Intervista a Davide Piccardo, direttore del quotidiano online La Luce, sul conflitto a Gaza
Ultimo aggiornamento: 19/03/2024 11:53:54
Intervista a cura di Chiara Pellegrino
Quest’intervista fa parte della serie “I musulmani italiani e la guerra a Gaza”. Clicca qui per leggere le altre interviste
Lei è il direttore de La Luce, un quotidiano che, dal 7 ottobre, sulla questione israelo-palestinese, ha preso una posizione molto netta a favore dei palestinesi. Immagino che i contenuti pubblicati rispecchino la sua visione del conflitto.
Sì, rispecchiano la mia visione, che penso sia anche la visione maggioritaria nella comunità islamica in Italia. Questo ce lo confermano due sondaggi che abbiamo fatto tra i musulmani italiani, il primo circa tre settimane dopo il 7 ottobre, il secondo l’abbiamo fatto recentemente. Osservando i dati raccolti, possiamo dire che la nostra posizione è abbastanza rappresentativa di quello che pensa la comunità islamica italiana. Io credo che la nostra sia un’osservazione abbastanza oggettiva dei fatti, in linea con una ricostruzione fedele degli avvenimenti storici e con ciò che afferma il diritto internazionale. Credo che sia più da parte israeliana la volontà di confondere le acque, dicendo che è una questione complicata, che ci sono torti e ragioni da ambedue le parti e che quindi è molto difficile prendere posizione. In realtà, è una questione di complicata risoluzione, ma non di complicata comprensione. Oggi ci sono ampie possibilità di indagare e di conoscere la storia del conflitto e le sue origini, e di sapere qual è stata la genesi dello Stato di Israele. Bisogna partire da lì, secondo me, per poi analizzare i fatti e pensare alle soluzioni. Questo non significa che i palestinesi non abbiano mai sbagliato, che non abbiano torti. Significa che c’è una potenza occupante costituitasi attraverso un’operazione di pulizia etnica perseguita in maniera scientifica – ha sgomberato un territorio per occuparlo in maniera quasi esclusiva – e c’è una popolazione che viveva in quel territorio da cui è stata cacciata. Se non si parte da qui, a nostro avviso, è difficile dare delle letture corrette o delle risposte.
Torno un attimo ai sondaggi: quale campione di musulmani avete coinvolto nelle interviste?
Il nostro campione è composto da 1000 musulmani residenti in Italia, che hanno risposto a una dozzina di domande a risposta multipla.
Pochi giorni dopo il 7 ottobre, lei ha intervistato per La Luce Basem Naim, un leader di Hamas a Gaza. Siete in rapporto diretto con il movimento?
Come giornalisti abbiamo le nostre fonti e la possibilità di accedere a diverse organizzazioni, però non abbiamo rapporti diretti con Hamas. Diciamo che abbiamo questi contatti come può averli un giornalista di un’altra testata interessato a intervistarli. Abbiamo le possibilità e i contatti per arrivarci.
Da come capisco, Hamas per voi è un legittimo movimento di resistenza. Pensa che Hamas possa portare dei reali benefici ai palestinesi?
Innanzitutto, dobbiamo ricordare che Hamas è considerato un movimento politico importante da tutti i soggetti e i movimenti del panorama politico palestinese, da quelli laici nazionalisti come Fatah, a quelli di sinistra come l’FPLP [Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina], ai cristiani. Non c’è una parte politica palestinese che dica “no, Hamas è al di fuori del nostro consesso politico”. Tutti i palestinesi riconoscono Hamas come movimento legittimo e centrale della scena politica palestinese. Hamas ha vinto le uniche vere elezioni legislative che si sono tenute in Palestina, con tutti i limiti che potevano avere. A quel punto è iniziato un boicottaggio, un embargo da parte degli Stati Uniti, di Israele e dell’Occidente, e sono stati arrestati molti parlamentari di Hamas. Quindi Hamas è prima di tutto un movimento politico. Poi nel contesto specifico palestinese – con i territori occupati militarmente, e questo lo dice il diritto internazionale – ha creato il suo braccio armato, che conduce una lotta di liberazione nazionale. Io mi rifaccio sempre al diritto internazionale: l’occupato ha il diritto di difendersi con le armi e di cercare di liberarsi dall’occupante. Questo è quello che Hamas e altre organizzazioni fanno. La mia valutazione politica su Hamas non so quanto sia rilevante, comunque gli ultimi sondaggi lo danno in forte crescita, anzi ha un consenso maggioritario ancor più in Cisgiordania che a Gaza. Su La Luce abbiamo pubblicato alcuni articoli relativi agli ultimi sondaggi che sono stati fatti in Palestina ed è emerso che, se oggi ci fossero le elezioni, sarebbe Hamas a vincerle. Se abbia portato dei benefici o meno a Gaza, mi sembra che, al netto di tutte le difficoltà del caso, abbia amministrato abbastanza bene.
Sul fatto che abbia amministrato abbastanza bene non tutti sarebbero d’accordo.
Anche in Italia non tutti sono d’accordo sul fatto che un governo faccia bene o meno. Sicuramente a Gaza ci sono sia sostenitori di Hamas, sia persone che sostengono altre opzioni politiche. Se ci fossero le elezioni, Hamas potrebbe vincerle o perderle. Ma al momento non ci sono le condizioni per fare delle elezioni. Purtroppo, Gaza è un territorio assediato e strangolato da tutti i lati, quindi non possono permettersi il lusso di ragionare come possiamo fare noi.
Perché, secondo lei, la questione palestinese è così centrale per il mondo musulmano a differenza di altre cause islamiche, per le quali invece non c’è tutto questo impegno?
Secondo me, bisogna distinguere tra una causa dei musulmani e una causa islamica. Una causa dei musulmani riguarda ogni condizione in cui i musulmani sono oppressi. Potremmo anche definirla una causa umana, perché in realtà il musulmano ha il dovere di mobilitarsi e lottare contro qualsiasi ingiustizia, anche nel caso in cui a essere oppressi fossero i cristiani o gli ebrei. La questione palestinese, invece, è una causa islamica. La mobilitazione dei musulmani, però, non avviene semplicemente in funzione dell’islamicità della questione, ma è guidata dal senso di giustizia, che è profondamente islamico, nel senso che l’Islam è fondamentalmente giustizia. Se c’è un’ingiustizia, il musulmano è chiamato a ripristinare la giustizia con le possibilità che ha. Se un popolo è oppresso militarmente può difendersi e può decidere di farlo in maniera politica, in maniera pacifica, o con altri metodi. La questione palestinese è una questione di ingiustizia molto palese. Non si è mai visto uno Stato costituirsi in modo coloniale, soprattutto nel ’900, con persone che venivano da altre parti del mondo a insediarsi in un territorio scacciando gli abitanti indigeni con la pretesa di avere ragione e continuando il processo di pulizia etnica ancora nel 2024. Questo grida vendetta. Venendo alla questione più prettamente religiosa, sappiamo bene che Gerusalemme, in arabo al-Quds, è una delle tre città sante dell’Islam insieme a Mecca e Medina, e per questo molto importante dal punto di vista religioso. Sappiamo anche che una parte del mondo ebraico, soprattutto gli estremisti ebrei che oggi purtroppo sono soci di governo di Netanyahu, ha intenzione di distruggere la moschea di al-Aqsa per ricostruire il tempio [riferimento al terzo Tempio descritto da Ezechiele che secondo la tradizione ebraica dovrebbe sorgere sulla spianata di al-Aqsa]. Queste sono tutte provocazioni che pesano molto ai musulmani. La stessa operazione del 7 ottobre, “diluvio di al-Aqsa”, porta il nome della moschea di Gerusalemme. Poi si tende a dimenticare tutti i pregressi, ma sappiamo che durante il Ramadan ci sono state numerose provocazioni dei coloni, degli estremisti ebraici all’interno della moschea, oltre alle repressioni e all’espulsione dei cittadini musulmani dai quartieri di Gerusalemme.
Quale soluzione vede per questo conflitto?
Di soluzioni ce ne possono essere tante. Noi siamo in linea con quello che propongono gli intellettuali israeliani Ilan Pappé e Gideon Levy. Inoltre, sulla questione seguiamo Tariq Ramadan da quasi vent’anni. Noi siamo favorevoli allo Stato unico. Su questa idea sta lavorando l’al-Sharq Forum, presieduto dall’ex direttore generale di al-Jazeera, Wadah Khanfar. Stato unico significa far convivere musulmani, cristiani ed ebrei sulla stessa terra, su una terra piccola. Significa anche la fine del sionismo, perché il sionismo concepisce lo Stato ebraico solo per gli ebrei, con un’idea di superiorità rispetto agli altri. Per costruire uno Stato unico, laico e rispettoso di tutte le identità religiose, serve un processo. Ovviamente si pone il problema della pacificazione tra i popoli, che deve essere profonda e reale, non basata su equilibri di forza temporanei. Inoltre, sappiamo che quello che sta succedendo adesso è anche il frutto di mutate condizioni geopolitiche a livello internazionale.
Che cosa pensa delle posizioni che hanno assunto gli Stati arabi in merito al conflitto?
Quasi tutti gli Stati arabi non vedevano l’ora di normalizzare le loro relazioni con Israele e dimenticarsi dei palestinesi. Il problema della normalizzazione è proprio questo: hanno normalizzato i rapporti, consolidando e congelando lo status quo dell’occupazione e dell’oppressione. Quali speranze hanno i palestinesi se nemmeno i loro fratelli arabi si ricordano di loro, e anzi, hanno fatto la pace con Israele, che continua a espandere gli insediamenti in Cisgiordania e a tenere Gaza sotto assedio? Ovviamente l’azione del 7 ottobre era finalizzata anche a riportare prepotentemente la causa palestinese al centro della scena e costringere gli Stati arabi, anche se sono autocrazie e dittature, a fare i conti con l’opinione pubblica. Questi Stati devono fermarsi e realizzare che questa strada non è percorribile, perché la normalizzazione non può prescindere dal riconoscimento dei diritti dei palestinesi. L’equilibrio globale sta cambiando, il ruolo americano è in fase di ridefinizione e in futuro gli Stati Uniti non saranno più quell’unica superpotenza che sono stati per molti decenni. Questo apre alla prospettiva di una serie di conflitti nel mondo. Anche Israele sarà costretto a fare i conti con queste mutate condizioni. Quindi, prima si trova una soluzione politica che garantisca i diritti di tutti, meglio è anche per Israele, perché è possibile che in un futuro non ci sia più questa possibilità.
Un’ultima domanda: che cosa può fare l’Italia in questo contesto?
L’Italia dovrebbe fare tutto il contrario di quello che ha fatto finora. Dovrebbe innanzitutto cessare immediatamente il sostegno acritico a Israele. Dovrebbe adoperarsi per il rispetto del diritto internazionale e della giustizia. Una cosa che ritengo veramente gravissima è che non abbia votato a favore di un cessate il fuoco. Inoltre, siccome siamo un Paese a vocazione mediterranea, dovremmo cercare di recuperare quel ruolo di mediazione che abbiamo avuto nei decenni passati, negli anni della Prima Repubblica. Per noi è indispensabile avere buoni rapporti con l’altra sponda del Mediterraneo, con il mondo arabo. I governi democristiani o socialisti della Prima Repubblica avevano rapporti con Israele, ma anche e soprattutto degli ottimi rapporti con il mondo arabo e con il popolo e la leadership palestinese, avevano a cuore la causa palestinese. Erano buoni mediatori e capaci di promuovere il dialogo. Non è un caso che il nostro contingente abbia guidato la missione UNIFIL in Libano per molto tempo. Non ci potevano mandare i britannici o i francesi, ci sono andati gli italiani perché godono di un certo rispetto. Se vogliamo giocarci definitivamente questo ruolo, lo stiamo facendo nel modo migliore.
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
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