La crisi tra lo Stato iracheno e il Patriarca caldeo Louis Sako trascende i confini dell’Iraq ed è paradigmatica delle tante derive che negli ultimi anni hanno contribuito a lacerare il Medio Oriente

Ultimo aggiornamento: 15/03/2024 11:41:10

In un articolo pubblicato nel giugno scorso su Foreign Affairs, l’esperto americano di affari mediorientali Michael Knights scriveva che «L’Iraq può sembrare tranquillo, ma l’apparenza inganna. Il Paese sta entrando in un periodo straordinariamente pericoloso». I fatti accaduti nelle ultime settimane confermano che la ritrovata stabilità dell’antica Mesopotamia è in realtà molto precaria. Il più clamoroso degli sviluppi recenti è la crisi tra la principale comunità cristiana del Paese mediorientale e lo Stato iracheno, scoppiata a metà luglio dopo che un decreto del presidente della Repubblica Abdul Latif Rashid ha revocato al Cardinal Louis Sako il riconoscimento del suo statuto di guida della Chiesa caldea e quindi amministratore dei beni di quest’ultima. Dietro al conflitto ci sarebbe in realtà Rayyan al-Kildani, leader della Brigata Babilonia, una milizia filo-iraniana che da tempo contende al patriarca Sako la rappresentanza dei cristiani iracheni. Benché possa apparire una disputa secondaria (i cristiani costituiscono ormai meno dell’1% della popolazione dell’Iraq), la sua gravità trascende i confini del Paese, e non solo perché Sako è cardinale e Patriarca di una Chiesa, quella caldea, che ha fedeli sparsi in tutto il mondo. La vicenda è infatti paradigmatica delle tante derive che negli ultimi anni hanno contribuito a lacerare il Medio Oriente.

 

Essa segnala innanzitutto che, nonostante il declino dell’ISIS, la presenza dei cristiani nella regione continua a essere a rischio. Il potere di un Kildani è inoltre esemplificativo del peso assunto in molti Paesi dell’area dalle milizie, un fenomeno che mina gli Stati nelle loro stesse fondamenta e allo stesso tempo produce forme di politicizzazione della religione talmente disgreganti da corrodere le comunità religiose al loro interno. È significativo che, negli stessi giorni in cui si consumava la crisi tra il Patriarcato caldeo e la presidenza della Repubblica, in Iraq si sia verificata anche una forte tensione intra-sciita tra i seguaci di Muqtada al-Sadr, imprevedibile leader dell’“Esercito del Mahdi” ai tempi dell’invasione americana dell’Iraq, e il Dawa, il principale partito politico sciita del Paese.

 

Ma la situazione irachena indica anche che il riavvicinamento tra Arabia Saudita e Iran ha forse scongiurato alcune dinamiche particolarmente distruttive, ma non sembra al momento foriero di una reale pacificazione regionale. Il suo effetto è piuttosto il congelamento degli assetti esistenti, a tutto vantaggio, in contesti come l’Iraq e il Libano, delle formazioni paramilitari che nel tempo sono riuscite a imporre la propria egemonia.

 

Di fronte a questo quadro, è difficile non pensare all’entusiasmo suscitato soltanto due anni fa dalla visita di Papa Francesco in Iraq, e dal suo storico incontro a Najaf con il Grande Ayatollah sciita Ali al-Sistani. Oltre ad aver restituito un po’ di speranza a una popolazione stremata da anni di conflitti e violenze, il viaggio del Papa sembrava aver messo in moto un inaspettato processo di riconciliazione intra-islamica tra sunniti e sciiti. All’indomani della visita del Pontefice, le autorità irachene avevano infatti invitato Ahmad al-Tayyeb, Grande Imam della moschea egiziana di al-Azhar, a recarsi in Iraq, aprendo la possibilità di un triangolo del dialogo interreligioso e interconfessionale tra il Vaticano, il Cairo e Baghdad/Najaf. Il viaggio di al-Tayyeb, che avrebbe dovuto incontrare anche lui l’Ayatollah Sistani, sembrava imminente alla fine del 2021, ma finora non ha avuto luogo. Perché?

 

Una recente ricerca della Fondazione Internazionale Oasis, realizzata grazie al contributo del Ministero degli Esteri e della Cooperazione Internazionale, ha cercato di rispondere a questa domanda, mettendo in luce potenzialità e limiti di un dialogo anche intra-musulmano per la pacificazione dell’Iraq e più in generale del Medio Oriente. Tra i problemi evidenziati dalla ricerca vi è la concorrenza interna al campo sciita iracheno. Negli anni successivi all’invasione americana del 2003, l’Ayatollah Sistani si è speso per evitare le violenze settarie e promuovere un modello di Stato in cui tutti, musulmani di varie confessioni e non-musulmani, godano di pari diritti e doveri. Non a caso, in occasione del conflitto tra la presidenza della Repubblica e il Patriarca Sako, al-Sistani ha preso posizione a favore del leader caldeo. La sua visione non è tuttavia incontestata. Egli è senza dubbio la principale autorità sciita al mondo, riconosciuta come tale ben oltre i confini dell’Iraq, ma una delle fonti del suo prestigio, la distanza critica dagli attori politici e la rinuncia a intervenire direttamente nell’azione di governo, è anche un fattore di debolezza e la sua voce è rimasta spesso inascoltata.

 

Finora, le milizie armate si sono dimostrate più efficaci dei progetti di convivenza interreligiosa. La loro vittoria è stata però una rovina per diversi Paesi mediorientali. Le alternative ci sono, ma vanno sostenute, perché i rapporti di forza non giocano a loro favore.

 

*Articolo pubblicato originariamente su Il Riformista il 5 agosto 2023 con il titolo "Islam, il dialogo per pacificare l'Iraq".

 

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
 
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