Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 25/09/2024 11:06:02

L’esplosione dei cercapersone di Hezbollah e l’allargamento del conflitto israelo-palestinese al Libano ha alimentato diverse riflessioni sulla stampa araba in merito alle nuove tecniche di guerra e al ricorso alla tecnologia e all’intelligenza artificiale per colpire il nemico. Israele, commenta su al-‘Arabi al-Jadid il giornalista giordano Muhammad Abu Ruman, «sta cercando di creare una nuova equazione di deterrenza, fondata sulla superiorità tecnologica militare, dopo che i suoi leader si sono resi conto che la deterrenza e le armi tradizionali non sono più sufficienti di fronte al progresso dei missili e delle armi moderne di cui è dotato l’Asse della Resistenza». Quello che abbiamo visto in questi giorni, prosegue l’articolo, è l’esito di una tendenza in atto da diversi anni, che vede Israele investire massicciamente per «sviluppare le proprie capacità tecnologiche nel campo dell’intelligenza artificiale e della guerra informatica». Un settore che negli ultimi dieci anni è cresciuto a ritmo sostenuto, finendo per acquisire un peso enorme nell’economia israeliana – secondo i dati della Banca israeliana esso rappresenta «più della metà delle esportazioni israeliane, un terzo delle entrate e circa un quinto della produzione economica totale, e impiega il 16% della forza lavoro». I fatti degli ultimi giorni aprono inoltre a una riflessione sul cambio di equazione avvenuto anche all’interno della Resistenza, prosegue Ruman. In passato la «punta di diamante» della Resistenza erano i regimi ufficiali, personificati da Gamal Abdel Nasser, Hafez al-Assad e poi Saddam Hussein, ma oggi non è più così, e a dominare sono «le logiche confessionali e il centralismo iraniano». I regimi arabi, conclude il giornalista, si collocano ormai al di fuori della cornice del conflitto, sono spettatori più che attori, e si preoccupano soltanto delle ricadute che il conflitto può avere sulle sorti dei Paesi che governano.

 

Su al-Sharq al-Awsat, quotidiano panarabo di proprietà saudita, Samir Atallah paragona Netanyahu ai due presidenti americani Lyndon Johnson e Richard Nixon, che decisero di «prolungare la guerra in Vietnam per calcoli elettorali essendo entrambi coinvolti in crisi etiche che tentavano di mascherare con una vittoria politica». Netanyahu sta facendo la stessa cosa, commenta l’editorialista, «allarga il conflitto per coprire gli scandali di corruzione» in cui è invischiato, e «sposta [il conflitto da] Gaza in Libano».

 

Ghassan Hajjar su al-Nahar, uno dei principali quotidiani libanesi, mette in guardia dal rischio di guerra civile nel Paese dei cedri: «In questo momento c’è un urgente bisogno di un minimo di solidarietà sociale e nazionale, per superare questa fase difficile ed evitare che un vecchio/nuovo obiettivo di Israele, ovvero innescare una guerra civile nel Paese, possa realizzarsi […]. Israele continua a scommettere sulla lotta interna tra i libanesi, un obiettivo facile da raggiungere».

 

Il quotidiano filo-Hezbollah al-Akhbar ha pubblicato un dossier i cui articoli sono preceduti da un breve paragrafo in difesa dell’operato di Hezbollah: «Il nemico non ha deciso all’improvviso di aprire il fuoco. Per essere chiari, siamo stati noi ad aprire il fuoco a sostegno di Gaza. Quando lo abbiamo fatto, non ci siamo comportati come i ragazzi del vicinato che hanno deciso di vendicarsi per gli insulti del loro vicino. Lo abbiamo fatto consapevolmente, sapendo che l’essenza di ciò che sta facendo la Resistenza e il suo obiettivo centrale è lavorare per eliminare l’entità occupante. È vero che questo è diventato un obbiettivo immaginario nella mente di molti, ma esso è ben presente in un gruppo di persone della regione di cui Hezbollah è capofila. Questo obiettivo richiede necessariamente una stretta collaborazione con le persone del territorio, cioè i palestinesi. Questa è la ragione per cui è nato e si è sviluppato il rapporto tra la Resistenza in Libano e tutti coloro che combattono il nemico in Palestina. Sciocco chi pensava che la Resistenza in Libano sarebbe rimasta con le mani in mano di fronte a ciò che sta accadendo a Gaza».

 

Ma chi, dell’Asse della Resistenza, sarà disposto a tendere una mano al Libano nelle prossime ore? Probabilmente nessuno, si legge su al-‘Arab: né l’Iran, che «finora non ha lasciato intendere di essere pronto a intervenire direttamente, né la Siria il cui presidente, Bashar al-Asad, è impegnato in un rimpasto di governo». Questa lettura è condivisa anche dal giornalista libanese Gerard Dib, secondo il quale dal 2018 Damasco è generalmente meno propensa a intervenire nel conflitto israelo-palestinese su consiglio della Russia, ma anche per le minacce ricevute da Tel Aviv di mettere fine al regime di Asad in caso di attacco diretto a Israele. Mentre molti hanno finora preferito guardare gli eventi in silenzio, da Najaf è intervenuto l’Ayatollah al-Sistani, la massima autorità sciita irachena, che lunedì ha diffuso un comunicato attraverso la sua segreteria in cui esprimeva la sua solidarietà per il popolo libanese e chiedeva di «fare tutti gli sforzi possibili per fermare questa barbara aggressione e proteggere il popolo libanese dagli effetti devastanti». Sostegno sì, puntualizza ancora al-‘Arab, ma senza arrivare al punto di emettere una fatwa per rendere lecito il «jihad collettivo», come invece era accaduto nella guerra contro l’ISIS, quando aveva invitato tutti i cittadini iracheni a difendere il loro Paese dalle brutalità commesse dal gruppo terrorista.    

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