C’è chi è stato prima bombardato da Assad e poi rapito e torturato dall’ISIS, chi è scappato dai Talebani, chi ha alle spalle storie di violenze famigliari. Arrivano in Grecia sperando in un riscatto, ma ad aspettarli trovano il filo spinato. Un reportage da Lesbo
Ultimo aggiornamento: 03/10/2022 11:13:07
«Ricordo di aver urlato tutta la mia rabbia al cielo, di essere arrivato persino a bestemmiare». Marwan[1] alza gli occhi, serrando le labbra. A Mitilene, isola di Lesbo, in Grecia, è un caldo pomeriggio di agosto e la gente cerca refrigerio nei bar ombreggiati, tra i vicoli del centro storico. Non ci sono lacrime nei suoi occhi neri; c’è come un fuoco. Si accende una sigaretta dopo l’altra mentre racconta le tragiche vicende che dalla Siria lo hanno portato a fuggire ancora minorenne. La storia di Marwan è lo specchio di un Paese lacerato da guerra e terrorismo. È un giovane cresciuto sotto i bombardamenti del regime di Assad, e quando aveva quasi diciotto anni Marwan viene sequestrato, insieme ad alcuni familiari, dai terroristi dell’ISIS che avevano da poco preso il controllo della città di Deir Ezzor. La madre è stata rilasciata dopo alcune settimane, dietro il pagamento di un’ingente somma di denaro. Nelle mani dei miliziani rimangono Marwan, il fratello Murad di dieci anni e l’anziano nonno. Fino a quel momento Marwan aveva avuto un rapporto semplice con la religione, ed era proprio il nonno la figura che più gli parlava di spiritualità. Durante gli anni dei bombardamenti la fede era diventata consolazione, rifugio dalla paura. Poi, a infierire ulteriormente sui civili siriani, già provati da tre anni di guerra, è arrivato l’incubo dell’ISIS che ha sconvolto ogni certezza e ogni abitudine nelle vite degli abitanti della città. «Ci picchiavano se indossavamo i jeans, se andavamo in giro con una lattina di gassosa, se masticavamo chewingum, o se non andavamo in moschea appena il muezzin richiamava alla preghiera. Ogni pretesto era buono per bastonarci e darci dei kuffar, miscredenti. Quando ci hanno imprigionato mi hanno isolato dal nonno e da mio fratello. Uno dei capi mi ha annunciato che dalla mattina seguente avrei iniziato la mia formazione militare. Dopo qualche settimana, hanno dichiarato che ero pronto per combattere, per servire il Califfato. Mi sono rifiutato con fermezza, affermando che non sarei mai diventato come loro. Per tutta risposta sono stato picchiato e tacciato di essere un adoratore del diavolo».
Le tante forme dell’inferno
Marwan racconta anche che lo costringevano a prendere una droga che dava un senso illimitato di potere. I miliziani gli chiedono di rivelare indirizzi e nomi di persone importanti nella città, di gente facoltosa, ma lui non ha intenzione di mettere in pericolo la sua gente. Viene torturato per alcuni giorni, ma non cambia idea. Non diventerà mai un miliziano dell’ISIS. Lo privano di cibo e acqua e continuano a torturarlo, ma nonostante la giovane età resta fermo nella sua posizione. Racconta che gli uomini dell’ISIS erano tutti di nazionalità diverse, che alcuni non parlavano neppure l’arabo. «In cella non sai mai quando è giorno e quando è notte. Quando non dormivo per i dolori o per la fame pensavo, mi facevo tante domande, mi chiedevo come stessero mio nonno e mio fratello e mi domandavo dove fosse Dio e perché non stesse facendo nulla per aiutarci».
La prigionia di Marwan finisce in un modo inaspettato. Un bombardamento della Coalizione internazionale contro l’ISIS, guidata dagli Stati Uniti, distrugge parte del carcere dove il giovane siriano è rinchiuso. Finalmente riesce a fuggire, anche se ormai ha la morte nel cuore. Non ha più nessuno lì, perché pochi giorni prima i terroristi avevano decapitato suo nonno e il suo fratellino davanti ai suoi occhi, filmando la scena. «Mi hanno trascinato fuori dalla mia cella dicendomi che mi avrebbero punito. Ho visto mio nonno e mio fratello Raed vestiti con tute arancioni, ammanettati. Li ho supplicati di lasciarli in pace e prendersela con me. In pochi secondi, due uomini incappucciati li hanno decapitati. Credo di aver gridato talmente tanto da aver perso i sensi. Mi hanno annunciato che anche io ero stato condannato a morte, ma che dovevo aspettare». Mentre racconta la sua tragedia sembra avere una sorta di vertigine. È importante riportarlo nel “qui e ora” e il discorso si sposta sul suo arrivo in Grecia. Racconta che durante la fuga dalla prigione rimane ferito in una sparatoria, ma riesce a nascondersi e viene accolto da una famiglia di beduini che si prendono cura di lui. In mezzo a loro compie diciotto anni, quindi sa che non può più tornare a casa, altrimenti sarebbe stato costretto a fare il militare, a combattere, e lui di quella sporca guerra non voleva diventare complice. Viene aiutato da alcuni conoscenti a raggiungere Ras al Ein e da lì ad arrivare in Turchia. Durante il viaggio riconosce sul minibus alcuni miliziani dell’ISIS, capisce di essere in pericolo e decide di proseguire, tentando la fuga in Europa, attraversando il mare.
Quando lo portano a Moria Marwan non crede ai suoi occhi. Tutto quel filo spinato, quelle violenze, quel fiume umano di disperati, quei militari armati. «Credevo di aver già visto l’inferno, invece ho capito che l’inferno ha forme diverse. Chi non ci è stato non può capirlo. Moria mi ricordava le prigioni dell’ISIS, ogni giorno c’era un accoltellamento, una donna stuprata. Anche lì mi chiedevo dove fosse Dio». Oggi Marwan ha ventidue anni e opera come volontario in un’associazione che assiste i migranti. La sua pratica per lasciare l’isola e andare in Germania è ferma, così cerca di riempire il suo tempo lavorando, stando coi suoi nuovi amici.
Il campo come casa
In conseguenza degli accordi firmati tra Ue e Turchia nel 2016, infatti, i migranti come Marwan che arrivano illegalmente sulle coste greche restano intrappolati sull’isola anche per anni. La legge prevede un periodo di isolamento di circa cinque giorni al momento dell’arrivo, a cui segue un primo interrogatorio preliminare, che serve a stabilire se le persone provenienti da Siria, Iraq, Somalia, Afghanistan, Bangladesh e Pakistan possano essere rimandate in Turchia, se questo cioè sia per loro un Paese sicuro. In questa fase i migranti non sono assistiti da legali e non conoscono i loro diritti. Marwan racconta di essere stato sottoposto a molte domande sulla situazione in Turchia, di aver avuto paura perché non sapeva cosa dire. Per lui, come per la stragrande maggioranza delle persone, arriva il diniego dell’asilo. La sua delusione è grande, così come il timore di essere costretto a tornare in Turchia, dove aveva riconosciuto alcuni tra i suoi carcerieri. Solo a quel punto, a procedura chiusa, Marwan, come agli altri richiedenti asilo, può incontrare un legale, che impugna la pratica e ricomincia la domanda di asilo. Questa, a volte, riceve più dinieghi, costringendo i migranti a rimanere sospesi sull’isola. Molte associazioni di volontari, tra cui la ong Aegean Boat Report, denunciano operazioni di pullback (respingimento delle imbarcazioni prima che queste attracchino) e pushback (respingimento in mare dopo che i migranti sono stati identificati).
In questo tempo sospeso la casa dei migranti è il campo. Alcune persone in condizioni di grande vulnerabilità, come donne malate con bambini, sono ospitate negli shelter gestiti da ONG. Il campo dove sta oggi Marwan non è più quello di Moria, con i suoi 20mila disperati, che è stato distrutto dalle fiamme, ma quello di Mavruvouni, che di migranti ne accoglie meno di 2000, per metà uomini e per la restante metà donne e bambini, prevalentemente afghani. Vivono in container e tende, divisi tra famiglie e donne sole, che occupano una specifica area, e uomini single, collocati in uno spazio a parte. Dopo il primo periodo di spaesamento, Marwan cerca di cominciare una nuova vita, dandosi da fare, cercando di non farsi mai trascinare dai ricordi. «La cosa peggiore è avere momenti di vuoto, in cui mi guardo dentro. Un giorno mi sono ritrovato a pensare a mio nonno e mio fratello; mi sono sentito soffocare, poi ho provato una fitta al cuore, una profonda tenerezza e ho detto Allah irhamon (Che Allah li abbia in gloria). Mi sono stupito di me stesso. Stavo invocando lo stesso Dio contro cui avevo gridato la mia delusione, il mio dolore, il mio odio. Credevo di aver perso Dio in quella prigione, invece mi sono trovato a cercarlo ancora e a ritrovarlo nei volti degli altri».