Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba
Ultimo aggiornamento: 19/03/2024 11:47:56
Sui quotidiani arabi continuano numerose le riflessioni sulla decisione di alcuni Paesi occidentali di sospendere i finanziamenti all’UNRWA, mentre sono pochi, per il momento, i commenti relativi alla tregua bocciata da Netanyahu, che negli ultimi giorni è tornato a parlare di «vittoria totale su Hamas» rifiutando le condizioni proposte dal movimento islamista per interrompere il conflitto. Tali condizioni sono irricevibili per il Primo ministro israeliano, perché «liberare migliaia di prigionieri palestinesi e fermare la guerra sarebbe una vittoria per Hamas e una sconfitta per Israele», spiega su al-Quds al-Arabi Jamal Zahalka, politico arabo-israeliano e militante del partito Balad, rappresentane della minoranza araba. Per Netanyahu fermare la guerra senza averla vinta militarmente significherebbe essere costretto a dimettersi e rischiare un processo con il rischio di finire in prigione – come accadde già a Olmert, Primo ministro dal 2006 al 2009, in seguito alla guerra con il Libano nel 2006. «Il fatto che la vittoria totale sia un obbiettivo impossibile non ne diminuisce il pericolo, anzi, può addirittura accrescerlo. Il perseguimento di questo obiettivo si traduce in maggiori bombardamenti, distruzioni, trasferimenti forzati, stermini e massacri perpetrati dall’esercito, che andranno avanti finché l’obiettivo non sarà raggiunto, in base alla regola per cui “ciò che non si ottiene con la forza, si ottiene impiegando una forza maggiore”», conclude l’editoriale.
Che il conflitto sia destinato a continuare per lungo tempo è opinione condivisa da molti editorialisti, a prescindere dall’orientamento delle testate per cui scrivono. Sul quotidiano panarabo al-‘Arab, il politologo emiratino Salem al-Kebti scrive che la guerra si sta gradualmente trasformando «in una guerra di logoramento». L’editorialista ritiene che la cessazione delle ostilità sia una possibilità remota perché le due parti in causa sono guidate da obbiettivi diversi. Per Hamas sarebbe più conveniente mediare un cessate il fuoco definitivo, perché riprendere i combattimenti dopo una tregua durante la quale vengono rilasciati degli ostaggi israeliani significherebbe indebolire il movimento e rafforzare la posizione dell’esercito israeliano. Per questa stessa ragione, Israele preferirebbe invece l’opzione di una o più tregue da prolungarsi secondo le circostanze, nella speranza di veder liberati quanti più ostaggi possibili e avere il tempo di organizzare l’esercito per continuare la sua guerra contro Hamas. A complicare la scena, scrive al-Kebti, è il coinvolgimento di altre parti nel conflitto: «Il proseguimento di questa guerra non è più una questione solo israelo-palestinese, perché il fronte si sta gradualmente espandendo fino a includere altri punti che comprendono, oltre a Bab al-Mandab, anche l’Iraq, la Siria e il Libano. La fine della guerra, perciò, non è più una questione bilaterale, ma è diventata una questione regionale e internazionale».
I quotidiani vicini all’Asse della Resistenza vedono nel rifiuto israeliano della tregua una vittoria di Hamas. Al-Akhbar, quotidiano filo-Hezbollah, titola: “Il giorno dopo la sconfitta d’Israele, la Resistenza si rafforza e il nemico prende tempo”. Il divario tra le richieste delle due parti in causa, «il nemico e Hamas», resta molto ampio, commenta il giornalista libanese Yahya Dbouq. «Il movimento [Hamas] chiede il ripristino della situazione precedente l’operazione “Diluvio di al-Aqsa” con alcune concessioni aggiuntive, mentre Israele di fatto vuole che la Resistenza consegni i suoi prigionieri in cambio di un prezzo sproporzionato. L’entità [sionista], inoltre, vuole imporre le condizioni come se cercasse di tradurre in termini politici una vittoria militare mai ottenuta». Inizialmente la «guerra negoziale», scrive ancora Dbouq, non era prevista perché Israele «era convinto che l’opzione militare avrebbe portato i risultati sperati, cioè la fine del governo di Hamas a Gaza». Con una certa soddisfazione, l’editorialista fa inoltre notare che «la fermezza di Hamas ha cambiato la direzione delle cose» e costretto Israele a una mediazione «con la parte che voleva annientare».
Meno concentrato su Gaza è invece il quotidiano panarabo di proprietà saudita al-Sharq al-Awsat, come si evince dal numero di articoli pubblicati su questo tema nel corso della settimana. È significativa però la scelta della testata di pubblicare un editoriale firmato dal ministro degli Affari esteri norvegese Espen Barth Eide, il quale invita i Paesi che finanziano l’UNRWA a continuare a farlo.
La necessità di continuare a finanziare l’UNRWA viene sollevata anche dai quotidiani emiratini. Preservare l’Agenzia per i rifugiati «non è soltanto un dovere umanitario […], ma anche una necessità politica, perché questa istituzione è il simbolo del diritto del popolo palestinese ad avere il proprio Stato indipendente su una parte della terra che è stato costretto ad abbandonare», commenta su al-‘Ayn al-Ikhbariya Diaa Rashwan, giornalista e politico egiziano, a capo del Servizio d’Informazione di Stato. Proprio in virtù di ciò che l’UNRWA rappresenta, Israele sarebbe felice di vedere l’Agenzia smantellata, perché con essa verrebbe meno anche l’idea che le condizioni in cui vivono attualmente i palestinesi sono «temporanee, e che essi hanno il diritto a ritornare nelle loro terre all’interno della Palestina».
Inoltre, continuano a essere numerosi gli articoli che celebrano Hamas per aver «inflitto al nemico sionista la più grande sconfitta dalla creazione della sua entità usurpatrice», oltre a «perdite economiche, umane, morali, politiche, diplomatiche e militari che nessuno, nemmeno lui, si sognava», come scrive Helmi al-Khatib su al-‘Arabi al-Jadid. Contestualmente, piovono le critiche contro il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas, definito ironicamente «il Presidente di tutti», che si rifiuta di sostenere e incontrare «coloro attorno ai quali si è radunato tutto il popolo», cioè i leader di Hamas. Il «Presidente silenzioso», commenta l’editorialista, «farebbe bene a rivedere la sua posizione sul movimento di resistenza e guardare più chiaramente che cosa stanno facendo i coloni e il governo di occupazione per minare la sua autorità». Sarebbe nel suo interesse «rafforzarsi attraverso la Resistenza».
Lo stesso quotidiano denuncia l’ipocrisia di alcuni Stati occidentali, che parlano della necessità di riconoscere alla Palestina uno Stato, ma allo stesso tempo «partecipano alla guerra genocida contro il popolo palestinese». Tra questi gli Stati Uniti, «da sette decenni responsabili di tutti i disastri che hanno colpito la regione del Medio Oriente, dall’Iraq alla Libia e alla Palestina», la Gran Bretagna «prima responsabile della tragedia del popolo palestinese da 130 anni», e la Francia «il cui presidente, dopo l’attacco del 7 ottobre, ha chiesto la costituzione di un’alleanza militare internazionale per sradicare Hamas». Altrettanto ipocrita, scrive l’editorialista marocchino Ali Anouzla, è l’atteggiamento delle capitali arabe che si sono accodate alla richiesta occidentale dei due Stati pur essendo da anni «colluse con l’entità sionista». La richiesta di due Stati nasconderebbe però delle ragioni tutt’altro che nobili: riconoscendo lo Stato palestinese, i Paesi occidentali mirano a salvare Israele dal fallimento, arginare l’opinione pubblica occidentale, che accusa i governi di essere conniventi con Israele, salvare i Paesi arabi, «complici delle guerre israelo-occidentali ai danni dei palestinesi», dalle ripercussioni che potrebbe avere l’attuale conflitto, e infine favorire la ripresa del processo di normalizzazione arabo-israeliana.
All’amministrazione americana, che «continua a sostenere il genocidio israeliano dei palestinesi», al-Quds al-‘Arabi contrappone l’Arabia Saudita e la sua «risposta lodevole alla lotta palestinese». Dopo aver accusato per mesi Riyadh di aver dimenticato la causa palestinese, il quotidiano panarabo londinese la riabilita riconoscendole il ruolo di difensore degli interessi palestinesi. «La nuova posizione saudita riporta in auge alcuni elementi delle vecchie posizioni di Riyadh sostenute da re ‘Abdallah, come l’Iniziativa di pace araba, approvata nel 2002 a Beirut dal vertice della Lega Araba». Tale iniziativa, spiega l’editoriale, vincolava il riconoscimento di Israele da parte dei Paesi arabi e la normalizzazione delle loro relazioni alla creazione di uno Stato palestinese, con capitale Gerusalemme Est, nei confini del 1967, oltre al ritiro di Israele da tutti i territori arabi occupati nel 1967, e la risoluzione della questione dei profughi palestinesi.
Il Sudafrica irrita il Marocco (e non solo) [a cura di Mauro Primavera]
La visita in Sudafrica di Staffan De Mistura, Inviato Personale delle Nazioni Unite per il Sahara Occidentale, ha innescato la protesta del Marocco, che ha accusato il diplomatico italo-svedese di parzialità nella questione del Sahara occidentale (che Pretoria riconosce come Stato indipendente), accusandolo di appoggiare le rivendicazioni del Fronte Polisario e del suo principale alleato, l’Algeria.
Durante un confronto andato in onda su France 24 Tariq Atlati, direttore del Centro marocchino di studi e ricerche strategici, ha asserito che la questione deve essere affrontata da un punto di vista del diritto, e non con le lenti della «politica populista»: recandosi in un Paese come il Sudafrica, uno Stato che non ha legami storici e geografici con il Sahara occidentale, De Mistura è uscito dal perimetro di sua competenza. «Non è uno stupido né un ingenuo però – ha affermato Atlati – nel momento in cui tutti si aspettavano una soluzione politica, diplomatica e pacifica per terminare il conflitto, ossia l’istituzione di una autonomia regionale in accordo con quanto indicato dalle grandi potenze e dal Regno, oggi il signor De Mistura ha provato a complicare il dossier unendosi alla cospirazione organizzata dal Sudafrica». Mohamed Torshin, ricercatore sudanese ed esperto di questioni africane, ha ribattuto argomentando che De Mistura ha tutto il diritto di visitare il Sudafrica. Oltretutto, il Paese è un «membro molto importante dell’Unione Africana, il cui obiettivo è quello di silenziare i fucili» e lavorare attivamente per la risoluzione delle controversie in tutto il continente africano.
Il quotidiano panarabo al-‘Arab, vicino alle posizioni del Marocco e ostile al fronte Polisario e all’Algeria, si schiera apertamente con Rabat già nel titolo: “La solidità della posizione marocchina riguardo alla diplomazia dello scambio di ruoli tra il Sudafrica e il regime algerino”. Eloquente un passo dell’articolo che ben riassume il senso generale: «la visione strategica marocchina estera si basa su solidi presupposti di politica estera. In questo modo è in grado di far abortire tutte le vili cospirazioni e i perniciosi piani diretti contro il Marocco e contro la sua integrità territoriale. Oggi il Sudafrica, Paese attivo nel continente e nel contesto internazionale, promuove sconsiderate politiche che vanno contro gli interessi delle generazioni future, sconfessando l’idea su cui si fonda lo stato sudafricano post-apartheid».
Anche al-Quds al-‘Arabi, testata che ha fortemente sostenuto la causa sudafricana alla Corte dell’Aja, ospita un paio di interventi poco benevoli nei confronti di Pretoria. Il giornalista marocchino Bilal al-Talidi critica l’iniziativa di De Mistura e considera fondate le soluzioni proposte dal suo Paese. Tuttavia, in conclusione lancia una stoccata al Regno, spiegando che il suo allineamento alle posizioni degli Stati Uniti e l’adesione al processo di normalizzazione con Israele non saranno sufficienti a eliminare le contese territoriali, specialmente in un periodo in cui l’influenza di Washington in Medio Oriente si trova in una fase calante. Lo scrittore tunisino Nizar Bulhia è ancora più diretto: «Dopo l’Algeria, qual è il Paese che stende di più il tappetto rosso al Fronte Polisario, accogliendo i suoi capi? Senza dubbio il Sudafrica, che non solo riconosce il Fronte, ma lo sostiene a livello politico, finanziario e forse anche militare […]. È chiaro che il Sudafrica, contrariamente a quello che si potrebbe immaginare, non è il paladino che si erge a difesa di quelle che considera questioni umanitarie da una prospettiva emotiva o sentimentale», ma persegue un disegno politico che agisce negli interessi della nazione. Certo, riconosce l’autore, Pretoria è stata osannata dagli arabi per il suo esposto alla Corte dell’Aja; tuttavia, è evidente che i sudafricani «stanno aggirando tutti gli ostacoli geografici e i precetti politici, mettendosi in mezzo a un conflitto regionale che divide due Paesi maghrebini e impedisce qualsiasi tentativo di unificare il Nordafrica».
Prova a spegnere il fuoco Hasan Aourid, professore di scienze politiche l’Università Mohammed V di Rabat, che su Al Jazeera pubblica un intervento dal titolo: “Non è forse giunto il momento di stemperare l’ostilità tra Marocco e Algeria”: «la guerra che voglio tra il mio Paese, il Marocco, e l’Algeria è la guerra contro la povertà e l’ignoranza, ma vorrei che venisse intrapresa congiuntamente» da entrambi gli Stati.