Le violenze scoppiate nella capitale belga dopo le vittorie mondiali della nazionale marocchina non vanno né esagerate né minimizzate. Cosa sappiamo sulle ragioni della rivolta

Ultimo aggiornamento: 15/03/2024 11:17:53

Il 27 novembre scorso, dopo la vittoria del Marocco contro il Belgio ai Mondiali in corso in Qatar, un centinaio di giovani belgi di origine marocchina sono stati protagonisti di disordini violenti a Bruxelles, distruggendo o incendiando automobili e arredo urbano. Ne abbiamo parlato con Felice Dassetto, professore emerito di sociologia all’Università di Louvain-la-Neuve, pioniere degli studi sull’Islam in Europa e fondatore del Centro interdisciplinare per gli Studi dell’Islam nel Mondo contemporaneo (Cismoc)

 

A cura di Michele Brignone


Che cosa sappiamo dei disordini che si sono verificati a Bruxelles?

Prima di tutto bisogna dimensionare il fenomeno. Io non ho assistito direttamente ai fatti, ma si parla di 100-150 ragazzi. Tuttavia è interessante cercare di capire che cosa è successo. Ho letto molti commenti, e tutti affermano di non riuscire a spiegare l’accaduto. Questo è già un dato: l’incapacità di spiegare questo scoppio di violenza. Io non concordo con le dichiarazioni del sindaco di Bruxelles, il quale ogni volta che si ripetono episodi simili dice che si tratta di canaglie e non cerca altre spiegazioni. Credo invece che occorra capire di più, anche se ripeto, stiamo parlando di un centinaio di persone.

 

Tra l’altro una settimana più tardi i disordini si sono ripetuti in seguito alla partita tra Canada e Marocco. Sono stati meno intensi ma più concentrati. La polizia è intervenuta per contenere la violenza ed evitare che questa raggiungesse le centinaia di bancarelle del Plaisir d’hiver, il mercato di Natale che la Bruxelles irreligiosa e razionalista ha trasformato in avvenimento turistico “laico-ateo”: un immenso mercato di cibo e alcol al quale accorrono da tutta Europa. Anche dopo la vittoria ai rigori contro la Spagna l’esultanza nel centro di Bruxelles è stata accompagnata da un dérapage ormai rituale: incendi vari e saccheggi. E ho qualche timore per quello che potrà accadere nella prossima partita.

 

 

Possiamo assimilare queste violenze a un fenomeno di tipo hooligan?

 

Si può tentare qualche ipotesi. Io credo sia necessario tenere in considerazione diversi aspetti. Certamente c’è una dimensione hooligan, una tifoseria violenta e fuori controllo. Ma non bisogna trascurare il fatto che sono tutti o quasi tutti maschi, tra cui anche dei minori di 15-16 anni. Non abbiamo ancora le conclusioni delle indagini fatte sulla base delle registrazioni video esistenti, ma la polizia ha confermato la presenza di minori. Stiamo dunque parlando di una terza o addirittura quarta generazione di immigrati. Non ci troviamo di fronte a un hooliganismo generico, ma a un fenomeno che ha anche un tratto culturale. Si tratta di giovani uomini socializzati in una cultura dell’onore. Non tutti sarebbero d’accordo, ma io la interpreto anche come una cultura che facendo leva sulla vittoria calcistica afferma il proprio desiderio di rivincita. Poi bisognerebbe avere più informazioni su questi giovani. Che lingua parlano? Dove sono cresciuti? Vengono da famiglie marginali? Si parla molto delle famiglie originarie della regione marocchina del Rif, che vivono soprattutto a Molenbeek, ed esprimono una cultura particolare. Bisogna perciò considerare almeno tre dimensioni: l’hooliganismo, un tratto culturale o socio-antropologico, e la marginalità sociale.

 

Il fatto che i disordini si siano ripetuti mi porta a leggere la violenza come un’esibizione di forza virile. Bataille parlava in questo senso di un “eccesso”, di un “dispendio” (dépense). Non so se è utile riferirsi al suo pensiero, ma in una società capitalista (o al tempo di Bataille anche comunista), di fronte a una fatalità economica obbligata ma razionale e dominata dall’“utile”, lo spreco, la distruzione pura non hanno senso, ma servono a segnalare la forza di coloro che vogliono affermare una società diversa.  

 

Lei parlava del numero tutto sommato limitato di persone che hanno preso parte alle violenze. Dobbiamo relativizzare quanto accaduto?

 

In generale, la popolazione marocchina ha reagito con forza, condannando quest’esplosione di violenza. Tra l’altro, la sera della partita tra Belgio e Marocco sono state organizzate in tutta Bruxelles delle proiezioni nei caffè e nelle associazioni e tutto si è svolto tranquillamente. C’erano sale con mille persone, compresi tifosi di origine marocchina, e non si è verificato alcun problema. È importante dunque che gli episodi violenti non oscurino tutto il resto. Ciò non toglie che il fenomeno, per quanto limitato, non vada ignorato. Bisognerebbe interrogarsi sul legame tra questo scoppio di violenza e una cultura giovanile che si riscontra nelle popolazioni con un retroterra migratorio. In una ricerca che avevo fatto in cinque scuole, e i cui risultati mi avevano molto stupito, era emersa una sorta di desiderio di rivincita, accompagnata da un’accentuazione dell’identità islamica. L’Islam in sé non c’entrava molto, ma funzionava come categoria identitaria. Bisognerebbe indagare il ruolo degli Stati di origine nell’alimentare questa identità reattiva. Penso soprattutto alla Turchia, ma sempre di più anche al Marocco.

 

Lei faceva riferimento a una dimensione culturale o socio-antropologica. È un aspetto così rilevante in giovani della terza o quarta generazione?

 

Quello che vediamo è un’incapacità di talune famiglie di gestire le nuove generazioni. Si osserva un fenomeno che si constatava già nella seconda generazione, e cioè l’assenza dei padri. Occorrerebbe interrogarsi sulla relazione tra questo fenomeno e il ricorso alla violenza. A questo bisogna aggiungere il peso della droga. Una parte di queste famiglie è contaminata dal traffico della droga. Secondo le indagini della polizia, i giovani che fanno anche solo il palo guadagnano 100 euro al giorno. In che misura il cinismo legato al traffico della droga influisce sullo sguardo di questi giovani sulla realtà?  E, ripeto, è vero che stiamo parlando di 150 ragazzi, ma il traffico della droga coinvolge molte più persone.

 

Nel 2015-2016 in Belgio era emersa una realtà di dissidenza giovanile che aveva trovato espressione nel radicalismo jihadista. I recenti disordini possono essere letti in continuità con questo fenomeno?

 

Nella misura in cui parliamo di una reazione contro la società sì, possiamo ipotizzare che ci sia un legame. Però dobbiamo tenere conto che, dopo ISIS, il discorso religioso che negli anni ’90 aveva alimentato il radicalismo islamico è sceso di tono. Io non ho assistito direttamente ai disordini collegati ai mondiali di calcio, ma credo che nessuno abbia fatto riferimento all’Islam o gridato “Allahu Akbar”. Siamo di fronte a un fenomeno sociale, una forma “laica” di opposizione.

 

C’è una specificità belga in questo, o secondo lei si tratta di fenomeni comuni ad altre parti dell’Europa?

 

Un politologo fiammingo di origine marocchina sostiene che l’esistenza di quartieri problematici legati all’immigrazione si riscontra in Belgio, nella regione parigina e in Olanda, ma non in altri Paesi. Lui mette in evidenza una differenza della Finlandia rispetto a questo modello. Ma io penso anche all’Italia. Mi pare che in Italia sia riuscito un tipo d’integrazione che in Belgio non si è realizzata. In Danimarca si sta imponendo una politica di distribuzione delle popolazioni musulmane, in modo da evitare un’identificazione forte tra un determinato territorio e una determinata cultura come invece è avvenuto a Molenbeek o in generale nella cintura bruxellese.

 

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
 
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