Il fatto che le culture siano in movimento rappresenta da sempre una costante del modo umano di abitare il mondo: nessuna civiltà è pensabile senza mettere in conto un processo articolato di contatto e compenetrazione tra popoli diversi, avvenuto nel corso di millenni di migrazioni.
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:50:02
Il fatto che le culture siano in movimento rappresenta da sempre una costante del modo umano di abitare il mondo: nessuna civiltà è pensabile senza mettere in conto un processo articolato di contatto e compenetrazione tra popoli diversi, avvenuto nel corso di millenni di migrazioni. I greci, solo per fare un esempio, pur così orgogliosi della loro identità, consideravano il Medio Oriente e l'Egitto i loro antenati culturali, al punto che sembra plausibile parlare - come fa Martin Bernal - di un'Atene "nera". Dal canto suo, l'India non restò insensibile all'interazione con l'ellenismo: il Buddha, figura totalmente indiana, viene talvolta ritratto secondo i canoni mediterranei. La differenza, rispetto al passato, è che oggi il fenomeno della "mescolanza" ha assunto proporzioni planetarie. L'accelerazione e l'espansione dei flussi migratori ha come effetto la globalizzazione degli incontri-scontri tra le culture. Questo primo fatto richiede uno sforzo di analisi, dal momento che rappresenta la congiuntura epocale che determina la specificità dei processi di meticciato con cui oggi abbiamo a che fare. Al di là del contrasto tra la tesi continuista (la globalizzazione è un processo che accompagna da sempre la storia umana, non solo occidentale) e la tesi discontinuista (la globalizzazione è l'avvento di un'età globale che "rompe" con l'età moderna), è certo che stiamo vivendo ormai da tempo un passaggio d'epoca, un mutamento radicale che già nel 1928 Paul Valery aveva ben presente, quando scrisse i suoi Regards sur le monde actuel: «I fenomeni politici della nostra epoca sono accompagnati e resi più complessi da un mutamento di scala senza precedenti, o piuttosto da un mutamento nell'ordine delle cose. Il mondo al quale cominciamo ad appartenere, uomini e nazioni, è soltanto una controfigura del mondo che ci era familiare. Il sistema delle cause che governa il destino di ciascuno di noi, estendendosi ormai alla totalità del globo, lo fa a ogni scossa riecheggiare tutto quanto: non esistono più questioni delimitate, anche se possono esserlo in un singolo punto» . Ora, questo complesso intreccio di globale e locale, cioè questo inedito fenomeno di glocalizzazione - come è stato opportunamente definito -, rappresenta la sfida del nostro tempo: da una parte i confini interni dei gruppi e delle società non coincidono più con le frontiere geografiche (questo, tra l'altro, è uno dei motivi per cui il meticciato non può essere su base etnica, se per etnia intendiamo una codifica identitaria naturale, immutabile e sovraordinata a qualsiasi altro tipo di appartenenza); dall'altra si è formato un gap incolmabile tra la dimensione globale - egemonizzata dal mercato e dalle nuove tecnologie della comunicazione - e le pratiche routinizzate di una politica ancora vincolata al vecchio paradigma territoriale. Questo dislivello significa, concretamente, che il potere normativo dello stato-nazione non riesce più a regolare i flussi del capitale trans-nazionale; a sua volta, il mercato globale funziona secondo una logica che non è affatto garanzia di libertà: anzi, quando il denaro gira intorno alla terra, le persone e le culture corrono il rischio di diventare merce di scambio. In breve, sembra proprio che economia, cultura e politica siano diventate sfere autonome, che funzionano con regole proprie, reciprocamente incompatibili e spesso in conflitto. Arjun Appadurai è uno degli studiosi più attenti a questo fenomeno. Secondo l'antropologo americano, il mondo mutevole e fluido in cui viviamo non è caratterizzato soltanto da panorami di persone in movimento (ethnoscapes); a muoversi in modo veloce e inafferrabile è anche la capacità di produrre e diffondere informazione (mediascapes), la tecnologia (technoscapes), il capitale globale (financescapes) e infine le stesse idee politiche come libertà, benessere, diritti, democrazia (ideoscapes). Ora, questi cinque panorami (-scapes) si intrecciano e si separano in vari modi. Prendiamo - ad esempio - il nesso tra ethnoscapes e mediascapes: è sufficiente pensare a come Internet permetta a tanti immigrati di continuare a parlare la propria lingua, oppure di impararne un'altra. Ciò significa che i media, soprattutto quelli elettronici, sono in grado, almeno in parte, di determinare l'immagine che un certo gruppo umano si crea della propria cultura e della cultura dell'altro. Eppure non sempre questa potenzialità permette che culture diverse si incontrino in modo pacifico: l'invasione di informazioni rende incerti i confini tra "noi" e "loro", e troppo spesso a questa incertezza si tenta di rimediare con la violenza e il terrorismo. ORGANISMO VIVENTE Nel 1983, intervenendo al Congresso mondiale di filosofia a Montréal, Lévinas mise in guardia contro ogni tentativo di spogliare l'Altro della sua alterità. In ogni cultura, dice Lévinas, c'è come la tentazione di restare identici, cioè di proteggersi dal diverso, proprio perché l'incontro con la diversità umana crea scompiglio. Ora, questa ossessione identitaria è un'altra congiuntura con cui il processo di meticciato deve oggi misurarsi. È chiaro, infatti, che se si dà il fatto incontestabile del contatto tra culture diverse, non si può più ragionare in termini di identità identica o di cultura chiusa in se stessa. Questa battaglia per un'idea nuova di cultura, cioè una cultura aperta all'incontro con l'altro, è un compito urgente. A questo proposito, può essere d'aiuto riferirsi al dibattito avvenuto nel corso del seminario interdisciplinare sull'identità, diretto da Lévi-Strauss nel 1974, cui partecipò, tra gli altri, Michel Serres, che è considerato uno dei massimi teorici del meticciato. Proprio Serres avanzò la tesi che una cultura non è un blocco omogeneo e inalterabile nel tempo, bensì un organismo vivente che storicamente interagisce con il suo ambiente, venendo a contatto con altre culture. In questo senso, non si può fare cultura senza tentare di costruire un nesso tra la propria esperienza e quella degli altri. Ciò non significa che questo collegamento sia indolore o che sia sempre possibile: talvolta, può accadere che due culture si mescolino solo entrando in conflitto, oppure può accadere che non si mescolino affatto, forse perché il conflitto è tale da separarle irrimediabilmente. Ma, al di là di questa normale dialettica storica, che pure dev'essere presa in conto e analizzata, ciò che importa - a questo livello - è che il protagonista di questi scambi vitali tra le culture non può certo essere l'individuo ossessionato dal bisogno di restare identico: emerge qui una figura antropologica nuova, che Serres definisce attraverso l'immagine suggestiva del «tessitore», cioè di colui che - per l'appunto - vive di "legami" con coloro che incontra sul suo cammino, praticando ponti e vie tra spazi radicalmente diversi. Ora, l'aspetto interessante è che questo tipo umano sembra cogliere qualcosa di essenziale dell'esperienza del meticciato: il meticcio, infatti, "tesse" nella propria carne e nel proprio sangue l'incontro di due culture. Questo vuol dire anche un modo nuovo di intendere l'inter-culturalità: non più come uno spazio vuoto e asettico, costruito artificialmente per tentare una mediazione tra due universi culturali supposti incomunicabili, ma come l'evento drammatico di un incontro trasformante di due identità aperte, in costante ricerca l'una dell'altra. Del resto, se è vero, come afferma Gandhi, che nessuna cultura può sopravvivere se pretende di escludere le altre, allora ogni cultura ha un bisogno vitale di incontrare altre culture. Si può vedere la cosa anche in un altro senso, suggerito da Merleau-Ponty: se una cultura si giudica dal grado di "trasparenza", cioè dalla coscienza che ha di se stessa e delle altre, è pur vero che esiste sempre un «angolo cieco», una «regione selvaggia» - dice Merleau-Ponty - interna a ogni cultura, che non consente mai di concludere a un possesso definitivo di sé e della verità. Detto in termini più semplici, una cultura non è mai "completa", le manca sempre qualcosa per dire il reale della propria storia. Proprio questo scarto, questa mancanza, è ciò che fa sì che una cultura, se è viva, non può mai riposare su se stessa, ma è sempre, in qualche misura, alla ricerca di un interlocutore fuori di sé. CONNOTAZIONE BIO-POLITICA Gli uomini e le donne che si spostano sono i protagonisti del meticciato: sono coloro che ne pagano il prezzo. In effetti, come nota opportunamente Todorov, il soggetto migrante è sempre - in misure certamente diverse - un soggetto "spaesato", perché deve affrontare una realtà diversa e non sempre ospitale. Al contempo, chi migra - aggiunge Todorov - è sempre anche "spaesante", nel senso dell'Unheimlich freudiano: turba l'idea di cultura chiusa e omogenea che è il sintomo di quel bisogno di essere identici che spesso ci spinge a voler "addomesticare" a tutti i costi l'altro. Spetta dunque al migrante, "insieme" al suo ospite, il compito etico di trovare le forme politiche di collegamento e connessione delle proprie rispettive storie. Il termine "meticciato" è carico di connotazioni di cui è bene tener conto per capire il modo in cui oggi viene usato nel dibattito. L'attestazione più antica la si ha in san Girolamo, che usa mixticium per tradurre il greco symmiktos dei LXX. Mixticium, che significa di razza mista, viene da mixtum (misto). In genere, però, si fa derivare il termine dallo spagnolo mestizo, che risale all'epoca della dominazione coloniale europea nelle Americhe, e che significa nato dall'incrocio di gruppi etnici differenti . Questa connotazione bio-politica sembra - per certi versi - indelebile, persino quando il termine entra nel vocabolario scientifico dell'antropologia culturale: non si può dimenticare, infatti, che l'antropologia cosiddetta applicata si è sviluppata proprio in concomitanza con l'espandersi dell'interesse europeo per gli altri popoli e che, almeno inizialmente, vi è stata una forte congruenza fra l'interesse coloniale e gli sforzi dell'antropologia, in specie britannica, volti ad analizzare l'impatto della civiltà occidentale sui sistemi politici indigeni. Strettamente imparentato alla medesima area semantica è il termine "ibrido". È pur vero che i sostenitori più accaniti del meticciato, come ad esempio Laplantine e Nouss, tendono addirittura a contrapporre i due termini: mentre il meticciato - secondo loro - sarebbe un processo mai concluso, un dinamismo inesauribile di contaminazioni, l'ibridazione è invece considerato uno status acquisito, l'esito di una fusione che approda a un tertium quid. Ciò detto, bisogna pur riconoscere che hybrid è di fatto il termine che, in ambiente anglosassone, corrisponde a meticciato (esiste il termine mixity, ma non è molto diffuso). Anche hybrid, del resto, mette chiaramente allo scoperto il significato "biologico" e "politico" dell'incrocio tra diversi. Come mostra bene Robert Young, hybrid è al centro di un lungo dibattito che risale fino all'opzione tra poligenesi e monogenesi; da questo punto di vista, hybrid può dunque fare da supporto tanto a tesi sull'amalgamation e il melting-pot tra razze diverse, ma appartenenti a un'unica specie; oppure può diventare lo stigma di culture giudicate inferiori perché di specie diversa. VALENZA IDEOLOGICA Altro discorso interessante bisognerebbe fare per il termine "creolo". Anche qui abbiamo a che fare con un termine coniato nel XVI secolo, durante la grande espansione coloniale europea. Creolo fu inizialmente applicato alle persone di origine europea nate nelle colonie, per distinguerle dagli immigrati di classe elevata nati in Europa. Poi divenne attributo delle lingue originatesi da complesse mescolanze di differenti idiomi. È perciò inevitabile che, in questo caso, gli studi sul meticciato si intreccino con gli studi di linguistica e letteratura comparata. Oggi, l'origine "coloniale" e il significato biologico di questi termini sembrano - almeno apparentemente - questioni del passato: sia meticciato che hybridization, come anche "creolizzazione", sono usati in senso prevalentemente metaforico per indicare il contatto tra culture e civiltà diverse. Tuttavia, bisogna notare che sempre più spesso il meticciato assume una connotazione decisamente polemica, diretta a contrapporsi alle versioni hard del multiculturalismo, sia nella versione omologante, che sostiene la necessità per l'Occidente di assimilare le differenze, sia soprattutto nella versione cosiddetta differenzialista: infatti, mentre quest'ultima adotta una sorta di atteggiamento ecologista, secondo cui le culture sarebbero delle specie da preservare nella loro intatta purezza, per i sostenitori del meticciato non esistono culture pure: allorché si interviene in un mondo interconnesso - afferma ad esempio Clifford - si è sempre, in varia misura, "inautentici", presi tra certe culture, implicati in altre. Con questa digressione sugli usi metaforici del termine si apre la questione più delicata: non si può ignorare che la categoria di meticciato appare con una precisa valenza ideologica, dal momento che viene usata in modo sistematico nei cosiddetti post-colonial studies. E non è un caso che si tratti di studi post-coloniali: contro la violenza del colonialismo occidentale, che ha preteso - a vari livelli - di inglobare e distruggere le differenze, la strategia dei discorsi postcoloniali è quella di mostrare, in un certo senso, il rovescio della medaglia, cioè che il prezzo della dominazione coloniale è stato l'imbastardimento anche del più "forte". Ne segue che non esistono più (e, in fondo, non sono mai esistite) identità e culture pure, ben definite. Esiste solo il bricolage infinito delle contaminazioni, e l'invito è proprio quello di immergersi in questa spensierata fluttuazione da un ambito culturale all'altro. Solo che qui si confondono due piani sociali del tutto diversi: come fa notare Slavoj Zizek, è troppo facile tessere le lodi della natura ibrida del soggetto migrante postmoderno quando si hanno a disposizione i visti necessari per varcare senza problemi ogni confine; ma per il lavoratore migrante, cacciato dal suo paese dalla povertà o dalla violenza, la tanto decantata natura ibrida rappresenta una concretissima esperienza traumatica, quella di chi non può mai essere in grado di stabilirsi davvero in un posto e di legalizzare il suo stato. La difficoltà di "scollare" l'uso del termine meticciato dalle sue derive ideologiche (coloniali e post-coloniali), la connotazione biologica, che pure continua a pesare, malgrado la metaforizzazione, hanno indotto Jean-Loup Amselle, autore del famoso Logiche meticce (1990), ad abbandonare il termine, optando per una metafora - secondo lui - meno compromessa: anziché di meticciato, bisognerebbe parlare di «connessioni» tra culture. Lasciando in sospeso la questione di capire se la sostituzione del termine sia davvero risolutiva, mi pare che la scelta di Amselle rappresenti un sintomo che va interrogato. LE CULTURE SI RACCONTANO In particolare, occorre chiedersi quale è la reale portata della metafora. Certamente il meticciato descrive una situazione reale e irreversibile di contaminazione. Ma non si può dire che questo fatto sia un esito necessario del contatto tra culture diverse, un esito che possa in qualche modo essere previsto e astrattamente disciplinato. Piuttosto, si tratta di un esito che certamente è possibile perché ha a che fare con la natura "vivente" delle culture: essendo organismi interattivi, le culture possono effettivamente entrare in contatto e subire modificazioni talvolta radicali. Ciò detto, occorre evitare di "sovraccaricare" il meticciato di un peso politico che non potrebbe sopportare: in altri termini, il meticciato non ha titoli sufficienti per diventare il metodo dell'inter-culturalità. Quest'ultima può certamente avere come conseguenza storica il meticciato, ma ha come obiettivo prioritario la costruzione di uno spazio comune di riconoscimento, al di là delle trincee identitarie, ma al di qua di caotiche ibridazioni. È proprio in questo senso che Michel De Certeau, all'inizio degli anni '80, parlava proprio di «meticciato culturale», definendolo come «un libero spazio di parola e di manifestazione» , non surrogabile dallo Stato, in cui le culture cercano di raccontarsi le une alle altre, in una logica irrinunciabile di testimonianza. Se, dunque, si può intendere il meticciato come uno degli esiti non programmabili della dialettica storica tra le diverse narrazioni, allora il meticciato culturale, e - al limite - anche il meticciato biologico, non sembra incompatibile con quelle che Seyla Benhabib chiama «iterazioni democratiche» : un insieme di processi deliberativi attraverso i quali le identità individuali e collettive rendono fluide e negoziabili le distinzioni tra cittadini e stranieri, tra "noi" e "loro", ridiscutendo e "aggiornando" i principi di inclusione. Il che, tra l'altro, rinforza l'idea fondamentale che la democrazia è sempre da costruire, perché - oggi più che mai - non può illudersi di avere scoperto finalmente il segreto di un dialogo trasparente tra persone di diverse culture, ma deve invece sforzarsi di tener conto anche delle esigenze dei suoi ospiti, senza che ciò significhi rinunciare al diritto di porre regole.