Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 19/03/2024 11:49:11

Il 14 febbraio, il quotidiano di proprietà saudita al-Sharq al-Awsat ha pubblicato una lunga intervista al presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) Abu Mazen. Questi ha innanzitutto rivendicato la sovranità dell’ANP sulla Striscia di Gaza, prendendo le distanze dall’operazione “Diluvio di al-Aqsa”: «è stata una sorpresa per tutti, nessuno se lo aspettava». Abu Mazen si è detto pronto a continuare a esercitare le proprie responsabilità amministrative nei confronti dei cittadini di Gaza dal «giorno dopo» «la fine dell’aggressione», una responsabilità a cui l’Autorità Nazionale non si è mai sottratta: «Dal colpo di Stato compiuto da Hamas nel 2007, il governo palestinese ha versato alla Striscia più di 140 milioni di dollari al mese per l’elettricità, l’acqua, il carburante, gli ospedali, le pensioni e lo sviluppo sociale. Questo è il nostro dovere verso il nostro popolo a Gaza». Alla domanda se sono in corso dei colloqui tra l’Autorità e Hamas il presidente sembra contraddirsi. All’inizio si mostra conciliante e “aperturista”: «Noi non rifiutiamo un incontro con la leadership di Hamas, dal momento che fin dal colpo di Stato del 2007 ci siamo incontrati con loro e abbiamo stretto numerosi accordi per porre fine al golpe, come è avvenuto con gli accordi della Mecca, in Egitto e in Algeria». Subito dopo, però, il presidente aggiunge che «dal colpo di Stato del 2007 noi non abbiamo più avuto relazioni con Hamas». Anzi, quest’ultima ha «schivato con pretesti inconsistenti» tutte le iniziative di pace promosse dai Paesi arabi, in particolar modo proprio i recenti incontri ad El Alamein, in Egitto. Abu Mazen ha poi colto l’occasione per lodare l’iniziativa di pace promossa dall’Arabia Saudita, le cui recenti dichiarazioni «non sono altro che il proseguimento di quel percorso grandioso [iniziato con re ‘Abdulaziz al-‘Saud] e delle posizioni coraggiose che il Regno ha da sempre assunto nei confronti della Palestina e del suo popolo, e degli sforzi continui per incarnare il diritto del popolo palestinese alla libertà e all’indipendenza, e a istituire il suo Stato indipendente con Gerusalemme Est come capitale». Decisamente critico invece è apparso nei confronti degli Stati Uniti, accusati di non realizzare le promesse fatte: «Abbiamo incontrato molte volte i leader dell’amministrazione statunitense (cinque volte Blinken, svariate volte Jake Sullivan e William Burns), e da loro abbiamo sentito promesse riguardo alla soluzione dei due Stati e al sostegno per raggiungere una pace fondata sul diritto internazionale. Con loro c’è stato un dialogo profondo e continuo, che però non si è tradotto in nulla di concreto. Ciò significa che l’amministrazione Biden non ha esercitato una pressione reale e seria sul governo israeliano di destra perché queste dichiarazioni venissero tradotte nella pratica». Molto negativo è ovviamente anche il giudizio su Netanyahu e, in generale, sulla classe politica israeliana: «Attualmente non esiste una parte israeliana che possa realizzare una pace giusta e duratura; noi abbiamo detto al mondo che Netanyahu è evidentemente un ostacolo al raggiungimento di una soluzione politica fondata sul diritto internazionale. Netanyahu non crede nel raggiungimento della pace e nella fine dell’occupazione, in modo tale da consentire ai palestinesi e agli israeliani di vivere [in un contesto] sicuro e stabile».

 

Anche al-‘Arabi al-Jadid discute del “giorno dopo”, ma si mostra scettico e rassegnato a riguardo: «tutti sanno che gli scenari del “giorno dopo” nella Striscia dipendono in gran parte da quello che concorderanno Israele e gli Stati Uniti. Non ci sarà alcun scenario, a meno che questi due Stati non realizzino quanto desiderato: spezzare la Resistenza e distruggerla […]. È vero che gli interessi e i calcoli tra le due parti possano talvolta differire in alcuni aspetti e dettagli; tuttavia, entrambi sono concordi sul fatto che una vittoria israeliana a Gaza non sarà soltanto contro la resistenza palestinese, ma anche contro ogni palestinese e contro ogni arabo». Visione ottimista da parte della testata emiratina al-‘Ayn al-Ikhbariyya: la crisi di Gaza ha riportato la questione palestinese al centro dell’attenzione mondiale e la sua soluzione, «nonostante tutti gli ostacoli e le difficoltà, grandi o piccole, che ci si aspetta di trovare nel futuro prossimo, non è lontana».

 

La stampa araba ha inoltre analizzato il ruolo dell’Egitto di al-Sisi. La notizia della settimana, infatti, riguarda il tappeto rosso che al-Sisi ha steso al presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, ponendo fine al “gelo” con Ankara seguito al colpo di Stato del 2013. «Sembra che per organizzare questa visita i due leader abbiano scelto questo giorno, la festa di San Valentino, per il suo significato simbolico» commenta il giornalista siriano Bakr Sidqi per la testata di proprietà qatariota al-Quds al-‘Arabi. In effetti, la domanda a cui l’articolo cerca di fornire una risposta è: perché mai Erdoğan, sostenitore delle Primavere Arabe e vicino alla Fratellanza Musulmana, ha deciso di normalizzare le relazioni con il regime di al-Sisi, sua vecchia nemesi? Per Sidqi il motivo principale che ha portato la Turchia a rivedere la sua politica estera è stata, in primo luogo, la grave crisi economica che ha colpito il Paese negli ultimi anni e, in secondo luogo, l’acuirsi della crisi umanitaria di Gaza: «con questa visita si chiude l’ultima pagina della polarizzazione creata dalla Primavera Araba tra i leader della regione, anche se questa Primavera non ha realizzato nessuna aspettativa dei popoli che l’hanno innescata. Anzi, il quadro regionale che potrebbe emergere dopo la fine della guerra tra Israele e Hamas potrebbe essere più tetro di quello che abbiamo vissuto fino ad ora».       

 

Il quotidiano panarabo al-‘Arab si concentra invece sui rapporti tra l’Egitto e Israele, messi a dura prova dalla crisi degli sfollati palestinesi e dall’annuncio di una nuova operazione militare israeliana su Rafah, città della Striscia situata lungo la frontiera con l’Egitto. Nonostante la firma degli Accordi di Camp David, il Cairo «vede Israele ancora come un nemico in ambito militare […]. Non ci sarà pace tra i due Stati in assenza di un grande pacchetto di interessi». In effetti nella stampa governativa egiziana si nota una certa acrimonia nei confronti dello Stato ebraico, come emerge da un editoriale di al-Ahram dal titolo beffardo “Fratello Israele”: «l’imprudenza politica, la spavalderia e l’immaturità sono le caratteristiche dell’attuale estrema destra israeliana, nani assetati di sangue che non comprendono quale sia la via della pace, ma capiscono solo il linguaggio della forza […]. Il loro comportamento mi ricorda quello della maligna Fratellanza: hanno lo stesso senso di superiorità e la stessa logica della forza; credo che andranno incontro al medesimo destino». 

 

Il “tiro alla fune” tra Washington e Teheran in Iraq [a cura di Chiara Pellegrino]

 

Gli effetti collaterali del conflitto a Gaza continuano a destare grande preoccupazione. Diversi quotidiani arabi, in particolare quelli filo-emiratini e filo-sauditi, si sono interrogati sulle ripercussioni in Iraq della guerra tra Israele e Hamas, e su come potrebbero evolvere, nel breve periodo, i rapporti di forza tra Washington e Teheran.

 

Al-Sharq al-Awsat ha pubblicato un lungo e ricco dossier multimediale sul ruolo giocato dalle forze irachene sciite filo-iraniane nel conflitto israelo-palestinese e ha ripercorso le tappe del loro coinvolgimento graduale nelle operazioni militari condotte ai danni degli americani in Iraq e nella vicina Siria, con l’obbiettivo di «proteggere gli interessi e la preminenza iraniana» nella regione.

 

L’idea condivisa da molti opinionisti è che il rischio di escalation nella regione sia reale e sempre più concreto. Su al-Quds al-‘Arabi, il giornalista iracheno Muthanna ‘Abdallah ha espresso il timore che la risposta americana possa far crescere ulteriormente la tensione nella regione, con conseguenze devastanti per l’Iraq. La reazione militare americana «segna un cambio di passo, da un lato perché è una grande escalation, dall’altro perché il Presidente Biden si sta preparando alla campagna per la sua rielezione e non ha interesse a mostrarsi debole nei confronti del suo avversario, Trump, che all’inizio del 2020 aveva autorizzato l’uccisione del capo delle milizie iraniane al-Quds, Qassem Soleimani». Per il momento, Washington sembra puntare a un «fattore di deterrenza», visto che gli attacchi americani colpiscono obbiettivi sul territorio iracheno e siriano e non direttamente l’Iran. Ma il rischio di escalation resta: l’uccisione di un leader delle milizie sciite da parte delle forze americane ha incrinato i rapporti tra Stati Uniti e governo iracheno, che ha definito l’azione americana «un indebolimento delle intese, una minaccia alla pace civile e una violazione della sovranità» e chiesto alla coalizione internazionale di lasciare il territorio iracheno.

 

Che cosa succede se le forze della coalizione internazionale si ritirano dal Paese? – si domanda il giornalista iracheno Basil al-Khatib su al-Arab. Il rischio è un rinvigorimento delle organizzazioni terroristiche, non ancora del tutto estirpate, e forse di una guerra civile «causata dall’avidità delle influenti forze sciite che controllano gli affari del Paese, sono fedeli all’Iran e prendono ordini da Teheran», e continuano a «emarginare e schiacciare i curdi, i sunniti e persino gli sciiti che rifiutano la loro presenza». Rispetto a come sono andate le cose in Iraq, scrive al-Khatib, gli Stati Uniti non possono certo dirsi innocenti: «Hanno consegnato le redini del potere all’attuale classe politica, che monopolizza il potere, la forza, le armi e il denaro, hanno istituito un modello che perpetua il confessionalismo e distrugge i pilastri dello Stato, hanno scatenato odio, vendetta ed emarginazione, fondando la loro azione sull’esperienza britannica e sulla politica del “divide et impera”, applicata in precedenza nelle colonie». L’autore immagina tre scenari futuri. Il primo prevede l’uscita dal Paese delle forze della coalizione internazionale. Se questo accadesse, «l’Iraq sarebbe abbandonato alla mercé e al controllo degli iraniani, che finirebbero per trasformarlo in una provincia iraniana spalancando le porte degli inferi davanti al Paese». In questo caso, l’Iraq sarebbe sottoposto a dure sanzioni internazionali e crescerebbe il rischio di una guerra civile. Il conflitto vedrebbe contrapposta Baghdad alla regione del Kurdistan, le cui aree, soprattutto quelle occidentali, tenterebbero la secessione, con il rischio di un intervento militare turco. Il secondo scenario, meno apocalittico, prevede che le forze internazionali restino nel Paese, e cerchino di sciogliere le milizie armate e attuare delle riforme formali, condannando l’Iraq «a restare nella categoria dei Paesi falliti e più corrotti al mondo». Infine, il terzo scenario, quello più roseo, prevede «l’eliminazione della classe politica attuale, ritenuta responsabile dei crimini e dei furti commessi» con la possibilità che il Paese possa tornare a svolgere un ruolo pioneristico nella regione.

 

Su al-Arabi al-Jadid Iyad al-Dulaimi parla dell’esistenza, da anni, di «un tacito accordo tra l’Iran e gli Stati Uniti per spartirsi l’influenza in Iraq», a cui l’Iran starebbe cercando di mettere fine sfruttando il conflitto israelo-palestinese e gli attacchi americani ai danni delle milizie sciite irachene. Dopo 20 anni di condivisione dell’influenza, l’Iran vuole avere l’esclusiva e fa pressioni su Muhammad al-Sudani – «il governo delle fazioni armate fedeli all’Iran» – perché chieda il ritiro della presenza militare americana dal Paese. Tuttavia, «questa ambizione iraniana continua a scontrarsi con il rifiuto politico opposto da Erbil, rifiuto di cui la capitale del Kurdistan iracheno ha sempre pagato il prezzo subendo una serie di attacchi iraniani volti a indurla a cambiare la sua posizione». Quello giocato dall’Iran, però, è un gioco pericoloso, scrive l’editorialista, che potrebbe portare all’apertura di nuovi fronti di conflitto interni.

 

Il pessimismo domina anche il quotidiano emiratino al-Ayn al-Ikhbariyya. «Lo scontro militare tra Iran e Stati Uniti è dietro l’angolo, soprattutto dopo che l’Iran è entrato in una guerra per procura e ha preso di mira gli interessi e le basi americane in Siria, Iraq e Yemen», scrive Hussein al-Shaykh. I rapporti tra le due potenze sono basati sulla «politica del tiro alla fune», e il rischio che la fune si spezzi è molto alto. «Per la regione aprono una fase molto pericolosa, che potrebbe deflagrare da un momento all’altro».

 

A mettere a dura prova gli equilibri iracheni non sono soltanto gli effetti della guerra a Gaza. Per la prima volta in dieci anni si sono tenute le elezioni provinciali, che però hanno messo a nudo e inasprito ulteriormente le rivalità tra le componenti della galassia sciita irachena. Al-Arab ha commentato la scelta (stolta) di Muqtada al-Sadr di boicottare le elezioni, una decisione che ha finito per avvantaggiare i rivali guidati da Nouri al-Maliki. Questi ultimi si sono aggiudicati la vittoria anche nei governatorati nel sud dell’Iraq, storiche roccaforti delle forze sadriste. La sconfitta nel governatorato di Najaf, che il quotidiano londinese definisce «un disastro politico», «ha inferto un duro colpo morale» a Muqtada al-Sadr e scatenato il risentimento dei suoi seguaci. Negli anni, infatti, la radicata presenza del movimento sadrista nei governatorati meridionali aveva garantito ai suoi sostenitori posizioni di rilievo nelle amministrazioni pubbliche e, in alcuni casi, il controllo totale di interi settori, come quello sanitario. Questa sconfitta, conclude l’editoriale, segna un declino dell’influenza di al-Sadr nel sud del Paese.

 

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