I cristiani orientali oscillano tra appartenenza comunitaria e nazionale. Solo Stati di diritto possono sanare il conflitto tra queste due identità e garantire la sopravvivenza in contesti plurali

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Ultimo aggiornamento: 19/06/2024 15:08:13

Già al tempo delle crociate i cristiani orientali furono scissi tra l’appartenenza comunitaria e quella alla collettività in cui vivevano. Una divisione che oggi è presente ancora: la preferenza alla prima o alla seconda dipende dall’interlocutore o dal tipo di Islam nel quale sono immersi. In realtà però le due identità sono inseparabili e complementari. Solo Stati di diritto in Medio Oriente potranno garantirne la sopravvivenza in contesti autenticamente plurali.

 

Nel suo Le crociate viste dagli arabi, Amin Maalouf racconta che i cristiani orientali, probabilmente entusiasti per l’arrivo dei crociati in cui vedevano fratelli nella religione, furono ben presto disgustati dalle loro atrocità[1] al punto di trovarsi a rimpiangere la dominazione musulmana[2]. Meglio di qualsiasi altra analisi, questo episodio riflette l’ambivalente identità dei cristiani orientali, divisi tra appartenenze diverse: l’appartenenza comunitaria, che tende a valorizzare la loro identità religiosa, e l’appartenenza alla collettività nella quale vivono, quella collettività nella quale sono chiamati a integrarsi e che hanno vocazione di servire.

 

Questo conflitto tra identità che puntano in direzioni diverse è tutt’ora vivo. Per misurarne la portata è necessario ritornare sull’espressione stessa di “cristiani d’Oriente”, che non è priva di una certa ambiguità. La categoria di cristiani d’Oriente abbraccia infatti una realtà quanto mai eterogenea che va dai maroniti libanesi ai caldei d’Iraq, dai copti d’Egitto ai greco-ortodossi di Siria. La loro storia e la loro cultura sono talvolta estremamente diverse, così come lo sono la loro partecipazione al potere e il coinvolgimento nella vita politica. A unirli è fondamentalmente il fatto di condividere la religione cristiana, che essi praticano in un ambiente in cui l’Islam rimane predominante e anzi molto spesso è religione di Stato.

 

Se il legame con la comunità non può essere contestato, la sottolineatura dell’appartenenza comunitaria come elemento principale dell’identità dei cristiani è oggetto di valutazioni diverse. Essa rischia infatti di relegare in secondo piano l’appartenenza civica, quando proprio quest’ultima è indispensabile per l’integrazione dei cristiani orientali nelle società in cui vivono. Il greco-ortodosso libanese non ha forse più cose da spartire con il sunnita di Beirut che con il siriaco di Mosul? Dieci secoli dopo le prime crociate il dilemma descritto da Amin Maalouf è ancora attuale e mostra la difficoltà di articolare identità comunitaria e identità nazionale.

 

Due atteggiamenti, due pericoli

 

Queste difficoltà sono accentuate dalla tendenza, abbastanza diffusa, a porre in competizione appartenenze che per vocazione sono in realtà complementari. Si possono così identificare due atteggiamenti antagonisti: il primo tende a rimarcare l’appartenenza comunitaria relegando in secondo piano l’appartenenza civica. L’identità cristiana diventa allora centrale nella definizione dell’individuo che la rivendica. Essa è alimentata dalla volontà di preservare la specificità della comunità e dei suoi membri ed è mantenuta viva dal timore delle persecuzioni e dall’entità della minaccia che, secondo il Paese di appartenenza, può pesare sulla pratica della fede. Il secondo atteggiamento tende invece a sottolineare l’appartenenza nazionale: l’identità comunitaria passa allora in secondo piano, riguardando soprattutto il foro interno.

 

Paradossalmente queste due posizioni non si escludono necessariamente a vicenda, ma spesso e volentieri coesistono tra i cristiani orientali. La preferenza per l’una o per l’altra varia frequentemente in funzione dell’interlocutore o dell’ambiente in cui i cristiani si trovano ad agire; più precisamente essa varia in funzione del volto dell’Islam con cui sono chiamati a convivere o della natura del regime al potere. L’estremismo musulmano, così come le discriminazioni di natura politica o religiosa, contribuiscono a esasperare l’appartenenza comunitaria, che si manifesta con forza in situazioni di pericolo. Al contrario, nelle società in cui a tutte le minoranze è garantita la partecipazione alla vita politica e in cui prevale un Islam aperto e tollerante, l’appartenenza comunitaria, smettendo di essere minacciata, non oscura più l’appartenenza nazionale. In questo contesto diventa possibile partecipare alla costruzione di un progetto comune con compatrioti di confessione diversa. Il cristiano orientale è allora un attore della vita politica e sociale, un cittadino a pieno titolo.

 

È evidente perciò che l’identità comunitaria e l’identità nazionale fanno entrambe parte, in maniera abbastanza naturale, dell’identità dei cristiani orientali. Come tali esse meritano di essere protette e non possono essere dissociate o gerarchizzate. Chiamando in causa appartenenze diverse, ma tutte ugualmente legittime, queste identità non dovrebbero entrare in concorrenza tra loro.

 

Portati all’estremo, i frequenti tentativi di far prevalere un’identità a scapito dell’altra non possono che condurre a un vicolo cieco. Di fatto, se separata dall’identità nazionale, l’identità comunitaria diventa un fattore di ripiegamento su se stessi e, privilegiando gli interessi della comunità rispetto a quelli della collettività nazionale, genera conseguenze pericolose. A questo proposito il sostegno che talvolta le comunità cristiane hanno fornito alle dittature al potere in alcuni Paesi del Medio Oriente si spiega probabilmente per la protezione che i regimi offrono loro. Ma questo li pone in una posizione pericolosa rispetto ai loro compatrioti vittime di violentissime persecuzioni da parte del potere. Allo stesso modo, il sogno accarezzato da alcuni di un piccolo Stato cristiano da costruire sulle rovine del loro Paese d’origine fa sì che i cristiani vengano considerati dei traditori da quanti intendono legittimamente preservare l’integrità del Paese. La difesa dell’identità comunitaria cristiana, se messa in atto a scapito dell’identità nazionale, necessariamente inasprisce per reazione l’identità comunitaria musulmana. Lo scontro confessionale diventa allora inevitabile.

 

Ma il pericolo inverso non è meno reale. Il discorso assai diffuso secondo cui la difesa dell’identità nazionale passerebbe per l’attenuazione delle identità comunitarie, che dovrebbero essere relegate al foro interno, genera conseguenze altrettanto pericolose. Esportando nelle società plurali del Medio Oriente il modello politico in vigore nelle società occidentali, questo discorso rinuncia a garantire i diritti delle minoranze a livello istituzionale; trascurando le realtà sociologiche e ignorando il peso della storia recente segnata dalle persecuzioni, contribuisce a mantenere vivo un senso di insicurezza il cui effetto più perverso è l’esasperazione dell’identità comunitaria, laddove si proponeva di valorizzare l’identità nazionale.

 

Oltre la protezione

 

Per quanto utopico possa sembrare, il rispetto dell’identità, allo stesso tempo complessa e singolare, dei cristiani orientali passa innanzitutto per l’edificazione nella regione di Stati di diritto che tengano conto della specificità di società plurali. La diversità delle appartenenze deve poter essere preservata giuridicamente senza mettere in discussione l’edificazione di una comunità di destino di cui i cristiani siano parte attiva. Nessuna dittatura laica e nessuna protezione esterna possono sostituirsi alla necessità di istituire sistemi democratici modellati secondo la realtà di società multiculturali, i soli capaci di garantire la continuità della presenza cristiana e delle altre minoranze nella regione.

 

Non è detto ovviamente che la via da seguire per raggiungere questo obiettivo sia agevole né sempre praticabile, soprattutto se si considera la crisi che il Medio Oriente sta attraversando. Ciononostante è utile prendere coscienza del fatto che la tragedia che si sta abbattendo sulla regione non colpisce solo le comunità cristiane. La brutalità di cui i cristiani sono stati vittime in questi ultimi mesi ha preso di mira con la stessa barbarie anche le altre comunità, sia musulmane che druse. A essere in gioco in questa parte del mondo è in realtà la sopravvivenza del modello pluralista e della diversità culturale e con essa l’identità collettiva e individuale di ognuno, a prescindere dalla complessità che la caratterizza.

 

Come libanese cristiana temo ovviamente l’ascesa dello Stato Islamico in Libano e l’ondata di odio e barbarie che lo accompagna. Ma temo anche di dover vivere nei prossimi anni in un piccolo Stato cristiano d’Oriente, ripiegato su se stesso, logorato dal fanatismo, e il cui avvento significherebbe di per sé stesso la morte dell’identità libanese.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis

 

 


[1] Amin Maalouf, Les croisades vue par les arabes, JC Lattès, Paris 1983, pp. 67-68, trad. It. Le crociate viste dagli arabi, SEI, Torino 1989.
[2] Su questo punto si veda Thierry Hentsch, L’Orient méditerranéen du Moyen-Age chrétien : la rencontre de l’Islam, «Études internationales», 17 (1986), n. 3, p. 509 e ss., specialmente p. 520.