul quotidiano emiratino al-‘Ayn[7] nell’estate del 2023 quando, per quanto in maniera polemica, invitava gli Stati occidentali ad essere «essi stessi democratici, accettando la diversità e il pluralismo a livello delle società mondiali e non solo all’interno delle proprie società, e comprendendo che non esiste un singolo modello di democrazia, ovvero il loro modello secolare». Ad essere cambiata è anche la strategia di questi Paesi, soprattutto per quanto riguarda i più importanti, come l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, non più disposti a seguire pedissequamente gli input ricevuti dal più importante alleato, gli Stati Uniti. A più riprese i vertici sauditi hanno ribadito che sono gli interessi nazionali sauditi a guidare l’azione del Regno (El Yaakoubi  et al. 2022), e non ciò che serve a Washington o Bruxelles. Così, i Paesi arabo-islamici e in particolare quelli del Golfo perseguono strategie di hedging che rifuggono dalle dicotomie noi-loro e, al contrario, si riservano il diritto di continuare a parlare e a cooperare con tutti gli attori del sistema internazionale su ogni dossier, dalla guerra in Ucraina alla situazione a Gaza (Fontana 2024). Se l’Occidente non vuole essere sempre più isolato dovrebbe seriamente tenere in considerazione la natura, le necessità e le opinioni dei suoi partner internazionali.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
 
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Rifermenti bibliografici

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Vinocur, N., Moens, B., Barigazzi, J., e Lynch, S. (2023) ‘EU capitals fume at ‘Queen’ von der Leyen’, Politico Europe» 17 ottobre 2023. Disponibile al link: https://www.politico.eu/article/eu-governments-fume-at-queen-ursula-von-der-leyen/. Accesso effettuato: 28 gennaio 2024.

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[1] Citato in: Chiara Pellegrino, Cade il mito dell’invulnerabilità israeliana, ma gli arabi hanno poco da festeggiare, Fondazione Internazionale Oasis, 13 ottobre 2023. Disponibile al link: https://www.oasiscenter.eu/it/cade-il-mito-dell-invulnerabilita-israeliana-ma-gli-arabi-hanno-poco-da-festeggiare.
[2] Citato in: Mauro Primavera, Lettera a un leader di Hamas, Fondazione Internazionale Oasis, 27 ottobre 2023. Disponibile al link: https://www.oasiscenter.eu/it/rassegna-stampa-araba-lettera-a-un-leader-di-hamas.
[3] Bret Baier previews ‘historic moments’ in first-ever all-English interview with Saudi Arabia’s Crown Prince, «Fox News», 20 settembre 2023. Disponibile al link: https://www.foxnews.com/video/6337512022112.
[4] Citato in Chiara Pellegrino, Cade il mito dell’invulnerabilità israeliana.
[5] Chaos in Energy Markets Then and Now: 50 Years After the 1973 Arab Oil Embargo, Baker Institute for Public Policy, Rice University, 17 ottobre 2023. L’intervento di Turki al-Faisal è disponibile su YouTube al seguente link: https://www.youtube.com/watch?v=MdH9ZlYoTcY [2:24:45 – 2:44:33].
[6] L’intervista a Turki al-Faisal realizzata dalla televisione saudita al-Ekhbariya è disponibile sull’account X dell’emittente al link https://twitter.com/alekhbariyatv/status/1741860488638615630.
[7] Diya’ Rashwan, Hawla al-Ihtimam al-Gharbi bi-bina’ al-dimuqratiyya fi biladina [A proposito dell’interesse occidentale nella realizzazione della democrazia nei nostri Paesi], «al-‘Ayn al-Ikhbariyya», 15 luglio 2023. Disponibile al link: https://al-ain.com/article/democracy-europe-middle-east.

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