Intervento di Asmae Dachan alla conferenza internazionale “Cambiare rotta. I migranti e l’Europa”

Ultimo aggiornamento: 07/02/2024 11:01:55

Buongiorno a tutte e a tutti, saluto le autorità religiose e politiche e il magnifico Rettore Anelli. Il tema di oggi mi sta particolarmente a cuore come giornalista perché, insieme ai diritti umani e al dialogo interreligioso, le migrazioni sono una delle questioni di cui mi occupo maggiormente. Questa sessione ha un titolo molto bello: affrontiamo insieme la realtà dei migranti. Vorrei allora partire dalla parola “realtà”, sinonimo della parola “verità”, che in arabo ha una traduzione molto bella: è una parola trilittera – haqq – dalla quale deriva “haqīqa”. “Haqq” significa diritto e “haqīqa” significa verità. Ciò significa che diritto e verità sono le due facce della stessa medaglia e questo per noi giornalisti dev’essere una sorta di faro che ci guida nell’osservazione e nella narrazione della realtà, senza mai esasperare i toni, senza mai esagerare nel racconto, ma cercando di essere il più fedeli possibile a quello che è, appunto, la realtà dei fatti. Noi giornalisti siamo consapevoli che nessuno detiene la verità dei fatti, perciò parliamo di realtà putativa, ovvero cerchiamo di raccontare ciò che è più vicino possibile alla realtà dei fatti, ciò che oggettivamente è successo cercando di asciugare le emozioni o i giudizi. Per fare questo è sicuramente molto utile andare nei luoghi dove i fatti si svolgono.

La dolorosa via della fuga

 

Prima è stata citata Lampedusa, che in Italia è sicuramente una delle realtà se non la realtà dove il fenomeno delle migrazioni dal mare è sentita più fortemente. Questa però non è l’unica realtà, né in Italia né in Europa. A questo proposito vorrei spostare un attimo l’attenzione dall’Italia meridionale verso un’altra porta di accesso all’Europa, che è la Grecia. Nell’estate 2022 sono stata sull’isola di Lesbo, in particolare nella zona di Mitilene, per scrivere un reportage. Chi conosce Mitilene sa che è una parte dell’isola da cui si possono vedere a occhio nudo le coste della Turchia. Uno stretto braccio di mare collega questi due Paesi, o forse dovrei dire divide questi due Paesi, perché le tensioni storiche che ci sono state sono ancora molto sentite al punto che, se avessero potuto costruire un muro in quel piccolo tratto di mare, lo avrebbero fatto. Ci sono state delle tensioni, delle espulsioni reciproche, i musulmani sono stati rimandati in Turchia, i cristiani sono stati rimandati in Grecia. Quella è una terra di grande sofferenza, dove ancora oggi tutto questo si sente. Guarda caso, però, la statua simbolo di quest’isola e in particolare della zona di Mitilene è una mamma migrante con in braccio un bambino piccolo e altri due bambini attaccati alla gonna. È la resilienza di una donna migrante, che con la schiena dritta cerca di portare avanti le nuove generazioni, cerca di portare avanti la vita. A Mitilene ho incontrato una parte di umanità che avevo incontrato nei luoghi d’origine, ovvero i migranti siriani. Io sono di origine siriana e ormai su 22 milioni di abitanti, 7 milioni e mezzo sono profughi fuori dalla Siria, oltre ai 7 milioni e mezzo di sfollati interni. A Lesbo ho incontrato anche profughi e profughe afghani, fuggiti dai talebani dopo che questi sono tornati al potere. Chi ha potuto fuggire in sicurezza lo ha fatto, chi non è potuto fuggire in sicurezza perché nessun convoglio internazionale lo ha voluto caricare che cosa ha potuto fare? Qual era l’alternativa? Questo è uno dei temi centrali della mia riflessione oggi. Quando la realtà ti dice o scappi in qualsiasi modo, quindi anche in modo illegale, o rischi di finire sotto i talebani, sotto il regime terrorista, sotto il regime integralista che ti perseguita, ti arresta o ti uccide, io penso che tutti noi opteremmo per la prima scelta. La via della fuga non è mai una scelta indolore. Anche perché prima di arrivare a Lesbo, che è, appunto, un’isola, queste persone hanno camminato per mesi, a volte anni. Il loro è un tragitto molto travagliato e in ogni caso devono fare un ultimo tratto in quel famigerato braccio di mare che collega la Turchia alla Grecia. Lì sono all’ordine del giorno sia i naufragi sia i pushback. Frontex respinge le navi dei migranti e spesso non lo fa nella maniera più trasparente e più rispettosa dei diritti umani possibile. Spesso i migranti non toccano neanche terra, ma avviene il pullback, vengono cioè direttamente respinti in acqua a volte dopo aver preso loro i telefoni e il materiale che avevano. Questo lo documentano le testimonianze degli attivisti di “Operazione Colomba” per esempio, che, come sapete, è un corpo di pace della Comunità Papa Giovanni XXIII, e altre associazioni che sono lì sull’isola. A Lesbo ci sono anche africani e sudamericani. Capire come dall’Africa siano arrivati sull’isola è un percorso molto interessante, così come capire le dinamiche, e chi ha aiutato chi in questi spostamenti. Ma com’è possibile che dei sudamericani siano arrivati a Lesbo? È possibile perché ci sono cittadini di Paesi che possono entrare in Turchia senza il visto. Queste persone arrivano tranquillamente in Turchia, poi da lì proseguono il loro viaggio senza documenti imbarcandosi verso la Grecia. Così come avviene per le altre isole, Lampedusa per esempio, la meta finale di questi migranti non è sicuramente quell’isola. Quello è il punto di approdo, ma poi tutti vorrebbero andare verso il Nord Europa, dove magari vivono già dei familiari, degli amici, e hanno qualche possibilità in più. Questa migrazione molto variegata, composta da africani, arabi, asiatici e sudamericani, trova modo di incontrarsi. Un modo terribile in cui si sono incontrati è stato nel famigerato campo profughi di Moria. Quel campo era stato costruito per poche centinaia di persone ma poi è arrivato ad accoglierne migliaia finché non è stato dato alle fiamme. Quella è stata una piaga, una vergogna storica, non solo per Lesbo, ma per tutto il mondo. Io sono andata sulle macerie di Moria coi volontari di Operazione Colomba. Vederlo distrutto dà un certo senso di soffocamento perché lì, a Moria, c’erano tanti bambini in mezzo agli adulti e le violenze erano all’ordine del giorno. Le migrazioni di cui stiamo parlando sono migrazioni di interi nuclei famigliari, i siriani e gli afgani spesso si muovono come nucleo. Emigrano famiglie intere, bambini, donne, uomini e a volte anche gli anziani.

 

Una carezza di umanità

 

Un elemento comune a tutte queste persone, che è stata una grande sorpresa nelle tre settimane della mia permanenza sull’isola, è stato padre Martin. Padre Martin è un religioso cattolico originario dei Paesi Bassi, che era solito trascorrere le vacanze su quest’isola. Ogni anno, quando staccava dalla sua parrocchia, si godeva un po’ di mare e un po’ di caldo sull’isola e successivamente tornava a casa. Poi le cose sono cambiate, Lesbo è diventata un punto di arrivo per i migranti e padre Martin, che è una persona molto sensibile, ha deciso di fermarsi qualche tempo – sono diventati anni - per alleviare le loro pene, il loro dolore e soprattutto la loro solitudine. Padre Martin celebra la messa in una delle pochissime chiese cattoliche presenti sull’isola, perché là quasi tutti sono ortodossi. La maggior parte dei suoi fedeli sono africani, ma ci sono anche volontari delle ONG europee. Vi dirò una cosa che forse vi farà sorridere o vi farà strano: anche io per tre domeniche consecutive sono andata alla messa di padre Martin, non perché mi fossi improvvisamente convertita, ma perché era un luogo dove veramente sentivo una carezza di umanità. Finito di celebrare la messa, padre Martin si toglieva la tunica e in canotta e bermuda andava a parlare ai fedeli, chiedeva loro notizie della loro situazione; lì c’era un vero incontro di umanità. Sapendo che c’era padre Martin, anche i fedeli di altre religioni andavano da lui: l’avevano conosciuto a Moria perché lui girava tra le tende. Mi ha raccontato ciò che ha visto in quel famigerato campo: giovani che facevano operazioni di autolesionismo perché non sopportavano più la situazione di sofferenza, persone che impazzivano perché il loro equilibrio psicologico diventava sempre più fragile, adulti che si accoltellavano dopo le risse e ahimè anche violenze di genere. Lui è stato una carezza per tutte queste persone. Ogni tanto andava a parlare con i ragazzi di Frontex intenti a pulire e sistemare le navi e chiedeva loro di avere misericordia e pietà per queste persone. Loro, che potrebbero essere i nostri figli, sono ragazzi che eseguono gli ordini, fanno il loro lavoro, e gli dicevano: «Noi non ce l’abbiamo con nessuno, facciamo quello che ci hanno incaricato di fare».

 

Il privilegio del passaporto

 

Una cosa che dovremmo fare è cercare di capire chi è che fugge. Abbiamo citato i siriani e gli afghani, ma potremmo citare molte altre persone, ad esempio gli ucraini. Oggi tutti quanti riconoscono il diritto del popolo ucraino a fuggire dal suo Paese, nessuno metterebbe in discussione il modo in cui un ucraino o un’ucraina fugge dalla guerra, nessuno chiederebbe se ha il documento. Sulla parola “documento” vorrei soffermarmi perché, quando vado nelle scuole a chiedere ai ragazzi se sanno quali sono i privilegi di cui noi italiani godiamo – e mi ci metto anche io perché sono cittadina italiana da quando avevo due o tre anni – spesso loro non se ne rendono pienamente conto. A volte quando abbiamo un diritto lo diamo quasi per scontato. Io ho il diritto di avere il passaporto italiano con il quale vado ovunque voglio nel mondo. Vado in Tanzania, vado in Etiopia, chiedo il visto on-line e me lo danno in pochi secondi, vado in Giordania e mi timbrano il visto quando arrivo in aeroporto. Questo è possibile perché il passaporto italiano è il terzo più forte al mondo, mentre altri passaporti, come quello siriano, valgono come carta straccia, non permettono di andare in nessuna parte del mondo. Come giornalista, se avessi avuto soltanto il passaporto siriano non avrei mai potuto fare tutto quello che ho fatto, né scrivere tutti i reportage, perché un passaporto siriano ti lega le mani. Quindi è importante avere un documento che abbia un valore e poi un titolo di viaggio legale. Chi non può viaggiare legalmente, che cosa fa? Non ci sono molte scelte. Io credo che noi potremmo anche costruire i famosi muri in mezzo al mare, ma finché ci sono persone che sono in pericolo di vita o persone che vengono pagate cento dollari al mese e lavorano sedici ore al giorno, queste continueranno a scappare. Non c’è via alternativa.

 

Un altro tipo di migrazione su cui bisognerebbe riflettere è la migrazione femminile. Questa è soggetta a diversi tipi di vulnerabilità; spesso le donne nei Paesi d’origine non sono minimamente tutelate, non hanno diritti. Se vogliono chiedere il divorzio devono rinunciare ai figli oppure non possono chiederlo, se denunciano il marito per maltrattamenti rischiano di vedersi discriminate, se vivono in un regime liberticida sono costrette a fare certe pratiche. Una donna che oggi vive in Iran e non vuole portare il velo, per esempio, rischia il carcere, se non la vita. Quindi ci sono tutta una serie di vulnerabilità che per di più sono legate all’essere donna e andrebbero prese in considerazione quando parliamo di migrazioni illegali.

 

Un laboratorio di cittadinanza

 

Concludo riprendendo alcune parole che hanno usato i colleghi che mi hanno preceduto: “ospitalità” e “condivisione”. Uno dei luoghi che io vedo deputati a queste due azioni è sicuramente la scuola. La scuola è uno straordinario laboratorio dove cambiare rotta, dove vedere persone native insieme a persone di origine migrante, che vivono e condividono un cammino. Io sono stata una di quei bambini. Quando andavo a scuola, tranne che per il mio nome particolare che nessuno sapeva pronunciare, essendo bianca ero perfettamente mimetizzata e sembravo una bambina italiana. Mi sentivo a tutti gli effetti una bambina italiana. Le cose sono cambiate moltissimo quando sono diventata mamma. Quando ero piccola ero una mosca bianca, l’unica bambina di origine straniera a scuola, ma quando sono diventata mamma e andavo a prendere i miei figli a scuola vedevo bambini africani, bambini dell’Est europeo, del Sud-est asiatico. Le cose sono cambiate velocemente e devo dire che la scuola, nonostante a volte abbia pochi mezzi, così come l’università, sono un primo laboratorio di cittadinanza straordinario perché i bambini a scuola non vedono le differenze (tranne quando sono gli adulti a rimarcarle), giocano insieme, crescono insieme, si formano come nuovi cittadini italiani a livello culturale, ma anche dal punto di vista della storia, della storia dell’arte, della storia delle religioni perché chi nasce e cresce qui non può essere insensibile alla cultura, all’arte e alla letteratura cristiana. Queste fanno talmente parte del patrimonio che ognuno di noi le interiorizza. Io credo che le nuove generazioni abbiano assimilato perfettamente i concetti che la nostra generazione e quella precedente faticano ancora ad accettare. Quindi con delle buone politiche probabilmente la convivenza tra diversità verrà agevolata in maniera più pacifica e costruttiva. 

 

 

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