Le manifestazioni per i funerali pubblici di Hasan Nasrallah, ex leader di Hezbollah, sono cariche di tensioni politiche e simboliche. La giornata di domenica potrebbe segnare una svolta per il Libano e l’intero Medio Oriente, chiamando in causa le questioni più profonde legate alla teologia politica
Ultimo aggiornamento: 20/02/2025 16:52:53
I funerali di Hasan Nasrallah, che si terranno domenica 23 febbraio alla città sportiva di Beirut, si annunciano ad alta tensione. Attese più di 80mila persone da 79 Paesi, per una celebrazione che si concluderà con il trasferimento del corpo dell’ex segretario generale di Hezbollah presso un mausoleo in costruzione non lontano dall’aeroporto. Insieme a lui sarà celebrato anche il suo successore Hicham Safieddine, ucciso nella notte tra il 3 e il 4 ottobre scorso, che sarà invece inumato presso il suo villaggio natale nel sud del Libano.
I rischi di incidenti sono reali in una manifestazione pubblica – ricordiamo che Nasrallah è già stato sepolto in forma privata subito dopo l’uccisione, il 27 settembre scorso – che vuole essere una dimostrazione di forza da parte della “Resistenza”. Se la semplice sfida logistica annessa all’evento non è da poco, il rischio maggiore è quello che colpi sparati in aria in modo incontrollato generino un fuggi-fuggi nella calca, anche se il nuovo segretario generale di Hezbollah, Naim Kassem, ha assicurato che i membri del partito sapranno mantenere la disciplina per cui sono noti. E presumibilmente non mancherà una presenza israeliana, quanto meno nella forma di droni e sorvoli, magari infrangendo il muro del suono come è avvenuto in questi ultimi giorni nei cieli della capitale libanese, senza dimenticare che lo Stato ebraico ha annunciato di voler mantenere la propria presenza in cinque punti strategici nel sud del Paese. Proprio in vista di questi probabili sviluppi, il governo ha decretato la chiusura dell’aeroporto durante i funerali. E sempre per questa ragione si stima che Naim Kassem interverrà a distanza, da una località segreta.
Non sfugge a nessuno la portata simbolica della giornata di domenica. A Beirut si confronteranno due diverse visioni del Medio Oriente. Quella delle milizie, dell’arco di fuoco attorno a Israele, della resistenza a oltranza, di cui Hasan Nasrallah rappresentava il simbolo, e che è stata duramente sconfitta nella guerra iniziata l’8 ottobre 2023. E quella della ricostruzione delle istituzioni, che si è concretizzata in Libano nell’elezione, dopo più di due anni di vuoto istituzionale, del Presidente Joseph Aoun e del Capo del governo Nawaf Salam. Il passaggio è estremamente delicato perché da un lato il cessate il fuoco è molto precario ed esposto alle pulsioni belliciste del governo israeliano e dall’altro una parte della base di Hezbollah fatica a prendere le misure di quanto avvenuto. Emergono, come scrive Jeanine Jakhl per l’Orient le Jour, profonde fratture tra una linea oltranzista, pronta a imbracciare le armi contro lo Stato libanese, essendo al momento incapace di attaccare “l’entità sionista”, e una linea pragmatica che comprende il profondo mutamento di scenario che l’uccisione di Nasrallah e la caduta di Asad in Siria hanno generato.
Questa tensione ha trovato espressione plastica negli scontri che sono avvenuti questa settimana dopo il divieto di atterraggio imposto a un aereo iraniano, accusato di trasportare armi a favore del Partito di Dio. La decisione, a cui è seguita la sospensione a tempo indeterminato dei voli diretti tra Iran e Libano, è stata vissuta come un affronto dai militanti del Partito di Dio, molti dei quali si sono riversati sulle strade accanto all’aeroporto bloccando il traffico aereo. Negli scontri che sono seguiti anche un convoglio della Forza Temporanea delle Nazioni Unite (FINUL) è stato dato alle fiamme e alcuni discorsi incendiari hanno fatto temere una riedizione degli scontri del maggio 2008, quando le milizie di Hezbollah e di Amal si impadronirono di numerosi quartieri sunniti di Beirut ovest e attaccarono alcuni villaggi nella regione drusa dello Chouf.
Domenica sera sapremo se i funerali di Hasan Nasrallah saranno stati l’occasione per Hezbollah per iniziare a rielaborare il lutto della sconfitta o se rappresenteranno l’inizio di un nuovo conflitto. Ma due considerazioni di fondo s’impongono.
La prima. Per ironia della sorte le esequie di Nasrallah si terranno in una cittadella sportiva intitolata a Camille Chamoun, il presidente più filoamericano che la storia libanese ricordi, colui che nel 1958 chiamò in soccorso i marines, dando ai maroniti l’illusione che gli americani, subentrando alla Francia, avrebbero vegliato sulla loro “protezione” a qualsiasi costo. Non fu così. Quello di cui il Libano ha bisogno oggi non è né la riedizione della linea di Camille Chamoun, tentazione permanente nella mente di una parte dell’establishment sia maronita sia sunnita, né di quella di Hasan Nasrallah, sconfitta sul campo. Sembra piuttosto da recuperare la linea del successore di Chamoun, il generale Fouad Chehab, l’ultimo politico libanese a essersi seriamente adoperato per una costruzione delle istituzioni statali, che passò attraverso una serie di riforme, modernizzazioni e un piano di infrastrutture di cui oggi il Libano avrebbe enorme necessità.
Questo per quanto riguarda Beirut. Ma le esequie di Hasan Nasrallah pongono anche una questione più ampia, che riguarda tutto il Medio Oriente e, aldilà di esso, anche il resto del mondo. È l’identificazione tra religione e politica, di cui Hezbollah, il Partito di Dio, è stato fin dal suo nome l’instancabile alfiere. «Religione e Stato sono fratelli gemelli», avrebbe affermato Ardashir I, il fondatore dell’impero sasanide (r. 224-241 d.C.), in una famosa massima ripresa instancabilmente nel pensiero politico islamico classico. E in effetti, finché la politica sembra dare ragione alla religione, attraverso una serie di vittorie o quantomeno di pareggi presentabili come vittorie, i due gemelli si sostengono a vicenda. Ma c’è anche il rovescio della medaglia. A leggere l’ultimo discorso di Nasrallah, disponibile sul sito di Oasis in lingua francese, si constata come i presupposti della sua azione, che fino all’inizio della guerra di sostegno a Gaza si erano rivelati corretti, siano stati smentiti dallo squilibrio di forze creato dall’introduzione, da parte di Israele, di nuove tecnologie militari. Nulla di particolarmente insolito, la storia è piena di momenti in cui un esercito, capitalizzando un progresso tecnologico prima del nemico, consegue una vittoria decisiva, pensiamo allo scontro finale tra ottomani e mamelucchi in Medio Oriente o, più vicino a noi, al giugno 1940 in Francia. Eppure, il dramma della massima di Ardashir è che una sconfitta militare diventa immediatamente una questione teologica. Se il Partito di Dio è stato sconfitto, Dio è stato sconfitto con esso? È il problema di fondo della teologia politica. È il problema a cui le esequie di Nasrallah non potranno sottrarsi.
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