La conversazione tra Sally Hayden e Alessandro Banfi alla conferenza internazionale “Cambiare rotta. I migranti e l’Europa”

Ultimo aggiornamento: 07/02/2024 11:52:05

AB: Chiudiamo in bellezza la mattinata. Mi permetto di usare il latino e direi: dulcis in fundo. Anche se sarà un po’ anche in cauda venenum, perché questo libro, di cui vi consiglio la lettura, è un pugno nello stomaco. Il titolo è E la quarta volta siamo annegati. Sally Hayden, trentaquattro anni, è una giornalista irlandese. Roberto Saviano l’ha appena definita sul Corriere della Sera «una delle più importanti reporter del mondo in tema di immigrazione». E noi siamo felici che la Conferenza internazionale di Oasis oggi sia coincisa con la sua visita in Italia, una visita programmata per lanciare l’edizione italiana di questo libro, edito da Bollati & Boringhieri. La coincidenza ci ha dato l’opportunità di farvela conoscere e incontrare. Sally lavora e ha lavorato fra Dublino e l’Africa per grandi testate giornalistiche come l’Irish Times, il New York Times, il Washington Post e la Cnn. Questo libro ha vinto numerosi premi giornalistici.

AB: Sally, tutto ha inizio il 26 agosto del 2018 quando ti arriva un grido d’aiuto, un messaggio su Facebook da un ragazzo eritreo. Poi questo scambio, a cui dai credito, diventa una chiacchierata su WhatsApp e questo giovane ti scrive: «Siamo in prigione in Libia». Ieri sera mi hai raccontato che in realtà non sei stata affatto la prima persona a cui questo messaggio è arrivato. Ma tu lo hai preso sul serio.

 

SH: Sì, la mia inchiesta sulla Libia è iniziata proprio con quel messaggio su Facebook, anche se mi occupavo di migrazione già da molto tempo. Come giornalista coprivo molte cose diverse, del tipo: ti occupi di un naufragio, poi passi alla notizia successiva. Quando ho iniziato a ricevere messaggi da persone nei centri di detenzione libici per migranti, non era la prima volta che incontravo dei rifugiati. A diventarmi chiaro fu il fatto che in realtà quelle persone si trovavano in quella situazione a causa della politica migratoria europea. Per me è stato fondamentalmente uno shock, perché vengo dall’Irlanda, sono europea, e le persone che mi hanno contattata per prime erano rinchiuse in un centro di detenzione da mesi nonostante non fossero accusate di nulla. Ovviamente non avevano accesso ad avvocati, venivano maltrattati, a volte torturati, a volte lasciati morire di fame. La ragione per cui alla fine sono riusciti a contattarmi è che intorno a loro è scoppiata una guerra e le guardie, che li avevano maltrattati, sono scappate. A quel punto siamo entrati in contatto. Ho iniziato a invocare aiuto per loro. C’erano donne incinte, bambini, le persone mi urlavano al telefono e ho pensato dovesse esserci un errore. Poi è venuto fuori che in quei centri di detenzione erano rinchiuse migliaia di persone. All’epoca, tra loro c’erano più di 600 bambini. Fondamentalmente, la maggior parte di quelle persone avevano tentato di attraversare il mare per raggiungere l’Italia o Malta, ma erano stati intercettati dalla Guardia costiera libica, che dal 2017 è sostenuta dall’Unione Europea in quello che è di fatto un modo di aggirare il diritto internazionale. Come sai, le motovedette europee non possono riportare le persone in Libia, ma possono farlo le motovedette libiche. I barconi vengono avvistati dalla sorveglianza europea e le motovedette libiche ricevono il sostegno dell’Unione Europea. Prendere coscienza di questo mi ha scioccata a tal punto come europea da spingermi a dedicare anni a indagare su questo tema. Ero in contatto quotidiano con le persone nei centri di detenzione, che utilizzavano telefoni nascosti per inviarmi messaggi e prove di ciò che stavano passando. Il libro, che ora è uscito in italiano, è solo la punta dell’iceberg rispetto alle informazioni che ho ricevuto. E quello che ho ricevuto è solo la punta dell’iceberg di una situazione più ampia.

 

Spesso ciò che accade in Europa viene dipinto come inerzia. In realtà, c’è stata un’azione decisa e prolungata, anche mirata a tenere le persone lontano dal nostro territorio. La mia inchiesta mostra che le ingenti quantità di denaro che vengono spese spesso finiscono per sostenere milizie, dittature e sistemi che opprimono ulteriormente le persone, destabilizzre vaste porzioni dell’Africa e accrescere le ragioni per cui le persone fuggono. Allo stesso tempo, noi europei diventiamo colpevoli di crimini contro l’umanità e di crimini di guerra. Il mio libro è stato citato in una denuncia presentata alla Corte penale internazionale in cui si chiedeva che alcuni funzionari europei venissero indagati per crimini contro l’umanità. È stato utilizzato anche nel ricorso contro il Ministero degli Interni del Regno Unito nel tentativo di bloccare le deportazioni dei profughi in Ruanda. Ed è stato utilizzato dai pubblici ministeri nei processi contro i trafficanti. Il tema di questa conferenza è tracciare una nuova potenziale rotta. Questo non è possibile farlo senza comprendere la realtà attuale e senza comprendere le conseguenze delle nostre politiche attuali.

 

AB: Nel libro hai scritto una cosa che mi ha colpito: «Molti di loro hanno diritto alla protezione internazionale, al diritto d’asilo, ma i profughi sono costretti a raggiungere illegalmente un Paese europeo perché il diritto d’asilo venga loro riconosciuto dall’Europa». L’Europa fa finta di non sapere che esiste questo diritto d’asilo finché il profugo non raggiunge illegalmente il suo territorio.

 

SH: Da quando ho iniziato a occuparmi di migrazione, molte cose che pensavo di sapere sono state messe in discussione e molta della retorica usata dai politici, le frasi ad effetto, mi hanno fatto riflettere molto sulla migrazione e sul modo in cui essi ne parlano. Non so se è così anche in Italia, ma in Gran Bretagna i politici parlano costantemente di persone che “non stanno in coda”, che saltano la fila, e che non dovrebbero viaggiare illegalmente, ma seguire le vie legali. Tuttavia, come dimostra la mia inchiesta, queste vie legali sono sostanzialmente inesistenti. Il motivo per cui alla fine sono stata contattata dai rifugiati in Libia, anche se all’epoca non lo sapevo, era che avevo condotto una grossa indagine in Sudan, Paese che confina con la Libia, sul programma di reinsediamento dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati. Di che cosa si trattava? Era un programma che in teoria avrebbe dovuto offrire ai profughi più vulnerabili la possibilità di essere portati in un Paese sicuro, generalmente in Occidente. Il programma si basa sui Paesi che offrono spazi, ma gli spazi non sono mai abbastanza. I rifugiati in Sudan mi dicevano che a causa di questa scarsità c’era moltissimo sfruttamento e persone legate all’UNHCR chiedevano tangenti fino a 20.000 dollari per reinsediare una famiglia. Ho finito per fare un’inchiesta su questo, in seguito alla quale l’UNHCR ha avviato le proprie indagini e sospeso temporaneamente i reinsediamenti. Hannno scoperto che un membro del personale era effettivamente colpevole di aver chiesto tangenti e di abuso di potere. Questo mi ha portato a domandarmi che cosa s’intende quando si parla di vie legali. I rifugiati con cui parlo non hanno fiducia in questo processo. Dicono che c’è sfruttamento. Ho anche intervistato un investigatore delle Nazioni Unite che ha scoperto uno schema simile in Kenya. Mi ha detto che quando la domanda è enorme e l’offerta minuscola c’è sempre qualche forma di sfruttamento. In Sudan, i rifugiati mi dicevano che è più economico viaggiare attraverso la Libia che partire con le cosiddette vie legali dell’UNHCR. Dovrei aggiungere che l’UNHCR ha negato l’esistenza di una corruzione diffusa, ma credo comunque che questo ti faccia iniziare a mettere in discussione quei sistemi. Il mese scorso ero in Tunisia e ho intervistato delle persone che attendono di essere reinsediate negli Stati Uniti. Gli è stato detto che le loro domande sono state accettate provvisoriamente, ma loro aspettano già da quattro anni. Un uomo originario del Darfur mi ha raccontato come cinque persone che erano entrate nel programma siano morte cercando di attraversare il mare, perché avevano perso la speranza che il processo potesse un giorno giungere a compimento. Tutto ciò mi ha fatto riflettere molto sui termini che usiamo e su che cosa ci aspettiamo dalle persone che stanno solo cercando un’opportunità per vivere una vita dignitosa e sicura.

 

AB: Hai detto di essere stata in Tunisia recentemente. Negli ultimi mesi l’Italia ha posto molta enfasi sul Memorandum d’intesa tra Unione europea e Tunisia. Che impressione hai avuto stando là? Il regime di Kais Saied sta spingendo i profughi verso Lampedusa o verso il deserto? Che cosa sta accadendo in Tunisia?

 

SH: Sono stata a Tunisi e a Sfax, e ho parlato con molte persone provenienti da molti Paesi diversi. Persone che sono fuggite dalla guerra in Sudan, persone che sono fuggite dalla siccità in Somalia, persone provenienti dal Senegal, dalla Costa d’Avorio, dal Burkina Faso, dalla Sierra Leone, in fuga da molte situazioni diverse, alcune dalla corruzione e dalla povertà, alcune dalle guerre e altre dalla dittatura. Famiglie intere aspettavano di attraversare il mare. Normalmente nelle immagini si vedono uomini, ma io ho incontrato genitori con i figli. Ho incontrato anche delle donne i cui mariti sono morti nel deserto.

 

Siamo di fronte a una crisi globale di disuguaglianza. Come mi ha spiegato un funzionario europeo, ci sono gli abbienti e i non-abbienti. Fondamentalmente, le politiche che vengono attuate servono perché gli abbienti non vogliono condividere le risorse con i non-abbienti. Molti dicono di non avere nessun altro modo per andarsene. Non hanno accesso ai visti, non possono salire su un aereo. Molte persone che ho incontrato in Tunisia mi hanno anche detto che lavorano nel Paese da molto tempo, da anni in alcuni casi. Ma Kais Saied a febbraio ha rilasciato alcune dichiarazioni sui neri africani dicendo che questi facevano parte di un complotto criminale per cambiare la demografia della Tunisia. A quel punto, molti sono stati sfrattati dalle loro case, licenziati dal lavoro e mi hanno detto di non avere altra scelta se non lasciare la Tunisia. A Sfax, recentemente, migliaia di persone sono state radunate e trasportate in autobus in un luogo da cui partono le barche, e poi mandati in Sicilia, almeno secondo un’inchiesta di al-Jazeera. Sostanzialmente, i regimi autoritari o semi-autoritari usano la UE per ottenere ingenti somme di denaro. Ma nel lungo periodo quali sono le conseguenze di tutto questo? E, anche qui, non si tratta solo della Tunisia o della Libia. In Sudan, per esempio, si dice che le Forze di Supporto Rapido (RSF), che ora sono in guerra, siano state incoraggiate dai finanziamenti anti-immigrazione dell’UE. L’UE nega di finanziarli direttamente, ma ci sono diverse prove che le RSF ne abbiano beneficiato indirettamente. Le RSF sono in guerra e a causa di quella guerra più di 5 milioni di persone sono state sfollate. L’uso che viene fatto dei finanziamenti dell’UE solleva grandi domande. Indipendentemente dal proprio punto di vista sull’immigrazione, si sa che effettivamente vengono spesi miliardi per cercare di fermare la migrazione dall’Africa.

 

AB: Vorrei soffermarmi su un punto controverso. Tu sembri non avere molta fiducia nelle grandi istituzioni internazionali come le Nazioni Unite, le ONG che operano in Africa…

 

SH: Non sono una persona particolarmente eloquente e comunque tutto è spiegato meglio nel libro. Le organizzazioni internazionali sono uno dei grandi temi su cui mi sono concentrata nel mio lavoro. Quando ho iniziato la mia inchiesta ho chiesto aiuto a tutti. Pensavo, le persone con cui sono in contatto hanno bisogno di aiuto, chi può aiutarle? Non conoscevo il contesto, ho imparato a conoscerlo mentre andavo avanti, e mi è diventato chiaro abbastanza rapidamente. Quando ho capito perché queste persone erano rinchiuse in questi centri, ho chiesto a dei funzionari europei come facessero a sostenere quella politica. Più di 122 mila uomini, donne e bambini sono stati fermati e costretti a tornare in Libia da quando questa politica è iniziata nel 2017. I funzionari europei mi hanno risposto: «Non approviamo i centri di detenzione, ma finanziamo le Nazioni Unite perché migliorino la situazione al loro interno». Ho anche iniziato a essere contattata da persone delle Nazioni Unite, che erano molto a disagio perché si sentivano usate per coprire la politica della UE. Ma queste persone non possono parlarne pubblicamente perché devono assicurarsi di continuare a ricevere donazioni. Abbastanza rapidamente è diventato chiaro che il fondo fiduciario dell’UE per l’Africa, che finanzia tutto questo e sostiene la Guardia costiera libica, sostiene anche le agenzie delle Nazioni Unite che, a loro volta, rilasciavano dichiarazioni in cui dicevano che non era chiaro perché le persone si trovassero in quei centri di detenzione. Nel libro ci sono molti esempi di casi in cui le dichiarazioni delle Nazioni Unite non corrispondevano a ciò che stava realmente accadendo nei centri di detenzione, segno che non avevano un accesso adeguato alle informazioni. Ho iniziato davvero a chiedermi quale ruolo svolgano le istituzioni internazionali e a notare l’enorme scollamento che esiste tra le persone che sperimentano gli impatti di queste politiche e le persone che dovrebbero parlare a loro nome. Quando i politici incontrano qualcuno dell’UNHCR, per esempio, la persona che parla a nome dei rifugiati non sa necessariamente quel che accade alle persone di cui parla.

 

AB: Nel libro racconti diverse storie personali delle persone che hai incontrato. Sono storie belle, anche se a volte tragiche e terribili. Io sono stato Direttore di Tgcom24 e, per quindici anni, Vice-direttore del Tg5 con Enrico Mentana. Spesso lavoro ancora in televisione e devo ammettere che tutte le volte che mandiamo in onda un servizio sui migranti il pubblico e i miei colleghi girano la testa dall’altra. Come fare ad andare contro quella che può considerarsi la violenza più grande, cioè l’indifferenza?

 

SH: È una bella domanda, e me la pongo anche io costantemente, ma non posso dire di avere davvero una risposta. Questo libro è nato dal mio shock, dallo shock di pensare che tutto questo viene fatto nel mio nome e nel nome di tutti gli europei. Io parlo con molti politici e tutti mi dicono: «Sì, questo accade, questa è la realtà, ma lo facciamo perché pensiamo che sia ciò che vuole il nostro pubblico». Io penso che gli europei siano stati troppo distanti dalle conseguenze umane delle nostre politiche e, come ho detto, il risultato sono i crimini contro l’umanità. Nel libro documento gli sforzi compiuti dagli avvocati che chiedono un’assunzione di responsabilità, ma dico sempre che sono una giornalista, non un’attivista. Io non spingo per alcuna politica particolare. Ciascuno deve decidere in autonomia, che cosa farebbe o che cosa pensa dovrebbe accadere. Per quanto mi riguarda, il primo passo è che nessuno possa dire di non sapere. E questo è il mio obiettivo dal 2018, è la ragione per cui ho scritto questo libro.

 

 

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