Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba
Ultimo aggiornamento: 02/08/2024 15:18:04
Questa settimana le prime pagine della stampa araba sono state dominate quasi totalmente dall’uccisione del capo dell’ufficio politico di Hamas, Ismail Haniyeh, e del dirigente di Hezbollah Fuad Shukr, colpiti dopo l’attacco lanciato dal Partito di Dio al villaggio druso di Majdal Shams nel Golan. Mentre Beirut e Teheran meditano la vendetta, i giornalisti arabi s’interrogano sul rischio di escalation nella regione e sul significato di questo duplice omicidio.
Mahmoud Sultan, editorialista di al-Jazeera, l’ha definito «un terremoto che potrebbe colpire il Medio Oriente». L’assassinio di Haniyeh è finalizzato a mantenere Netanyahu sulla scena politica israeliana, nella misura in cui «allontana la probabilità di trovare presto un accordo per porre fine alla guerra», e pospone il momento in cui il Primo ministro israeliano sarà chiamato a processo per rispondere alle accuse di corruzione. L’omicidio, scrive l’editorialista con un pizzico di soddisfazione, è «il più grande colpo che sia stato messo a segno alle narrazioni arabe secondo le quali, prima di essere assassinato, Haniyeh si pavoneggiava negli alberghi di lusso fuori dalla Palestina, lasciando che il suo popolo venisse divorato dalla cieca e sconsiderata macchina da guerra israeliana». L’operazione, inoltre, mette indirettamente in luce l’incapacità americana di incidere sugli eventi, visto che «l’assassinio è stato probabilmente eseguito senza consultare il “debole” padrone della Casa Bianca, confidando nella sua incapacità anche solo di rimproverare».
L’emittente qatariota ha poi pubblicato una galleria di fotografie che ritraggono Haniyeh in alcuni momenti salienti della sua vita: nel campo vicino al villaggio di Marj al-Zuhur, nel Sud del Libano, dove nei primi anni ’90 fu deportato, insieme ad altre centinaia di capi di Hamas e del Jihad islamico, da Israele, gli incontri con Shaykh Ahmad Yassin, fondatore di Hamas, e con Yusuf al-Qaradhawi, il global mufti ex leader dell’Unione mondiale degli Ulema di Doha, e infine la nomina a Primo ministro dell’Autorità nazionale palestinese dopo la vittoria di Hamas alle elezioni del 2006.
Anche il giornalista siriano Bakr Sidqi, editorialista di al-Quds al-‘Arabi, è molto pessimista sul futuro che attende il mondo. È così, scrive, che «iniziano le guerre mondiali. La politica e la diplomazia come mezzo per risolvere le controversie tra gli Stati sono assenti, gli imperi emergenti cercano di accrescere la loro influenza regionale, gli interessi si scontrano, ciascun giocatore mette alla prova le capacità degli avversari, questi ultimi rispondono e la sfera dei conflitti si espande, fino ad arrivare allo scontro totale tra Stati. In questa prospettiva la guerra di Gaza coinvolge, direttamente o indirettamente, Israele, Libano, Siria, Iraq, Yemen, Iran, Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e Russia. Ed è forse per questo che il presidente turco si è trovato costretto a minacciare Israele con un’azione militare, anche la Turchia si considera un aspirante impero nella regione».
Su al-‘Arabi al-Jadid il ricercatore siriano ‘Omar Kouch s’interroga sulla prossima mossa iraniana. Attaccherà direttamente Israele o lo farà per procura? L’editorialista propende per la seconda opzione, Teheran vendicherà «la violazione dei suoi confini» attraverso Hezbollah, che si sta già preparando a rispondere all’omicidio del suo leader Fuad Shukr. «L’omicidio di Haniyeh potrebbe portare a Netanyahu un guadagno morale, seppure temporaneo, ma non aiuterà a porre rimedio al fallimento della macchina militare israeliana». L’obiettivo di Netanyahu è «far fallire tutte le iniziative che potrebbero condurre a un cessate il fuoco», considerato anche che l’America è distratta dalla campagna elettorale. Israele spera di «prolungare il conflitto regionale perché non riesce a ottenere una vittoria militare».
Di «guadagno morale, ma temporaneo» parla anche il giornalista Wadea Awawdy su al-Quds al-‘Arabi. Il duplice omicidio «è avvenuto in un momento in cui Israele era assetato di successo, che lo aiutasse a ripristinare il suo prestigio ferito, la sua immagine e la sua forza deterrente». Questo «successo tattico» momentaneo, tuttavia, potrebbe venire offuscato dagli eventi futuri, e comunque «non cambia la realtà militare e sicuritaria israeliana nella guerra in corso». Pur non dicendolo esplicitamente, il giornalista sembra concordare con le dichiarazioni rilasciate da uno dei figli di Haniyeh per cui «Hamas continuerà a esistere, non è possibile eliminarla perché è un’idea, e un’idea non muore».
I sostenitori del movimento si dicono infatti sicuri che l’uccisione del capo politico non è l’inizio della fine di Hamas: «Non si è spezzato nel 2004, quando Israele ne uccise il fondatore e leader, Shaykh Ahmed Yassin», e non si spezzerà certamente adesso, scrive il giornalista palestinese Mohammad Ayesh su ‘Arabi21.
La «politica di omicidi israeliana è un successo tattico, ma un fallimento strategico», commenta invece lo scrittore palestinese Imad Shakur. Nonostante Israele conduca questo genere di operazioni da 70 anni, non è mai riuscito nel suo intento finale: «Mettere fine al conflitto israelo-palestinese e far calare il sipario sulla giusta causa palestinese e i suoi sostenitori». E lo stesso accadrà anche questa volta.
C’è una grande differenza tra i due omicidi, commenta sullo stesso quotidiano lo scrittore e giornalista giordano Murad Batal Shishani: «Quella che ha coinvolto Shukr è stata un’operazione sicuritaria e militare, ma colpire Haniyeh è stata un’operazione politica simbolica», visto che il leader di Hamas non era coinvolto direttamente nella pianificazione militare dell’operazione del 7 ottobre scorso. L’omicidio, scrive Shishani, è un messaggio «rivolto prevalentemente all’Iran: Israele ha le capacità per colpire Teheran in qualsiasi momento».
La notizia della morte di Haniyeh ha infiammato alcune piazze arabe, ricorda al-Quds al-‘Arabi. In Egitto poche ore dopo l’assassinio, il Ministero degli Esteri ha diramato un comunicato in cui avvertiva di un nuovo omicidio commesso dall’«occupante israeliano», ma senza menzionare espressamente il nome di Ismail Haniyeh per timore delle reazioni popolari. Reazioni che ci sono effettivamente state non appena il nome è diventato di dominio pubblico. Una parte del popolo egiziano è scesa in piazza «chiedendo la fine della normalizzazione con l’occupante e l’espulsione dell’ambasciatore israeliano». Inoltre, non sono tardate le reazioni delle istituzioni islamiche. Al-Azhar ha condannato «l’atroce crimine commesso dalla perfida entità di occupazione» e osannato «il martire militante, che ha speso la sua vita per difendere la sua terra e la causa degli arabi e dei musulmani, la causa della Palestina libera e salda. Quel genere di assassinii – proseguiva il comunicato – non indeboliranno la determinazione del popolo palestinese militante che ha fatto, e continua a fare, grandi sacrifici per ristabilire i propri diritti a creare uno Stato palestinese indipendente con capitale Gerusalemme». Nel frattempo, nei campi profughi palestinesi in Libano, centinaia di manifestanti hanno chiesto «vendetta per l’omicidio di Haniyeh» (qui la galleria fotografica pubblicata ancora da al-Quds al-‘Arabi), mentre in Giordania una città nel Sud del Paese ha deciso di intitolargli una delle sue strade.
I quotidiani più spiccatamente filo-islamisti, come ‘Arabi21, hanno ovviamente tessuto le lodi del «servitore» e «martire» Haniyeh, descritto come una persona semplice e priva di pretese, «dall’anima pura e il cuore gentile», «coerente», «sempre pronto a cogliere le critiche a braccia aperte», «mai pretenzioso», riprendendo le parole usate dal predicatore egiziano Issam Talima.
Il quotidiano libanese filo-Hezbollah al-Akhbar, ha celebrato il ricordo di entrambi i capi uccisi. Fuad Shukr è stato definito un «grande leader jihadista», «martire fino all’ultimo respiro sulla strada verso Gerusalemme», con la speranza che «possa unirsi alla carovana di martiri di Kerbela». E ha messo in guardia dall’inevitabilità della risposta da parte della Resistenza, perché, scrive Ali Haider, «il nemico [con il duplice omicidio] ha allargato il cerchio dello scontro» e «inviato il messaggio che non considera più Gaza l’arena centrale». E dopo i funerali dei due «martiri», l’Asse della Resistenza «si prepara a una risposta congiunta e coordinata».
Radicalmente diversa è invece la narrazione fatta dai quotidiani di area emiratina e saudita, che hanno dato meno spazio alla notizia del duplice omicidio – al-‘Ayn al-Ikhbariyya ha dedicato un solo editoriale a questo tema –, usato toni e linguaggi molto meno militanti e offerto giudizi più variegati. Su al-‘Arab il giornalista egiziano Muhammad Abu Fadl lascia trasparire una certa soddisfazione per l’uccisione di Haniyeh e Shukr, riconoscendo la superiorità militare, tecnologica e d’intelligence degli israeliani. Da anni Israele predilige gli omicidi mirati come strumento di lotta per «la difficoltà dei gruppi e dei movimenti i cui leader sono stati presi di mira a rispondere con la stessa moneta, ciò che crea uno squilibrio nei rapporti di forza a favore di Israele». Tel Aviv, commenta, «ha assorbito molti dei dolorosi colpi morali inflitti dagli elementi della Resistenza in varie forme e luoghi, ma ha risposto con obiettivi fisici confermando la sua superiorità su tutti loro, perché eguagliarlo nell’arma dell’assassinio è impossibile», conclude Abu Fadl.
L’ex direttore di al-Sharq al-Awsat, Abdel Rahman al-Rashid, riabilita parzialmente Haniyeh, nonostante in passato l’abbia duramente criticato, come ammette lui stesso nell’articolo. Haniyeh è vittima allo stesso tempo di Israele e del fronte interno più estremo di Hamas capitanato da Yahya Sinwar. Da anni in conflitto con quest’ultimo, Haniyeh, spiega l’editorialista, è stato emarginato da Sinwar con l’accusa di «dare priorità alle soluzioni politiche e assecondare le pressioni regionali». Ad Haniyeh al-Rashid riconosce «uno spirito più pragmatico e meno avventuroso» rispetto a Sinwar, il quale negli ultimi mesi ha fatto tutto il possibile per boicottare i negoziati. Haniyeh, scrive ancora al-Rashid, è stato assassinato perché era il leader più in vista di Hamas, e la sua eliminazione è funzionale tanto agli «estremisti» del movimento islamista, quanto a Netanyahu, che adesso può dimostrare di aver mantenuto la promessa fatta: eliminare i leader di Hamas.
Sullo stesso quotidiano il giornalista saudita Mashari Althaydi esprime il timore per un’eventuale escalation nella regione. A livello di gravità, «ciò che è accaduto nella notte del martedì nero» è pari, se non più grave, della morte di Qasem Soleimani, il generale iraniano ucciso da un drone americano nel 2020. L’editorialista non si sbilancia in previsioni, ma ammette grande preoccupazione, perché «la verità è che le guerre sono innescate da incidenti e ripercussioni non pianificate, da una catena di azioni e reazioni; ciascuna parte pensa di avere il controllo della situazione, e poi, improvvisamente, si ritrova invischiato nella guerra». La palla è nel campo iraniano, tutto dipenderà da Teheran e dalle sue milizie.
Sul quotidiano emiratino al-‘Ayn al-Ikhbariyya il giornalista Abduljalil Alsaeid lancia invece un’invettiva contro l’Iran, «il cui progetto comprende le guerre, le milizie e l’ingigantimento dei timori per la sicurezza», e coglie l’occasione per ribadire la diversa prospettiva «dei Paesi arabi moderati e forti, fondata sul principio di mettersi a servizio dell’umanità e della società offrendo istruzione, assistenza sanitaria, lavoro e un futuro migliore». Alla luce di questa diversità di prospettive, l’editorialista si domanda in maniera retorica come possa il nuovo presidente iraniano anche solo immaginare di «consolidare le relazioni con i Paesi vicini». Alsaeid riassume in alcuni punti le ragioni per cui è impossibile per Teheran costruire delle buone relazioni con i Paesi arabi: l’incontro tra Masoud Pezeshkian e i rappresentanti delle milizie Houthi, Hezbollah e Hamas prima del suo insediamento ufficiale dicono «l’intenzione di Teheran di investire sul caos e portare il Medio Oriente sul cratere dell’instabilità»; le foto scattate durante la cerimonia di insediamento del nuovo presidente, con i rappresentanti delle milizie in prima fila, testimoniano l’importanza dal sodalizio tra queste ultime e il governo. L’editoriale si conclude con una stoccata al presidente americano Biden, che ha perso due anni a ripristinare, senza successo, l’accordo sul nucleare, e al governo libanese, che «si è trasformato in un corriere tra le milizie di Hezbollah e gli inviati internazionali, in primis l’inviato speciale USA Amos Hochstein».
Su Asasmedia, il giornalista libanese Khairallah Khairallah dà per certo un allargamento del conflitto all’Iran – «la testa del serpente», come Israele definisce il Paese del mullah – e al Libano. E accusa Hezbollah, che «ha deciso il destino del Libano a Gaza» e «non pensa al futuro dei libanesi». La disgrazia libanese è «l’assenza di un fronte interno coeso», che condanni esplicitamente il missile lanciato da Hezbollah sulla cittadina drusa di Majdal Shams, nel Golan, e faccia capire alla Repubblica islamica iraniana che «tutte le guerre che sta conducendo nella regione, parallelamente alla guerra a Gaza, rendono un servizio a Israele». L’Iran, conclude Khairallah, è disposto a sacrificare il Libano pur di vedersi riconosciuto dagli Stati Uniti e da Israele un ruolo geopolitico e il diritto a sedersi al tavolo dei negoziati sulla guerra di Gaza. «Il Libano ha legato indissolubilmente il suo destino a Gaza, e pagherà un caro prezzo», conclude l’editoriale.
Dello stesso avviso è l’intellettuale libanese Ridwan al-Sayyid, per il quale il missile su Majdal Shams «è un’occasione per i guerrafondai di far crescere la violenza». Le dinamiche della vicenda, spiega l’editorialista, ricordano gli eventi del 2006, quando Hezbollah lanciò alcuni attacchi e Israele rispose con la guerra. La differenza tra ieri e oggi è che nel 2006 il governo c’era e adoperò fin da subito per porre fine al conflitto, mentre oggi il governo è rimasto prevalentemente in silenzio, per poi dichiarare che «la Resistenza e il governo stanno facendo il loro dovere (!)». L’incidente di Majdal Shams ha fornito l’assist a Israele per «lanciare un attacco su vasta scala contro Hezbollah, Gaza e il Libano».
Il giornalista libanese Faris Khashan è invece più cauto nelle sue previsioni. Non è scontato, scrive su al-Nahar, che Teheran decida di cambiare strategia, anzi, «ci penserà mille volte prima di rispondere all’appello di guerra israeliano». Se non altro perché sa che, in caso di guerra, l’America scenderebbe in campo a fianco di Israele, mentre Tel Aviv ha dato prova di grandi capacità militari e d’intelligence uccidendo Haniyeh.
Il discorso del Re e l’ira di Algeri [a cura di Mauro Primavera]
Il re del Marocco Muhammad VI si è rivolto alla Nazione in occasione del venticinquesimo anno dall’incoronazione. Dopo aver ringraziato il suo popolo, il monarca ha sottolineato i progressi sociali e le riforme da lui promosse. Gran parte dell’intervento è stato dedicato alla grave siccità che da sei anni sta mettendo a dura prova il Paese, specialmente il settore agricolo. Parlando della crisi di Gaza, ha invocato la ripresa dei negoziati per il raggiungimento di una soluzione politica.
A tesserne le lodi più di qualsiasi altro giornale panarabo è al-‘Arab – vicino alle posizioni degli Emirati, che intrattengono ottime relazioni con Rabat – che gli dedica un impressionante numero di articoli. Come ad esempio quello a firma dello scrittore marocchino al-Buraq Shadi Abdessalam, che loda il bel discorso del sovrano, sottolineando la sua attenzione nel garantire la sicurezza idrica del Paese. C’è poi quello del libanese Khayrallah Khayrallah, che commenta il bilancio politico dell’ultimo quarto di secolo del Regno: «più di ogni altra cosa, l’importanza del Marocco risiede nella relazione tra le istituzioni monarchiche e il popolo, legame che ha reso il Paese un’oasi di pace e stabilità all’interno di una regione in tumulto». In occasione dell’anniversario, il presidente francese Emmanuel Macron ha fatto un importante concessione: in una lettera inviata a Muhammad VI, ha riconosciuto il piano di autonomia marocchino come unica soluzione per porre fine alla questione alla questione del Sahara Occidentale, in gran parte occupato dal Marocco ma rivendicato dal Fronte Polisario con il sostegno dell’Algeria, principale avversario di Rabat. La mossa, che di fatto segna il primo passo verso il riconoscimento francese della sovranità marocchina sul territorio, ha però scatenato l’ira dell’Algeria di Tebboune, che in segno di protesta ha richiamato da Parigi il suo ambasciatore. Ancora una volta, al-‘Arab si schiera a favore di Rabat, scrivendo che la decisione francese «apre la porta al pieno riconoscimento europeo della sovranità marocchina sul Sahara Occidentale, dopo il riconoscimento degli Stati Uniti e di altri Paesi europei». Durissimo il commento, sempre su al-‘Arab, del giornalista tunisino Habib al-Aswad: «il successo del Regno significa necessariamente il fallimento dell’immaginario staterello confinato nelle tende di Tindouf, il cui padrino è il regime dei generali in Algeria».
I giornali di orientamento filo-qatariota avanzano invece qualche (velata) critica. Al-‘Arabi al-Jadid, pur commentando in maniera positiva il discorso di Muhammad, non può far a meno di rilevare una contraddizione: certo, il sovrano nel suo discorso ha anche promesso l’indulto a molti esponenti dell’opinione pubblica detenuti in carcere, come «giornalisti, attivisti, blogger, islamisti e oppositori della normalizzazione con Israele». Tuttavia, la gioia della decisione «è rimasta incompleta, in quanto il perdono reale non ha incluso i più noti oppositori del Paese» appartenenti al Movimento del Rif, che nel 2017 organizzò proteste antigovernative, e «il gruppo dei sahrawi». Il quotidiano al-Quds al-‘Arabi – solidale con tutti quei Paesi che sostengono la causa Palestinese, tra cui l’Algeria – esprime tuttavia perplessità sulla strategia di Tebboune: «che cosa ha ricavato l’Algeria dall’ultima crisi con la Spagna? E cosa potrebbe ricavare un domani dalla probabile crisi con la Francia? E, cosa ancora più importante, se Parigi lo facesse oggi [il riconoscimento del Sahara Occidentale], chi sarà il prossimo? Il Regno Unito, per dirne uno? Oppure l’Italia, che ora è diventata per gli algerini il più grande e solido partner europeo? O forse capiterà la sorpresa che Russia e Cina, considerati più stretti e storici alleati dell’Algeria, si uniranno a loro volta nella lunga lista degli Stati che riconoscono la sovranità di Rabat sul Sahara Occidentale?». Per il giornalista marocchino Hussein Majdoubi la decisione dell’Eliseo avrebbe, almeno in parte, motivazioni di natura (geo)politica: rispondere da un lato alla volontà di Algeri di «marginalizzare» i francesi in ambito politico ed economico, dall’altro al suo desiderio di rendere «l’Italia e la Germania i suoi principali partner in Europa», senza contare i flirt con Mosca e Pechino e il progressivo allontanamento da Bruxelles.
Passiamo ora alle veementi reazioni della stampa algerina. La notizia ha preso tutta la prima pagina del quotidiano El Chaab del 31 luglio, sovrastando persino l’annuncio dell’assassinio di Haniyeh, relegato in basso, e il caso della pugile Imane Khelif. Se il titolo a caratteri cubitali, accompagnato da una foto di Macron e Tebboune, è schietto e diretto («la risposta al presidente Macron è stata dura e decisa»), l’occhiello ha un tono decisamente minaccioso: «cara Francia, è finito il tempo dei moniti, è giunto quello della resa dei conti». Le stoccate proseguono nelle pagine successive: «la posizione francese… capitombolo etico e calcoli sospetti»; «la Francia è ancora dedita al suo vecchio impegno colonialista»; «il futuro del Sahara Occidentale lo decidono i saharawi». Ugualmente duro Echorouk: «la Francia è nelle mani di una oligarchia che ha soltanto interessi machiavellici»; «L’Algeria è a un passo dalla rottura delle relazioni con la Francia». In un altro articolo della testata si legge che «la Francia ha scelto di attaccare indirettamente l’Algeria e di indebolirla» servendosi del Marocco come intermediario e proxy: «è da cinquant’anni che la Francia, sfruttando il suo potere di “veto” e la sua influenza nell’Unione Europea, si s’impegna a risolvere la questione del Sahara Occidentale alle Nazioni Unite a vantaggio del Marocco, al fine di conseguire i suoi obiettivi strategici ed economici in Africa, colpendo l’Algeria in un momento cruciale». Il direttore del giornale, ‘Abd al-Hamid Uthmani, spiega la decisione dell’Eliseo tirando in ballo la storia del secolo scorso: «occorre ricordare che la Francia ha sostenuto fin dall’inizio, e continuerà a farlo fino a nuovo avviso, il Marocco con le unghie, con i denti e con la lingua perché è affetta da una sindrome chiamata “sconfitta del Sahara Occidentale del 1900”, quando non riuscì a occupare questo territorio. Per questo Parigi ha sostenuto negli ultimi decenni l’occupazione marocchina, al fine di realizzare in altro modo il suo sogno coloniale». Come risulta evidente, l’editoriale, al pari degli altri articoli di Echorouk ed El Chaab, è fortemente intriso di un’accesa retorica terzomondista, che ricalca quella governativa. Secondo questa visione, Algeri si ergerebbe a portabandiera di tutte le popolazioni oppresse e sfruttate dalle “potenze coloniali”.
Naturalmente la posizione della stampa marocchina è di segno diametralmente opposto. Su Tanja 24 si respira aria di ottimismo: «la posizione di sostegno della Francia non è una mera mossa diplomatica passeggera, ma è parte di un ampio dinamismo internazionale che include gli Stati Uniti e molti altri Paesi arabi, africani ed europei, rafforzando la posizione del Marocco nello scenario internazionale». Più moderato il parere dell’accademico Muhammad al-Zaharawi, che su Lakome2, pur riconoscendo l’importanza della dichiarazione dell’Eliseo, osserva: «in occasione del venticinquesimo anniversario dall’insediamento al trono del Re, è chiaro che la Francia è uscita dalla zona grigia per quanto riguarda l’unità territoriale […]. Però, al di là dal contesto che fa da sfondo a questa posizione netta – se può essere così detta – molto diversa da quella adottata in passato dalla Francia per quanto riguarda forme e contenuti, va tenuto conto del fatto che la Quinta Repubblica sosteneva il Marocco soltanto in sede di Consiglio di Sicurezza, in cambio di guadagni e di enormi concessioni per investimenti. Fuori dal Consiglio, invece, si metteva addosso un cappello in base alle stagioni e alle circostanze». Significativa la vignetta pubblicata dalla testata Hespress: il Marocco si toglie un sassolino con i colori della bandiera del Sahara Occidentale dalla scarpa, mentre sullo sfondo il presidente algerino Tebboune fa una smorfia a metà tra l’amarezza e la rabbia.
L’Ultima Cena alle Olimpiadi: se “il troppo stroppia” [a cura di Chiara Pellegrino]
Anche la cerimonia di apertura delle Olimpiadi a Parigi ha ricevuto una certa attenzione dai media arabi, in particolare la presunta e controversa Ultima Cena con le drag queen. La Francia è stata accusata di doppi standard – ha vietato la partecipazione ai giochi alla Russia, ma ha accolto Israele, «accusato da tutto il mondo di genocidio» –, e per la sua idea arbitraria di libertà – «accetta ogni tipo di pluralismo comportamentale, compresa l’etica sessuale volgare, ma impedisce alla donna francese musulmana di esercitare la sua libertà personale indossando il velo islamico nei luoghi pubblici», scrive su al-Quds al-‘Arabi l’ex ministro e ambasciatore del Bahrein Ali Mohammad Fakhro. Il messaggio mandato dalla «Francia democratica» è chiaro, scrive l’editorialista: «Gli omosessuali hanno diritti che i credenti non hanno. È così che la Francia moderna intende la libertà». L’Ultima Cena rappresentata durante la cerimonia, prosegue Fakhro, mostra «la cecità mentale e morale di molti responsabili della politica e della cultura nelle società occidentali. Tale cecità impedisce loro di vedere e rendersi conto che le deviazioni comportamentali, valoriali e sociali che la civiltà occidentale sta cercando di diffondere in questo mondo negli ultimi tempi sono ancora oggetto di mille controversie, anche nei Paesi in cui hanno avuto origine». A Parigi è andato in scena «il declino anziché la sublimità, l’oscurità anziché i lumi, le regressioni comportamentali anziché il progresso verso il meglio».
Il regista della cerimonia «ha offeso la sensibilità dei cristiani e di molti popoli, religioni e società di tutto il mondo che rifiutano l’omosessualità», scrive su Asasmedia il giornalista libanese Fadi Ahmar. Con quelle «noiosissime scene, prive di valore artistico», il cui unico scopo «sembrava essere provocare e offendere il pudore», il regista «ha oltrepassato i limiti della libertà, finendo per violare la libertà altrui, soprattutto quella dei cristiani, attaccando le loro cose sacre». La cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici, conclude l’editoriale, «ha rispecchiato la realtà politica e sociale francese: la lobby gay è molto forte nella classe dirigente” […]. E non si tratta solo di islamofobia, ma anche di un odio profondo per la religione, per tutte le religioni, con il pretesto della laicità, la quale peraltro è stata invocata anche da Gesù quando disse: “Date a Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio”».
Il proverbio “il troppo stroppia” sintetizza perfettamente il pensiero espresso su al-Sharq al-Awsat dalla giornalista libanese Sawsan Al Abtah, secondo la quale il direttore creativo «ha dimenticato che l’esagerazione genera esagerazione, e la provocazione è il modo più veloce per aizzarsi contro l’opinione pubblica, unire e mobilitare chi la pensa diversamente». Se il regista si fosse accontentato di fare alcuni accenni ai temi probabilmente sarebbe andato tutto liscio, ma «il calice era traboccante», prosegue l’editorialista. E poco importa se il comitato organizzatore si sia affrettato a giustificarsi, dicendo che quello che era andato in scena non era il quadro di Leonardo da Vinci, ma una festa pagana, perché conta ciò che ha visto la gente in quella rappresentazione. Il grande paradosso è che la cerimonia voleva «ispirare la tolleranza e la convivenza» e invece ha finito per suscitare l’effetto opposto risultando divisiva e provocando una maggiore polarizzazione verso gli estremi. Il punto, conclude Al Abtah, è che le esibizioni artistiche alle Olimpiadi «dovrebbero incontrare il gusto della maggioranza delle persone, non della minoranza, e prendere le distanze dalle ideologie e dai messaggi politici. Lo sport unisce, non divide».